C’è abuso del processo quando il creditore si accanisce verso il debitore attraverso la moltiplicazione di spese esose ed evitabili

Se il debitore ha l’obbligo imposto dall’art. 1176 c.c. di adempiere puntualmente la propria obbligazione, il creditore ha quello non meno cogente imposto dall’art. 1175 c.c. di collaborare con il creditore per facilitarne l’adempimento di non aggravare inutilmente la sua posizione, di tollerare quei minimi scostamenti nell’esecuzione della prestazione dovuta che siano insuscettibili di arrecargli un apprezzabile sacrificio. Il creditore il quale, violando tali precetti, introduca un giudizio vuoi di cognizione, vuoi di esecuzione, il quale altro scopo non abbia che far lievitare il credito attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, compie un abuso del processo, il quale comporterà l’inammissibilità della domanda sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, sia in sede di impugnazione.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 7409/21, depositata il 17 marzo. Il ricorrente proponeva dinnanzi al Giudice di Pace territorialmente competente opposizione a sanzione amministrativa, comminata per violazioni al codice della strada, opposizione che vinceva con il riconoscimento in suo favore delle spese legali. Il ricorrente notificava la sentenza all’Ente territoriale soccombente, il quale a sua volta, informava il suo difensore che a partire da una certa data sarebbe stata a sua disposizione la somma liquidata in sentenza a titolo di spese legali in virtù dell’emissione di un mandato di pagamento invitava, pertanto, il creditore a ritirare la suddetta somma. Successivamente, trascorsi un anno e mezzo da questi fatti, il ricorrente iniziava ugualmente l’ azione esecutiva nei confronti del Comune soccombente, intimando precetto per un importo dieci volte superiore rispetto a quello che era stato liquidato in sentenza. Tale importo era stato determinato dal creditore aggiungendo al credito indicato nel titolo esecutivo costituito come si è detto dalla sentenza di condanna al pagamento delle spese di lite del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa le spese successive di esecuzione. L’Ente precettato proponeva opposizione all’esecuzione , deducendo di avere già adempiuto la propria obbligazione emettendo il mandato di pagamento innanzi indicato nel termine di 120 giorni dalla notifica della sentenza. Il Giudice di Pace adito accoglieva con sentenza l’opposizione dichiarando che l’Ente territoriale aveva pagato quanto dovuto entro i termini di legge. Il creditore, tuttavia, proponeva appello avverso la sentenza resa dal Giudice di Pace, appello che veniva rigettato dal Tribunale adito per le stesse motivazioni rese nella sentenza di primo grado. La sentenza di appello veniva impugnata dal creditore con ricorso fondato su un solo articolato motivo. Gli Ermellini, hanno ritenuto inammissibile il motivo di ricorso proposto dal ricorrente con il quale, quest’ultimo, denunciava che il Tribunale aveva erroneamente negato il suo diritto ad ottenere la refusione delle spese vive e dei diritti di avvocato dovuti per le prestazioni eseguite successivamente all’emissione del titolo esecutivo, in assenza di pagamento spontaneo del debitore. Inoltre, continuava il ricorrente, il Tribunale ha erroneamente ritenuto legittima la sottrazione arbitraria delle spese per ottemperare il mandato di pagamento, malgrado il creditore non avesse mai avanzato alcuna richiesta al tesoriere. Per i Giudici di legittimità il ricorso è inammissibile per prima cosa per difetto di specificità ex art. 366, nn. 4 e 6 c.p.c. e poi anche per evidente e indiscutibile abuso del processo compiuto dal ricorrente sia con la proposizione del ricorso per cassazione che con l’iniziativa in executivis . In particolare, per il Collegio, con riguardo al primo motivo si inammissibilità, il ricorrente ha mosso una censura generica e indeterminata che non spiega a quale titolo e per quali voci pretende dal debitore il decuplo dell’importo portato dal titolo esecutivo. In mancanza di tali indicazioni, proseguono i relatori, non è possibile per l’Organo giudicante valutare se un eventuale cassazione con rinvio possa comunque portar frutto all’odierno ricorrente e dunque, in definitiva, impedisce anche di valutare se la censura sia sottesa da un reale interesse a ricorrere ex art. 100 c.p.c Relativamente invece, alla seconda