Impossibile ricostruire l’asse ereditario? La banca è responsabile insieme ai coeredi

L’istituito di credito è responsabile della irregolare tenuta del rapporto di conto corrente per non aver contabilizzato le operazioni compiute in vita dal de cuius e per aver svolto adempimenti parziali ed incompleti, rendendo così impossibile la ricostruzione della effettiva posizione del cliente e dell’asse ereditario.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 20899 del 12 settembre 2013. Il diritto degli erediti all’accertamento del patrimonio del de cuius. In seguito al decesso del padre due dei tre figli agiscono per l’accertamento della loro qualità di eredi e per la ricostruzione dell’asse ereditario del genitore, citando altresì l’istituto di credito presso cui il de cuius intratteneva rapporti bancari, e chiedendo la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno per l’illegittima disposizione dei capitali del de cuius che aveva comportato l’impossibilità di ricostruire l’asse ereditario del defunto genitore. Mentre in primo grado veniva rigettata la domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’istituto di credito, in secondo grado veniva dichiarata la responsabilità di quest’ultimo per il pregiudizio subito dai coeredi costituito dalla impossibilità di determinare con esattezza l’asse ereditario del de cuius . L’istituito di credito interponeva ricorso per Cassazione deducendo, per quanto qui interessa, la propria irresponsabilità in quanto all’epoca della morte del correntista non vi erano disposizioni normative che imponessero l’obbligo della forma scritta per i contratti bancari e per le operazioni ad essi connesse. L’istituto di credito è tenuto ad agevolare la ricostruzione del rapporto tenuto con il cliente. Con la pronuncia in rassegna la Corte afferma che pur essendo fondato il rilievo della non necessità, all’epoca della morte del correntista, della forma scritta per la stipula dei contratti bancari, l’istituto di credito è comunque responsabile per l’irregolare tenuta del rapporto di conto corrente, per non aver contabilizzato le operazioni eseguite in vita dal de cuius e per aver svolto adempimenti parziali ed incompleti, che hanno reso impossibile la ricostruzione della posizione effettiva del cliente e, in seguito alla sua morte, la ricostruzione dell’asse ereditario, con conseguente nocumento in capo agli eredi. In tal modo l’istituto di credito, secondo quanto affermato dalla Corte, ha quindi reso difficilmente accertabile una situazione che avrebbe dovuto essere agevolmente conoscibile, creando così un danno, risarcibile, in capo agli eredi. Diligenza e doveri dell’istituto di credito. Dai principi sottesi alla pronuncia in commento si evince chiaramente che l’istituto di credito ha specifici doveri che gli impongono di rendere agevolmente conoscibile il rapporto banca-cliente. Ritiene la Corte che l’istituto di credito doveva adottare sistemi di inquiry anagrafico, effettivi e funzionanti, in base ai quali tutte le operazioni del medesimo cliente potevano individuarsi mediante lo stesso codice numerico. In altri termini, secondo la sentenza in rassegna, in capo alla banca sono individuabili una serie di doveri impliciti alla natura del rapporto contrattuale che intrattiene con il cliente. Per tale via, la Corte giunge quindi ad affermare che pur non rinvenendosi, all’epoca in cui il correntista intratteneva il rapporto di conto corrente, una disposizione di legge che imponesse alla banca la forma scritta per le operazione compiute, questa era comunque tenuta, in base all’ordinaria diligenza, a rendere agevolmente accertabili le operazioni compiute dal cliente, anche al fine di consentire agli eredi di ricostruire l’asse ereditario in seguito alla morte del correntista.