Protezione umanitaria: il carattere “aperto” dei motivi deve essere accompagnato da un’effettiva situazione di vulnerabilità

Inammissibile il ricorso in Cassazione presentato da un cittadino del Ghana corredato da motivi aperti”, in quanto non trova riscontro effettivo nella condizione di vulnerabilità da lui lamentata, non sussistendo nel Paese d’origine una situazione di violenza indiscriminata ovvero di deprivazione dei diritti umani fondamentali tale da giustificare la concessione della protezione umanitaria.

Così si esprime la Suprema Corte con l’ordinanza n. 22636/20, depositata il 19 ottobre. Un cittadino del Ghana chiedeva il riconoscimento della protezione internazionale alla competente Commissione territoriale, la quale non accoglieva la domanda. Successivamente, tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello di Torino confermavano la suddetta decisione, dunque il cittadino straniero si rivolge alla Corte di Cassazione proponendo apposito ricorso. L’unico motivo di ricorso denuncia la motivazione del Giudice di secondo grado nella parte in cui non ha valutato la sua condizione di vulnerabilità , né il percorso di integrazione in Italia, maturato a seguito del lungo viaggio migratorio da lui affrontato attraverso la Libia, elemento anche questo non preso in considerazione nella pronuncia impugnata. La Suprema Corte dichiara il ricorso inammissibile , per via del carattere aperto ” dei motivi di protezione umanitaria fatti propri dal ricorrente. Nella sentenza impugnata, infatti, non sussiste alcun accenno al viaggio intrapreso dal ricorrente attraverso la Libia, né circa il suo percorso di integrazione in Italia. Inoltre, la Corte d’Appello aveva rilevato che nel Paese d’origine del richiedente, il Ghana, non si riscontrava come sostenuto dall’istante una situazione di violenza indiscriminata ovvero di deprivazione dei diritti umani fondamentali e nemmeno situazioni particolari allegate dal cittadino straniero tali da giustificare la sua richiesta di protezione. Nonostante quanto sopra, gli Ermellini riscontrano nella pronuncia impugnata alcune affermazioni inesatte che, pur non modificando l’esito del giudizio, meritano di essere approfondite e corrette. La prima questione attiene alla normativa applicabile al caso di specie, vista l’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 che disciplina la protezione umanitaria in modo più sfavorevole ai richiedenti. In tal senso, il Giudice di seconde cure aveva ritenuto applicabili sia la precedente che la successiva disciplina, in attesa di una disposizione transitoria, senza considerare che le Sezioni Unite si erano già espresse sul tema, affermando che tali questioni sarebbero state esaminate in base alle norme in vigore al momento della presentazione della richiesta e in tali ipotesi l’accertamento della sussistenza dei presupposti ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari valutati in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore della suddetta legge avrebbe comportato il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali ”. Altra correzione va fatta laddove il Giudice ha dichiarato che la maggiore o minore integrazione in Italia nonché l’attività lavorativa svolta non rilevano ai fini della valutazione per il rilascio del suddetto permesso di soggiorno. Con tali argomentazioni, la Corte d’Appello si pone, infatti, in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza in materia, avendo essa svalutato il percorso di integrazione compiuto dal richiedente il permesso umanitario, il quale costituisce, invece, un elemento da prendere in considerazione ai fini della valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva dell’istante nel Paese d’origine e in Italia, da compiersi ai fini del riconoscimento della protezione. Ciò chiarito, la sostanza non cambia il ricorso resta inammissibile per le ragioni di cui sopra.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 30 giugno – 19 ottobre 2020, n. 22636 Presidente Travaglino – Relatore Rubino Fatti di causa e ragioni della decisione T.K. , cittadino del , propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso la sentenza n. 643/2019 della Corte d’Appello di Torino, pubblicata in data 11.4.2019, non notificata, con la quale è stato confermato il rigetto delle sue domande volte al riconoscimento delle protezioni internazionali. Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata. Il ricorrente, proveniente dal Ghana, riferisce nel ricorso di aver abbandonato il suo paese a seguito di una faida sorta per motivi di successione al potere nel villaggio di origine ed anche per la grave sofferenza economica in cui si erano venuti a trovare, lui e la sua famiglia, alla morte del padre. Richiedeva inizialmente il riconoscimento delle due protezioni maggiori ed in subordine della protezione umanitaria, quindi impugnava concentrando la sua domanda sul riconoscimento della protezione umanitaria, attesa la propria condizione di vulnerabilità e lo stato di integrazione raggiunto. La domanda non veniva accolta dalla Commissione territoriale, e neppure del tribunale e poi dalla corte d’appello. Il ricorrente deduce, con l’unico motivo di ricorso, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla protezione umanitaria. Sostiene che, in riferimento alla protezione umanitaria, la sentenza impugnata non abbia adeguatamente valutato nè la sua reale vulnerabilità, emergente anche dalle sue condizioni di salute, nè il percorso di integrazione seguito, e neppure il lungo viaggio migratorio affrontato dal ricorrente, attraverso la Libia. Il ricorso è inammissibile. I rilievi del ricorrente, oltre ad essere volti, inammissibilmente, alla rinnovazione del giudizio in fatto, sono del tutto generici non c’è nella sentenza, ma non esiste neppure nel ricorso, alcun riferimento a che cosa abbia dovuto subire nel corso del suo transito attraverso la Libia, e soprattutto non c’è alcun accenno al suo percorso di integrazione in Italia, che possa indurre a pensare che esso sia stato ingiustamente sottovalutato e che la sua parametri imposti dalla legge. Il carattere aperto dei motivi di protezione umanitaria precedente alle modifiche introdotte con D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, che ha, tra l’altro, sostituito la disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari introducendo ipotesi tipizzate necessita, parimenti alle altre forme di protezione internazionale, dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione oggettiva del paese di origine del richiedente e deve anche - essere necessariamente correlata alla condizione personale del richiedente, che ha determinato la ragione della partenza. Tale punto di avvio dell’indagine è intrinseco alla ratio stessa della protezione umanitaria, non potendosi eludere la rappresentazione di una effettiva deprivazione dei diritti umani che ne abbia giustificato l’allontanamento cfr. Cass. n. 4455/2018 . Nella specie la corte d’appello ha accertato che nel paese di origine del richiedente - il Ghana - non si rinvengono, come si è detto, situazioni di violenza indiscriminata o di deprivazione dei diritti umani fondamentali, nè tanto meno il richiedente ha allegato particolari situazioni di vulnerabilità tali da giustificare la misura di protezione umanitaria. La sentenza impugnata ha operato il giudizio di comparazione, comunque necessario a fronte di una richiesta di protezione umanitaria, ed ha ritenuto complessivamente che il T.K.K. non si trovi in una condizione di vulnerabilità tale da giustificare la concessione della protezione umanitaria ove costretto a tornare nel paese d’origine, con giudizio in fatto non sindacabile in questa sede se strutturato secondo i parametri di legge. Si aggiunga che il ricorrente non formula alcun rilievo in relazione al punto della sentenza di appello in cui si afferma che la valutazione di non credibilità ai fini della sola protezione umanitaria formulata dal primo giudice non è stata impugnata in appello e pertanto è passata in giudicato. Ciò detto quanto all’esito dell’esame del ricorso, la sentenza contiene alcune affermazioni inesatte, non censurate dal ricorrente, in ordine alle quali è opportuno correggere la motivazione, pur non conducendo tale correzione ad un diverso esito del giudizio. In primo luogo è errata l’affermazione secondo la quale, attesa l’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, che ridisciplina la protezione umanitaria in senso più sfavorevole agli aspiranti, circoscrivendola ad ipotesi tipizzate e riducendo la durata del permesso concedibile, in difetto di una norma transitoria si possa o si debba far applicazione di entrambe le discipline, la precedente e la successiva. Il problema di quale delle due discipline debba essere applicata alle domande proposte precedentemente all’entrata in vigore del predetto decreto, in difetto delle disposizioni transitorie, è stato affrontato e risolto da S.U. 29459 del 2019 nel senso che tali domande saranno scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma in tale ipotesi l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valutata in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto D.L L’inesattezza di questa affermazione non ipoteca l’esito del giudizio, atteso che la corte d’appello ha inteso dire che non sussistono i presupposti per la concessione della tutela richiesta nè ai sensi della disciplina previgente e neppure di quella successiva. Inoltre, c’è un secondo passaggio in cui la motivazione della corte d’appello è errata. La motivazione della sentenza impugnata va corretta anche laddove, a pag. 4 appiattisce concettualmente i presupposti di carattere generale posti dalla legge a fondamento del riconoscimento della c.d. protezione minore, con quelli richiesti ai fini della concedibilità della più estesa protezione sussidiaria, indicando la differenza tra le due categorie in un minor grado di gravità delle situazioni atte ad integrare i presupposti per le protezioni maggiori, affermando che dall’insieme di tali disposizioni si ricava difatti che la protezione umanitaria, pur potendo essere giustificata in base a motivi diversi e, in ipotesi, meno gravi, e di minor pregnanza di quelli che giustificano l’accesso allo status di rifugiato politico o alla protezione sussidiaria, doveva pur sempre fondarsi su un quadro di serie controindicazioni al rimpatrio del cittadino straniero richiedente, su un rischio di esposizione a forme di discriminazione per ragioni di razza, religione, appartenenza, opinioni politiche o tendenze sessuali oppure a trattamenti inumani o degradanti che, nel caso di specie, non possono ritenersi in alcun modo sussistenti . In tal modo, la motivazione non considera l’autonomia delle due valutazioni, connessa ai diversi presupposti di legge. L’esito del giudizio però non cambia, in quanto la sentenza impugnata afferma che la storia personale del ricorrente è stata ritenuta inattendibile dal tribunale con decisione non impugnata sul punto, divenuta quindi inattaccabile. Non è corretta, nella sua assolutezza, neppure l’affermazione successiva della corte d’appello - non specificamente censurata - laddove dichiara, a pag. 5, che la maggiore o minore integrazione in Italia e l’attività lavorativa svolta non hanno alcuna rilevanza ai fini della valutazione dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, e laddove di seguito specifica che tutte le attività svolte nel periodo trascorso in Italia, siano esse di volontariato, di istruzione, di formazione professionale, di lavoro subordinato, non possono costituire autonomo titolo per il riconoscimento della protezione umanitaria, nè valida prova del radicamento del richiedente asilo nel territorio. Essa non si pone in aperto contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato Cass. n. 29459 del 2019 , e tuttavia l’affermazione, nella sua secchezza è scorretta, in quanto appare svalutare fino a zero il percorso di integrazione compiuto in Italia dal richiedente il permesso umanitario, che costituisce invece elemento da tener in conto ai fini del secondo termine di comparazione sulla base del quale va articolato il giudizio sotteso all’accertamento della condizione di particolare vulnerabilità del ricorrente ove reintegrato nel paese di origine, ai fini del giudizio di concedibilità del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Depurata dalle sue inesattezze la linea motivazionale della corte d’appello era semplicemente nel senso esclusa nel caso di specie la vulnerabilità in relazione alla situazione del paese di provenienza, non particolarmente preoccupante, accertata definitivamente in mancanza di appello sul punto la scarsa credibilità del ricorrente quanto alla sua storia personale, il semplice percorso di integrazione, peraltro limitato a piccoli passi di integrazione linguistica, e alle sporadiche esperienze lavorative procurate dalle stesse strutture di accoglienza in Italia, e non ad un reale percorso di autointegrazione, di per sé non sarebbe comunque sufficiente al rilascio del permesso di soggiorno. Così riposizionata nel contesto di un giudizio di comparazione comunque attuato, e non messo idoneamente in discussione da un ricorso inammissibile, la soluzione data, nei suoi esiti, non è intaccata dalla correzione della motivazione. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Nulla sulle spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis e comma 1 quater. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.