ragione di inammissibilità, i Giudici rinviando alla consolidata giurisprudenza della loro Corte, ricordano che l’ abuso del processo si configura come una condotta caratterizzata da un elemento oggettivo ed uno soggettivo. Sul piano oggettivo si ha abuso del diritto quando lo strumento processuale viene utilizzato per fini diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, ed illegittimi. Non, dunque, per tutelare diritti conculcati ma, per crearne di nuovi ed ingiustificati ad arte, ovvero per nuocere con intenti emulativi alla controparte. Sul piano soggettivo, invece si ha abuso del diritto quando la condotta innanzi descritta venga tenuta in violazione del generare dovere di correttezza ex art. 1175 c.c. e buona fede ex art. 1375 c.c Secondo i Giudici, nel caso di specie, l’odierno ricorrente, contestando all’Amministrazione comunale di avere indebitamente tenuto le spese di tesoreria, peraltro, di modico valore, ha rifiutato l’adempimento per pretendere poi – un anno e mezzo dopo – il pagamento di un importo dieci volte superiore a quello portato dal titolo esecutivo. Ricorre per questo, tanto l’elemento oggettivo dell’abuso del processo, in quanto l’esecuzione minacciata dal ricorrente altro scopo non risulta avere che l’illegittima lievitazione del credito quanto l’elemento soggettivo, dal momento che qualunque persona avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, avvedersi della insostenibilità di una simile censurabile tecnica moltiplicatoria dei crediti. La Corte, infine, ha ritenuto che la manifesta inammissibilità del ricorso, la censurabilità dei presupposti di atto su cui si fonda, l’inconsistenza delle ragioni addotte dal ricorrente a fondamento di esso, costituiscono indici inoppugnabili della mala fede, o, almeno, della colpa grave del ricorrente, che ne giustificano la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 13 novembre 2020 – 17 marzo 2021, n. 7409 Presidente Vivaldi – Relatore Rossetti I fatti di causa 1. R.G. propose dinanzi al Giudice di pace di Roma opposizione a sanzione amministrativa, comminata per violazioni al C.d.S Vinse la causa, ed il Giudice di pace gli liquidò a titolo di spese legali la somma di Euro 60. R.G. il 1 luglio 2009 notificò al Comune di Roma la sentenza. Il 30 luglio 2009 il Comune informò il difensore di R.G. che a partire dal 3 agosto 2009 sarebbe stata a sua disposizione la somma di Euro 82,62, in virtù dell’emissione di un mandato di pagamento. Invitò altresì il creditore a ritirare la suddetta somma. 2. Dopo un anno e mezzo da questi fatti, il 4.11.2010, R.G. iniziò ugualmente l’azione esecutiva nei confronti del Comune di Roma, intimando precetto per l’importo di Euro 622,32. Questo importo venne determinato dal creditore aggiungendo al credito indicato nel titolo esecutivo costituito, come s’è detto, dalla sentenza di condanna al pagamento delle spese di lite del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa le spese successive di esecuzione. 3. Il Comune di Roma propose opposizione all’esecuzione, deducendo di avere già adempiuto la propria obbligazione emettendo il mandato di pagamento sopra ricordato nel termine di 120 giorni, di cui al D.L. n. 669 del 1996, art. 14, conv. dalla L. n. 30 del 1997 secondo cui le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici non economici e l’ente Agenzia delle entrate - Riscossione completano le procedure per l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l’obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata nè alla notifica di atto di precetto . 4. Il Giudice di pace di Roma con sentenza n. 37391 del 2013 nessuna delle parti ne indica la data , definendo la fase di merito dell’opposizione, la accolse, e dichiarò che il Comune di Roma aveva pagato quanto dovuto nel termine di 120 giorni dalla notifica della sentenza. La decisione venne appellata dal soccombente. 5. Con sentenza 14 marzo 2017 il Tribunale di Roma rigettò il gravame. Ritenne il Tribunale che il giudice di primo grado deve liquidare le spese di lite tenendo conto anche delle attività consequenziali necessarie svolte successivamente alla sentenza di primo grado, e pertanto tali importi non possono essere liquidati autonomamente, salva la possibilità di impugnare il capo della sentenza relativo alle spese di lite qualora l’importo fosse considerato insufficiente . Ne ha tratto il corollario che il Comune di Roma, pagando 82 Euro entro 120 giorni dalla notifica del titolo, aveva adempiuto la propria obbligazione e null’altro doveva al creditore. 