Nessun consenso se i dati sensibili sono utilizzati per esigenze di difesa

E’ legittimo l’annullamento del matrimonio se una della parti contraenti era affetta da un disturbo, come il bipolarismo di tipo I, tale da influire sulle sue capacità di discernimento.

E’ quanto emerge dalla sentenza n. 16284, depositata il 16 luglio 2014, della Corte di Cassazione. Il caso. La Corte d’appello accoglieva la domanda dell’uomo volta ad ottenere la dichiarazione d’efficacia nell’ordinamento italiano della sentenza del Tribunale Ecclesiastico, che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da lui contratto con la moglie. Secondo i Giudici territoriali ricorrevano tutte le condizioni previste dall’art. 8, n. 2, l. n. 121/1985. In particolare, avevano escluso che la sentenza ecclesiastica, accertante l’incapacità della moglie a contrarre matrimonio per difetto di discrezione e giudizio, in quanto affetta da disturbo bipolare di tipo I, fosse contraria alle disposizioni dell’ordinamento interno che tutelano la privacy e la riservatezza delle persone. Era necessario chiedere il consenso dell’interessata? Ricorreva per cassazione la donna, lamentando la violazione dell’art. 8, n. 2, l. n. 121/1985, affermando che i Giudici di merito avevano errato nel ritenere che la sentenza ecclesiastica non avesse violato le norme dell’ordine pubblico italiano. Secondo la stessa, la Corte d’appello aveva fondato il giudizio su documenti sanitari diversi dall’unico certificato medico prodotto in giudizio dalla donna. Censurava, inoltre, la decisione del Giudice perché basata su una diagnosi acquisita con modalità contrarie all’ordine pubblico. In particolare il Giudice aveva dato rilevanza alle testimonianze dei testi, a cui non era però consentito effettuare valutazioni o esprimere giudizi, e ai documenti contenenti dati sensibili irritualmente acquisiti senza il consenso dell’interessata. No, se i dati sensibili sono utilizzati per esigenze di difesa. Il Giudice di merito aveva ricordato che effettivamente, ai sensi degli artt. 4 e 11 del d.lgs. n. 196/2003 i dati personali oggetto di trattamento andavano gestiti rispettando i principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità del loro utilizzo, ma aveva anche precisato che, ai sensi dell’art. 24 dello stesso decreto, non era necessario il preventivo consenso dell’interessato, se questi sono impiegati per esigenza di difesa nel giudizio nei limiti in cui ciò sia necessario. D’altra parte, aveva anche accertato che la decisione del Tribunale Ecclesiastico si fondava sulle dichiarazioni rese dalle parti e dai testi, oltreché sulla CTU espletata nel corso del giudizio, servita non a provare che la donna era affetta da una determinata patologia, ma per capire se tale patologia avesse comportato disfunzioni tali da rendere la stessa incapace a contrarre matrimonio. Le censure esulano dai limiti del sindacato di legittimità. La Cassazione, nel valutare la questione in esame, dichiara i motivi inammissibili, perché non contestano né il principio di diritto affermato dalla Corte territoriale secondo cui non è necessario il consenso dell’interessato al trattamento dei dati personali ove questi siano utilizzati nei limiti in cui ciò sia reso necessario da esigenze di difesa in giudizio né l’accertamento col quale i Giudici territoriali avevano escluso che la sentenza ecclesiastica si fondasse su certificazioni sanitarie acquisite senza il consenso della donna. Il ricorso, semplicemente, riproponeva la questione della contrarietà all’ordine pubblico della sentenza oggetto di deliberazione.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 29 aprile – 16 luglio 2014, n. 16284 Presidente Luccioli – Relatore Cristiano Svolgimento del processo La Corte d'appello di Catanzaro, con sentenza del 3.8.011, ha accolto la domanda di S.G. volta ad ottenere la dichiarazione dell'efficacia nell'ordinamento italiano della sentenza del Tribunale Ecclesiastico di Reggio Calabria che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario da lui contratto con la signora R.G.M. . La corte territoriale ha ritenuto che ricorressero tutte le condizioni previste dall'art. 8 n. 2 della l. n. 121/85 ed ha, in particolare, escluso che la sentenza ecclesiastica, che aveva accertato l'incapacità della R. a contrarre matrimonio per difetto di discrezione e giudizio, in quanto affetta da disturbo