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 29 maggio - 12 settembre 2013, n. 20899 Presidente Berruti – Relatore Scrima Svolgimento del processo Con atto notificato nel 1991 D.F.G. e D.F.R. convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale della Spezia, la Cassa di Risparmio della Spezia, D.F.M. , R.U. e G.G. chiedendo accertarsi la loro qualità di eredi legittimi del padre D.F.G. e la nullità delle donazioni effettuate dal loro dante causa in favore di D.F.M. e di G.G. chiedevano, altresì, gli attori che queste ultime fossero condannate a restituire loro tutte le somme percepite a titolo gratuito da D.F.G. , oltre accessori e che D.F.M. e il manto della stessa, R.U. , nonché G.G. fossero condannati alla restituzione della porzione di patrimonio relitto del de cuisu , della quale si erano appropriati, oltre interessi. Gli attori chiedevano, infine, che la Cassa di Risparmio della Spezia fosse dichiarata responsabile, in solido con D.F.M. , R.U. e G.G. , per gli atti di illegittima disposizione dei capitali del de cuius già depositati presso l'agenzia OMISSIS del detto istituto di credito e che tutte le parti fossero condannate al risarcimento del danno procurato agli attori nella misura da accertarsi in causa. Rappresentavano gli attori che il 10 luglio 1986 era deceduto ab intestato il loro genitore e che alcuni giorni dopo D.F.M. - affiliata da D.F.G. , giusta autorizzazione del GT della Spezia del 9 marzo 1965 — li aveva informati del decesso, comunicando che l'asse paterno comprendeva solo beni di modico valore. Essi avevano accettato l'eredità con beneficio di inventario chiedendo alla Cassa di Risparmio della Spezia la verifica della posizione del dante causa il 9 settembre 1986 l'istituto aveva riferito sui rapporti relativi al D.F. aperti al momento del decesso, omettendo di riferire sui rapporti antecedenti e sulle posizioni cointestate con gli altri soggetti poi evocati in giudizio. Certi che il genitore, già facoltoso imprenditore, fosse stato titolare di depositi consistenti, in epoca antecedente a quella indicata dall'istituto come momento iniziale del rapporto, gli attori avevano presentato presso la Procura della Repubblica della Spezia un esposto contro i funzionati della predetta agenzia per le irregolarità e gli illeciti compiuti in danno del dante causa. All'esito di tale iniziativa il PM aveva nominato un perito che, in adempimento dell'incarico, aveva riferito del compimento di movimenti di capitale che, ad avviso degli attori, integravano donazioni mille per difetto di forma effettuate in favore di D.F.M. e G.G. . La Cassa di Risparmio della Spezia si costituiva e contestava le domande proposte nei suoi confronti, chiedendone il rigetto. All'esito di una complessa e travagliata istruttoria il Tribunale di La Spezia, con sentenza del 27 agosto 2003, accertata la qualità di eredi legittimi degli attori, rigettava la domanda risarcitoria formulata nei confronti dell'istituto di credito, ritenendo che non erano emersi elementi che potessero far ipotizzare un occultamento di documentazione ad opera dei funzionati della Cassa di Risparmio della Spezia e accoglieva in parte le ulteriori domande di condanna proposte dagli attori. A tale ultimo riguardo il Tribunale ricostruiva in L. 86.511.452 il patrimonio del defunto e condannava, quindi, la G. e D.F.M. a rifondere rispettivamente la somma di L. 30.000.000 e di L. 16.061.452, rigettava la domanda di maggior danno e le ulteriori domande risarcitorie proposte. Tale decisione veniva appellata dagli originari attori, in via principale, e da G.G. , in via incidentale. La Corte di appello di Genova, con sentenza del 28 dicembre 2008 separava le domande proposte nei confronti della Cassa di Risparmio della Spezia e, decidendo sulle stesse in via non definitiva, dichiarava il predetto istituto di credito responsabile del pregiudizio subito dagli attori per l'impossibilità di determinare l'asse del de cuius F.G. e lo condannava al risarcimento dei danni e disponeva, con separata ordinanza, lo svolgimento di attività volte ad acquisire elementi per determinare equitativamente il danno inoltre, definendo il procedimento nei confronti degli altri soggetti convenuti in primo grado, li condannava al pagamento, in favore degli originari attori, delle somme indicate in dispositivo e regolava le spese. Avverso l'indicata sentenza della Corte di merito la Cassa di Risparmio della Spezia ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. D.F.G. e D.F.R. hanno resistito con controricorso. D.F.M. , R.U. e G.G. non hanno svolto attività difensiva in questa sede. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. Al ricorso in esame si applica il disposto di cui all'art. 366 bis c.p.c. - inserito nel codice di rito dall'art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile, ai sensi del comma 2 dell'art. 27 del medesimo decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati dalla data di entrata in vigore dello stesso 2 marzo 2006 e successivamente abrogata dall'art. 47, comma 1, lett. d della legge 18 giugno 2009, n. 69 a decorrere dal 4 luglio 2009 - in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata 28 dicembre 2006 . 2. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., la ricorrente rappresenta che la domanda formulata nei suoi confronti dagli attori nell'originario atto di citazione era di declaratoria di responsabilità per fatto illecito, imputandosi ad essa di aver illegittimamente disposto dei capitali di D.F.G. a favore degli e in complicità con gli altri convenuti, e che in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado e nell'atto di citazione in appello gli attori, in ragione della confusionaria e negligente gestione dei rapporti intrattenuti con il de cuius D.F.G. , avevano chiesto di accertare e dichiarare la responsabilità della Cassa di Risparmio nell'impossibilità di determinare l'esatto ammontare del patrimonio del loro genitore e di condannarla al risarcimento dei danni. Ad avviso della ricorrente la domanda da ultimo proposta sarebbe nuova e, pertanto, inammissibile, essendo relativa a responsabilità contrattuale, sicché non si configurerebbe nella specie una mera emendatio libelli , come ritenuto dalla Corte di merito, ma una mutatio libelli . 2.1. Il motivo é infondato. Ed invero, alla luce delle richieste formulate nell'atto introduttivo e riportate pure nel controricorso dagli originali attori volte alla declaratoria della responsabilità dell'istituto di credito, in solido con gli altri convenuti, per aver illegittimamente disposto dei capitali di D.F.G. depositati presso la locale agenzia OMISSIS della Cassa di Risparmio della Spezia risulta evidente che in sede di precisazione delle conclusioni e nell'atto di appello l'originaria domanda proposta nel 1991 nei confronti della banca con cui il de cuius intratteneva rapporti contrattuali non è stata mutata ma si è proceduto ad una mera emendato della stessa, provvedendosi a meglio precisarla e specificarla. 3. Con il secondo motivo la parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1325, n. 4, c.c Assume la Banca che é incontestato tre le parti che il rapporto tra essa e D.F.G. si è interrotto nel 1986, alcuni anni prima, quindi, dell'entrata in vigore della legge 17 febbraio 1992, n. 154, che ha inserito l'obbligo di forma scritta ad probationem per i contratti bancali, e del d.lgs. n. 385 del 1993, che ha prescritto la forma scritta ad substantiam per i detti contratti. Lamenta, pertanto, la ricorrente che la Corte di appello, nella sentenza impugnata, abbia affermato che appartiene addirittura al notorio che il contratto di conto corrente bancario vada regolato per iscritto e che deve ritenersi che la legge del 1992 abbia regolato in modo più puntuale la attività degli istituti di credito ma, quanto alla necessità della forma scritta dei contratti ad essi inerente, non abbia che ribadito un obbligo che già si ricavava dalle disposizioni di legge . Ad avviso della banca, tale affermazione della Corte di merito finirebbe per inficiare la sentenza impugnata, in quanto dal disposto dell'art. 1325, n. 4, c.c. si evince che la forma scritta è requisito essenziale del contratto solo nel caso in cui la legge prescrive tale forma sotto pena di nullità, sicché, mancando all'epoca tale previsione, la banca avrebbe correttamente operato. 3.1. In relazione al secondo motivo la ricorrente formula il seguente quesito Dica l'ecc.ma Corte se, prima dell'entrata in vigore dell'art. 3 legge n. 154 del 1992, i contratti bancari e finanziari fossero assoggettati al requisito della forma, ad probationem o ad substantiam . 3.2. Il motivo va disatteso, pur a voler prescindere dalla non del tutto adeguata formulazione del quesito proposto, essendo lo stesso connotato comunque da genericità ed astrattezza, laddove, invece, secondo i canoni indicali dalla giurisprudenza di questa Corte, il quesito di diritto deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere, dalla sua sola lettura, l'errore asseritamente compiuto dal giudice e deve, pertanto, compendiare la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da quel giudice e la diversa regola di diritto che, ad avviso della parte ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie Cass., ord., 17 luglio 2008, n. 19769 Cass. 13 marzo 2013, n. 6286, in motivazione e non può risolversi, sostanzialmente, nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza o meno delle propugnate petizioni di principio Cass. 7 marzo 2012, n. 3530 . Ed invero, pur essendo fondato il rilievo in relazione alla non necessità, all'epoca dei fatti di cui si discute, della forma scritta per la stipula dei contratti bancari in questione v. Cass. 24 giugno 2008, n. 17090 , tuttavia, il motivo non coglie nel segno, atteso che la Corte di merito, analizzando il comportamento dell'attuale ricorrente e dei suoi funzionali, ne ha evidenziato la contrarietà ai doveri loro incombenti, ponendo in rilievo come la prova della irregolare tenuta del rapporto dedotto in causa si evinca agevolmente e confessoriamente dalle difese stesse dell'istituto , ed ha altresì sottolineato che la cassa ha . ammesso di non avere contabilizzato le operazioni eseguite dal D.F. , e di avere svolto nella documentazione adempimenti parziali ed incompleti, che hanno reso impossibile la ricostruzione della effettiva posizione del cliente ed ha conclusivamente al riguardo ritenuto che la confusiva caoticità della gestione dei rapporti in questione ha prodotto agli attori un danno, che va individuato nella impossibilità di ricostruire in modo piano e regolare una situazione che avrebbe dovuto essere agevolmente conoscibile, ove l'istituto si fosse dotato di sistemi di inquiry anagrafico effettivo e funzionante, in virtù del quale tutte le operazioni riconducibili al medesimo cliente vengono individuate col medesimo codice numerico . 4. Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta contraddittorietà della motivazione circa il punto decisivo della controversia individuato nell'impossibilità di ricostruzione dell'asse ereditario. In particolare la Cassa assume essere contraddittoria la sentenza impugnata laddove in motivazione ritiene da un lato che le risultanze istruttorie di cui alla ctu costituiscano elemento probante per la ricostruzione dell'asse ereditario e per l'emanazione di una sentenza di condanna restitutoria in capo a M D.F. , R.U. e G.G. e contestualmente, dall'altro lato, ritiene sussistente un comportamento contrattualmente inadempiente della Cassa tale da rendere impossibile la ricostruzione del medesimo asse ereditario. 4.1. Il motivo é inammissibile, tendendo ad una rivalutazione del merito preclusa in questa sede. Come più volte affermato da questa Corte - e il principio va ribadito in questa sede - il disposto dell'art. 360, n. 5, c.p.c. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti. Conseguentemente, alla cassazione della sentenza per vizi di motivazione si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte. A quanto appena evidenziato deve aggiungersi che il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi che sorregge il decisum adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché - come nel caso all'esame - dalla lettura della sentenza non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice Cass., sez. un., 22 dicembre 2010, n. 25984 . 5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. 6. Le spese del presente giudizio di cassazione vanno integralmente compensate tra le parti costituite, tenuto conto della particolarità delle questioni trattate non vi è, invece, luogo a provvedere per le dette spese nei confronti degli intimati, non avendo gli stessi svolto attività difensiva in questa sede. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero tra le parti costituite le spese del presente giudizio di legittimità.