6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da R.G. con ricorso fondato su un solo articolato motivo illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso Roma Capitale. Le ragioni della decisione 1. L’unico motivo di ricorso contiene varie censure frammiste, che possono essere così riassunte a il Tribunale ha erroneamente negato il diritto del creditore ad ottenere dal debitore la rifusione delle spese vive e dei diritti di avvocato dovuti per le prestazioni eseguite successivamente alla emissione del titolo esecutivo, in assenza di pagamento spontaneo del debitore b il Tribunale ha erroneamente ritenuto legittima la sottrazione arbitraria di Euro 5,30 a titolo di spese, malgrado il creditore non avesse mai avanzato alcuna formale richiesta al tesoriere . Ad illustrazione di queste censure il ricorrente deduce che - quando il giudice di merito accoglie la domanda giudiziale e condanna la parte soccombente alle spese, non ha alcun obbligo di dover liquidare preventivamente e al buio anche le prevedibili spese che il creditore sosterrà successivamente al deposito della sentenza legittimamente, pertanto, la rifusione di tali spese può essere pretesa non già impugnando la sentenza, ma indicandole nel precetto - il Tribunale non ha indicato le legittime e valide ragioni per le quali ha reputato che al creditore non fosse dovuta alcuna ulteriore somma, nonostante la mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore - il principio di autoliquidazione delle spese in sede di precetto deve applicarsi anche nella fase che immediatamente precede la notifica del precetto, e cioè quella compresa fra la liquidazione contenuta nel titolo esecutivo e le successive legittime iniziative del creditore per conseguire quanto in proprio favore in esso indicato - l’ordine degli avvocati di Roma e i presidenti di due sezioni del Tribunale della stessa città avevano concordato una tabella degli onorari dovuti al difensore del creditore per l’attività svolta dopo la pubblicazione della sentenza ma prima dell’avvio dell’azione esecutiva, così dimostrando che tali compensi sono effettivamente dovuti - tale compenso era altresì espressamente previsto dalla tariffa professionale vigente ratione temporis, e cioè il decreto ministeriale 127 del 2004 - di conseguenza, l’emissione del mandato di pagamento da parte del Comune di Roma entro 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo non poteva ritenersi un esatto adempimento dell’obbligazione gravante sull’amministrazione, ed il creditore poteva legittimamente rifiutare quell’adempimento, in quanto parziale. 2. Il ricorso è inammissibile per due diverse ed indipendenti ragioni. La prima ragione è il difetto di specificità del ricorso, ex art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6. Il ricorrente, infatti, in buona sostanza si è presentato dinanzi a questa Corte sostenendo che, avendo un titolo esecutivo per l’importo di Euro 60, e dopo che il debitore gliene aveva offerti 82, avrebbe ancora diritto al pagamento della somma di Euro 622,32. Affinché una censura di questo tipo possa dirsi ammissibile, sarebbe stato necessario che il ricorrente chiarisse a quale titolo e per quali voci pretende dal debitore il decuplo dell’importo portato dal titolo esecutivo. In mancanza di tali indicazioni, che dovevano essere contenute nel ricorso a pena di inammissibilità art. 366 c.p.c., n. 6 , non è possibile per questa Corte valutare se una eventuale cassazione con rinvio possa comunque portar frutto all’odierno ricorrente e dunque, in definitiva, impedisce anche di valutare se la censura sia sottesa da un reale interesse a ricorrere, ex art. 100 c.p.c 3. La seconda ragione di inammissibilità è che l’odierno ricorrente col presente ricorso, e prima ancora con la sua iniziativa in executivis, ha compiuto un abuso del processo, tanto evidente quanto indiscutibile. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte l’abuso del processo è una condotta caratterizzata da un elemento oggettivo ed uno soggettivo. Sul piano oggettivo si ha abuso del processo quando lo strumento processuale viene utilizzato per fini diversi ed ulteriori da quelli suoi propri, ed illegittimi. Non, dunque, per tutelare diritti conculcati, ma per crearne di nuovi ed ingiustificati ad arte, ovvero per nuocere con intenti emulativi alla controparte. Sul piano soggettivo si ha abuso del processo quando la condotta di cui sopra venga tenuta in violazione del generale dovere di correttezza art. 1175 c.c. e buona fede art. 1375 c.c. . 