bipolare di tipo I, fosse contraria alle disposizioni dell'ordinamento interno che tutelano la privacy e la riservatezza delle persone. Nel respingere la tesi difensiva svolta sul punto dalla convenuta, il giudice del merito ha premesso che, a norma degli artt. 4 ed 11 del d. lgs. n. 196/03, i dati personali oggetto di trattamento vanno gestiti rispettando i canoni della correttezza, pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità del loro utilizzo ma che, ai sensi dell'art. 24 del d. lgs. cit., non serve il preventivo consenso dell'interessato ove essi siano impiegati per esigenze di difesa nel giudizio negli strétti limiti in cui ciò sia necessario ha peraltro accertato in fatto che la decisione del tribunale ecclesiastico si fondava sulle dichiarazioni rese dalle parti e dai testi e faceva menzione di un unico documento sanitario, prodotto dalla stessa R. , e che la ctu espletata nel corso del procedimento non era servita a provare che la signora era affetta da disturbo bipolare al momento del matrimonio, ma per capire se tale patologia avesse comportato disfunzioni od influito sulle sue capacità di discernimento. La sentenza è stata impugnata da R.G.M. con ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui S.G. ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 8 n. 2 L. n. 121/85 e correlato vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che la corte territoriale ha errato nel ritenere che la sentenza ecclesiastica non abbia violato le norme dell'ordine pubblico italiano. Assume che, contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo, la sentenza ecclesiastica, nella quale la sua patologia era definita disturbo bipolare di tipo I , era sicuramente fondata su documenti sanitari diversi dall'unico da lei prodotto in giudizio, costituito da un certificato medico rilasciato dall'U.O. psichiatrica presso cui era in cura, che attestava che ella era affetta da disturbo bipolare di tipo II con recupero interepisodico completo . Sostiene inoltre che la ctu medico-legale, cui ella aveva rifiutato di sottoporsi e che era stata pertanto condotta su quei documenti, evidentemente prodotti a sua insaputa dallo S. , era servita proprio a provare l'esistenza della patologia, atteso che nessun teste sarebbe stato in grado di distinguere fra disturbo bipolare di I o di II tipo e di diagnosticarlo. 2 Col secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 4, 5, 11 e 24 del d.lgs. n. 196/03 oltre che vizio di motivazione, la ricorrente deduce che il tribunale ecclesiastico ha posto a base della decisione una diagnosi acquisita con modalità contrarie all'ordine pubblico italiano, in quanto o fondata su dichiarazioni dei testi, cui non è consentito di effettuare valutazioni o esprimere giudizi, o fondata su una ctu svolta su documenti contenenti dati sensibili irritualmente acquisiti al giudizio in difetto del suo consenso. I motivi, che sono fra loro connessi e che possono essere congiuntamente esaminati, vanno dichiarati inammissibili. Essi, infatti, pur se apparentemente diretti a far valere vizi della sentenza impugnata, non contestano specificamente né il principio di diritto enunciato dalla corte territoriale, secondo cui non è necessario il consenso dell'interessato al trattamento dei dati personali ove questi siano utilizzati nei limiti in cui ciò sia reso necessario da esigenze di difesa in giudizio, né l'accertamento con il quale la corte ha, ad abundantiam , escluso in fatto che la sentenza ecclesiastica si fondasse su certificazione sanitaria acquisita senza il consenso della R. , ma si limitano a riproporre nella presente sede la questione della contrarietà all'ordine pubblico della sentenza oggetto di delibazione, sulla scorta dei medesimi argomenti già esaminati e respinti dal giudice a quo . Le censure esulano, pertanto, dai limiti del sindacato di legittimità, che va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione della sentenza che ha deciso sulla delibazione, e non attraverso l'apprezzamento in via diretta della sentenza delibata. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Non ricorrono i presupposti per la condanna della ricorrente ex art. 96 cp. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 4.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese forfetarie e accessori di legge. Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati.