Lavoro a tempo indeterminato e contratto di affitto: protezione umanitaria possibile per lo straniero

Riprende vigore la richiesta presentata da un cittadino del Kosovo. Decisivo il riferimento alla stabilità da lui raggiunta in Italia, e testimoniata dalla conoscenza della lingua, da un lavoro a tempo indeterminato e dalla locazione di un immobile.

Contratto di lavoro a tempo indeterminato, conoscenza della lingua italiana e regolare contratto di locazione di un immobile. Nulla si può pretendere di più dallo straniero come prova del suo radicamento in Italia. Plausibile, quindi, l’accoglimento della richiesta di protezione umanitaria da lui presentata Cassazione, ordinanza n. 28436/20, depositata il 14 dicembre . Riflettori puntati su un cittadino del Kosovo, approdato in Italia dopo avere rifiutato di abbracciare la religione musulmana nonostante le reazioni del padre e dei compaesani . A completare la propria storia egli riferisce anche che nella sua città aveva un lavoro di piastrellista mentre in Italia ha una sorella sposata, che vive stabilmente sul territorio nazionale e ha trovato un lavoro a tempo indeterminato, regolarmente retribuito, ed ha preso una casa in locazione . Nonostante questo quadro, però, prima la Commissione territoriale e poi i Giudici del Tribunale respingono l’ipotesi della protezione in favore dello straniero, ritenendone inverosimile il racconto . Ciò che conta, però, è soprattutto il passaggio relativo al permesso di soggiorno per motivi umanitari su questo tema i Giudici di merito ritengono che il livello di integrazione dello straniero in Italia non è tale da giustificare protezione , e aggiungono che comunque egli potrebbe trovare un lavoro in Kosovo, mantenendo il livello di vita acquisito in Italia . Dalla Cassazione arrivano però considerazioni che mettono in discussione la decisione del Tribunale. Il legale dello straniero batte, ovviamente, ancora sul permesso di soggiorno per motivi umanitari, e sostiene che i Giudici di merito abbiano erroneamente applicato il criterio di comparazione tra la situazione dello straniero in Italia, ossia il livello di integrazione raggiunto, e la situazione del Paese di origine, ossia l’eventualità che quel livello di integrazione venga perduto in caso di rimpatrio . A dare forza a questa tesi, poi, il richiamo ai significativi indici allegati dallo straniero a sostegno della sua integrazione, ossia lavoro stabile a tempo indeterminato , locazione di un immobile , conoscenza della lingua italiana e altresì la considerazione che il tempo trascorso dall’allontanamento dal Paese di origine rende impossibile un reinserimento che garantisca la condizione di vita ormai raggiunta in Italia . I magistrati del Palazzaccio ricordano, in premessa, che il giudizio circa la vulnerabilità dello straniero ai fini della protezione umanitaria presuppone che si consideri da un lato il livello di integrazione raggiunto e dall’altro se, data la situazione del Paese di origine, il rimpatrio possa far perdere la condizione acquisita in Italia per via della integrazione sociale raggiunta . In questa ottica i Giudici del Tribunale hanno ritenuto che un lavoro a tempo indeterminato, ed ovviamente regolarizzato, un contratto di locazione e la conoscenza della lingua italiana non integrino un adeguato livello di integrazione in Italia ma questa valutazione, osservano dalla Cassazione, non è corretta , poiché non si può richiedere altro ad uno straniero, oltre che lavorare in modo stabile, conoscere la lingua, avere un alloggio con mezzi propri . Peraltro, non si può trascurare per il giudizio di vulnerabilità dello straniero l’elemento rappresentato dal tempo trascorso dall’allontanamento dal Paese di origine, che incide inevitabilmente sulla possibilità di reintegrazione e dunque sulla possibilità di recuperare nel suo Paese le condizioni di vita raggiunte in Italia e perdute in caso di rimpatrio, concludono dalla Cassazione. Nuove speranze, quindi, per il cittadino del Kosovo, che comunque dovrà affrontare un nuovo processo in Tribunale.