3.1. Il dovere di correttezza come si legge al § 558 della Relazione al codice civile è . spirito di lealtà, . di chiarezza e di coerenza, fedeltà e rispetto a quei doveri che, secondo la coscienza generale, devono essere osservati nei rapporti tra consociati , e consiste nel richiamare il creditore a prendere in considerazione l’interesse del debitore. Il dovere di buona fede, dal canto suo, impone al creditore di accettare l’adempimento anche inesatto, se lo scostamento rispetto a quanto dovuto sia minimo, ed insuscettibile di arrecare un apprezzabile pregiudizio all’interesse del creditore. 3.2. In definitiva, costituisce abuso del processo qualsiasi iniziativa processuale intesa a conseguire un ingiusto vantaggio distorcendo i fini naturali del processo civile. L’abuso del processo è oggi implicitamente riconosciuto dal legislatore alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2 quinquies, lett. d , ma già in precedenza ammesso dalla giurisprudenza di questa Corte Sez. 1, Ordinanza n. 30539 del 26/11/2018, Rv. 651878-1 Sez. 6-1, Ordinanza n. 25210 del 11/10/2018, Rv. 651350-01 Sez. 1, Sentenza n. 24698 del 19/10/2017, Rv. 646580-01 Sez. 5, Sentenza n. 22502 del 02/10/2013, Rv. 628806-01 . L’abuso del processo comporta l’inammissibilità della domanda Sez. 2, Ordinanza n. 24071 del 26/09/2019, Rv. 655360-01 . 4. Ciò posto in astratto, questa Corte rileva nel caso specifico che l’odierno ricorrente, contestando all’amministrazione comunale di avere indebitamente trattenuto 5 cinque Euro, ha rifiutato l’adempimento offerto il 30 luglio 2009, per pretendere poi - un anno e mezzo dopo - il pagamento dell’importo di Euro 633, dieci volte superiore a quello portato dal titolo esecutivo. Ricorre dunque tanto l’elemento oggettivo dell’abuso del processo, in quanto l’esecuzione minacciata dall’odierno ricorrente altro scopo non risulta avere che l’illegittima lievitazione del credito quanto l’elemento soggettivo, dal momento che qualunque persona avrebbe potuto, con l’ordinaria diligenza, avvedersi della insostenibilità d’una simile censurabile tecnica moltiplicatoria dei crediti. 5. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, sotto questo profilo, in applicazione del seguente principio di diritto se il debitore ha l’obbligo di adempiere puntualmente la propria obbligazione imposto dall’art. 1176 c.c. , il creditore ha quello non meno cogente imposto dall’art. 1175 c.c. di collaborare col creditore per facilitarne l’adempimento di non aggravare inutilmente la sua posizione di tollerare quei minimi scostamenti nell’esecuzione della prestazione dovuta che siano insuscettibili di arrecargli un apprezzabile sacrificio. Il creditore il quale, violando tali precetti, introduca un giudizio vuoi di cognizione, vuoi di esecuzione, il quale altro scopo non abbia che far lievitare il credito attraverso la moltiplicazione di spese di esazione esose ed evitabili, compie un abuso del processo, il quale comporta l’inammissibilità della domanda sia in sede di cognizione, sia in sede di esecuzione, sia in sede di impugnazione . 6. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo. 7. La manifesta inammissibilità del ricorso, la censurabilità dei presupposti di atto su cui si fonda, l’inconsistenza delle ragioni addotte dal ricorrente a fondamento di esso, costituiscono a avviso di questa Corte indici inoppugnabili della mala fede o, almeno, della colpa grave del ricorrente, e ne giustificano la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento d’una somma che si stima equo determinare in misura pari alle spese di lite. 7.1. La dichiarazione di inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 . P.Q.M. la Corte di Cassazione - dichiara inammissibile il ricorso - condanna R.G. alla rifusione in favore di Roma Capitale delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 900, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2 - condanna R.G. al pagamento in favore di Roma Capitale della somma di Euro 900 ex art. 96 c.p.c., comma 3, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza - dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di R.G. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.