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 10 settembre – 14 dicembre 2020, n. 28436 Presidente Travaglino – Relatore Cricenti Fatti di causa Il ricorrente, Hy. Je., è cittadino del Kosovo. Racconta di essere fuggito dal suo paese per il suo rifiuto di abbracciare la religione musulmana e per le conseguenti reazioni del padre, della famiglia di origine, nonché dei sui compaesani. Ha anche riferito che, nella sua città, aveva un lavoro di piastrellista, e che qui, dove ha una sorella sposata che vive stabilmente in Italia, ha trovato un lavoro a tempo indeterminato, regolarmente retribuito, ed ha preso una casa in locazione. Ha chiesto il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione internazionale e di quella sussidiaria. La Commissione Territoriale ha rigettato le sue richieste, ed analogamente ha fatto il Tribunale di Milano. Il ricorrente propone avverso tale decisione un motivo di ricorso. Non v'è costituzione con controricorso del Ministero dell'Interno. Ragioni della decisione 1.- La ratio della decisione impugnata. Il Tribunale di Milano ritiene inverosimile il racconto del ricorrente, e dunque la possibilità che questi subisca ritorsioni gravi alla sua persona in caso di rimpatrio per motivi religiosi esclude che vi sia peraltro in Kosovo una situazione di conflitto generalizzato tale da esporre a rischio i civili presenti sul territorio infine, ed è quanto ci interessa maggiormente, il Tribunale esclude altresì che possa riconoscersi il permesso di soggiorno per motivi umanitari, atteso che il livello di integrazione in Italia non è tale da giustificare protezione, e che comunque il ricorrente potrebbe trovare un lavoro in Kosovo, mantenendo il livello di vita acquisito. 2.- Il ricorrente contesta questa ratio con un solo motivo, che denuncia violazione dell'articolo 5 L. 268 del 1998, e dunque la censura è limitata al solo capo di sentenza che rigetta la richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il ricorrente lamenta una erronea applicazione del criterio di comparazione tra la sua situazione in Italia, ossia il livello di integrazione raggiunto, e la situazione del paese di origine, ossia l'eventualità che quel livello di integrazione venga perduto in caso di rimpatrio. Rileva non solo che gli indici da lui allegati a sostegno della sua integrazione sono significativi lavoro stabile, a tempo indeterminato, locazione di un immobile, conoscenza della lingua italiana , ma altresì che il tempo trascorso dall'allontanamento dal suo Paese rende impossibile un reinserimento che garantisca la condizione di vita ormai raggiunta in Italia. Il motivo è fondato. Va ricordato che il giudizio circa la vulnerabilità dello straniero ai fini della protezione umanitaria presuppone che si consideri da un lato il livello di integrazione raggiunto e dall'altro se, data la situazione del paese di origine, il rimpatrio possa far perdere la condizione acquisita in Italia, per via della integrazione sociale raggiunta Cass. Sez. U. 29459/2019 . Si tratta di un accertamento in fatto, riservato al giudice di merito, che però non è del tutto insindacabile in sede di legittimità, dove invece può essere censurato in quanto valutazione del fatto ai fini della sua riconducibilità alla clausola generale altro, ad esempio, è accertare quale sia il livello di integrazione raggiunto dallo straniero, altro è valutare se tale livello sia tale da rientrare nella previsione di legge, ossia sia tale che la sua perdita, in caso di rimpatrio renda vulnerabile il ricorrente. Da questo punto di vista, la corte di merito ha ritenuto che un lavoro a tempo indeterminato ed ovviamente regolarizzato, un contratto di locazione e la conoscenza della lingua italiana non integrino un adeguato livello di integrazione in Italia e si tratta già di per sé di una valutazione che tenendo conto del parametro normativo articolo 5 1. 286 del 1998 non è corretta, non potendosi richiedere altro da uno straniero, oltre che lavorare in modo stabile, conoscere la lingua, avere un alloggio con mezzi propri. Ma soprattutto, non si è tenuto conto adeguatamente ai fini del giudizio di vulnerabilità del tempo trascorso dall'allontanamento dal paese di origine, che incide inevitabilmente sulla possibilità di reintegrazione e dunque sulla possibilità dello straniero di recuperare nel suo paese le condizioni di vita raggiunte in Italia e perdute a causa del rimpatrio. Il ricorso va pertanto accolto P.Q.M. La corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Milano, in diversa composizione, anche per le spese.