Conversione religiosa in Italia, rischio persecuzioni in patria: protezione possibile

Riprende vigore la domanda presentata da una cittadina della Repubblica Popolare Cinese, fuggita dal suo Paese per sfuggire al controllo dell’autorità di polizia a seguito della adesione alla Chiesa del Dio Onnipotente. Decisiva però per i Giudici è la certificazione rilasciata in Italia dall’associazione questo elemento rende ipotizzabile il rischio per la straniera, viste le restrizioni applicate in ambito religioso nel suo Paese di origine.

Può essere sufficiente la conversione religiosa post espatrio per legittimare la protezione umanitaria in Italia, preso atto delle possibili persecuzioni per questioni di fede nel Paese di origine. Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 22097, depositata oggi . Riflettori puntati sulla storia di una cittadina della Repubblica Popolare Cinese, che, una volta approdata in Italia, chiede protezione, spiegando di essersi allontanata dal Paese di origine per sfuggire al controllo dell’autorità di polizia, dalla quale era stata arrestata, trattenuta e sottoposta a maltrattamenti, a causa della sua adesione alla Chiesa del Dio Onnipotente . Per i Giudici del Tribunale, però, va esclusa la credibilità della vicenda narrata, in quanto caratterizzata da incongruenze e contraddizioni , anche perché non provata la stessa appartenenza della donna alla confessione religiosa , in quanto la relativa documentazione era stata rilasciata da un’associazione avente sede in Roma . Impossibile, quindi, il riconoscimento dello status di rifugiato . Respinta anche l’ipotesi della protezione su questo punto i Giudici osservano che l’inverosimiglianza del racconto consente di escludere l’esposizione della straniera al rischio di un danno grave in caso di rimpatrio o a particolari condizioni di vulnerabilità . A ridare speranza alla cittadina cinese provvede però la Cassazione, richiamando il dato della sua conversione religiosa , che potrebbe porla in pericolo in caso di ritorno in patria. Su questo fronte la stessa ribadisce la richiesta di protezione umanitaria , alla luce del suo credo religioso , testimoniato da documentazione ad hoc , e aggiunge che l’avvenuto rilascio della relativa certificazione in epoca successiva all’espatrio non può escludere il rischio di sottoposizione ad atti persecutori in caso di ritorno in patria , rischio configurabile, viene aggiunto, anche sulla base di avvenimenti verificatisi o di attività svolte dopo la partenza dal Paese di origine . Dal Palazzaccio osservano che se l’attestazione prodotta in giudizio dalla straniera può essere inidonea a comprovare la sua appartenenza alla Chiesa di Dio Onnipotente fin da epoca anteriore all’espatrio , non può comunque escludere che l’adesione alla confessione religiosa possa aver avuto luogo davvero successivamente all’ingresso in Italia . Ciò significa che va comunque preso in esame il possibile rischio di persecuzione per la straniera in caso di rimpatrio , soprattutto tenendo presenti le restrizioni imposte dalle autorità cinesi all’esercizio della libertà religiosa . Per fare chiarezza, infine, i Giudici della Cassazione tengono a sottolineare che il possibile assoggettamento della cittadina cinese a tali restrizioni, in caso di rientro in Cina, fa apparire irrilevante la circostanza che la relativa causa sia insorta soltanto in epoca successiva all’abbandono del Paese , anche alla luce del principio secondo cui la domanda di protezione internazionale può essere motivata da avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal suo Paese di origine ovvero da attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal Paese d’origine, individuando come elemento favorevole di valutazione l’accertamento che le attività addotte costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel Paese d’origine , ma non escludendo, in linea di principio, la possibilità di accordare la protezione anche in assenza di tale presupposto . In altri termini, il pericolo di danno grave nel caso di rimpatrio deve essere considerato in linea meramente oggettiva, a prescindere dalle ragioni che hanno indotto il richiedente protezione ad emigrare e comunque con riferimento all’attualità, risultando irrilevante la circostanza che la situazione pericolosa possa essere sorta in un momento successivo alla partenza dal Paese di origine, ed ininfluente anche il motivo che ha originato la partenza . Alla luce di queste considerazioni tracciate dalla Cassazione, i Giudici d’Appello dovranno riprendere in esame la posizione della cittadina cinese e valutare con attenzione la sua domanda di protezione.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 17 settembre – 13 ottobre 2020, n. 22097 Presidente Campanile – Relatore Mercolino Fatti di causa 1. Con decreto del 17 maggio 2018, il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria e, in subordine, di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta da Yu. L., cittadina della Repubblica Popolare Cinese. Premesso che la ricorrente aveva riferito di essersi allontanata dal Paese di origine per sfuggire al controllo dell'autorità di polizia, dalla quale era stata arrestata, trattenuta e sottoposta a maltrattamenti, a causa della sua adesione alla Chiesa del Dio Onnipotente, il Tribunale ha escluso la credibilità della vicenda narrata, in quanto caratterizzata da incongruenze e contraddizioni, ritenendo non provata la stessa appartenenza alla predetta confessione religiosa, in quanto la relativa documentazione era stata rilasciata da un'associazione avente sede in Roma. Ha rigettato quindi la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, osservando, in ordine a quella di riconoscimento della protezione sussidiaria, che l'inverosimiglianza del racconto consentiva di escludere l'esposizione della ricorrente al rischio di un danno grave in caso di rimpatrio, mentre la situazione del Paese di origine non era contraddistinta da forme di violenza indiscriminata tali da mettere in pericolo la popolazione. Ha rigettato infine la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, rilevando che la ricorrente non aveva allegato particolari condizioni di vulnerabilità né un livello di integrazione nel territorio italiano, tale da sconsigliarne il rimpatrio. 2. Avverso il predetto decreto la L. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. Il Ministero dell'interno ha resistito con controricorso. Con ordinanza del 27 settembre 2019, la causa, originariamente avviata alla trattazione in camera di consiglio, è stata rimessa alla pubblica udienza, ai sensi dell'art. 375, ultimo comma, cod. proc. civ. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo d'impugnazione, la ricorrente denuncia l'apparenza della motivazione e l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel ritenere non credibile la vicenda allegata, il Tribunale ha proceduto ad un vaglio superficiale ed omissivo delle dichiarazioni da lei rese, senza verificare la buona fede soggettiva nella proposizione della domanda, sulla base dei criteri indicati dall'art. 3, comma quinto, del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, in adempimento del dovere di cooperazione istruttoria previsto dall'art. 8 del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25. Premesso che le contraddizioni rilevate dal decreto impugnato, non contestate nel corso dell'audizione, avrebbero potuto essere risolte mediante una richiesta di chiarimenti, mai avanzata dal Tribunale, precisa che a l'indicazione della durata della detenzione da parte della polizia era stata immediatamente rettificata nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, b la novità dell'allegazione della convivenza con alcune consorelle non minava in alcun modo la credibilità della narrazione, e c l'incertezza relativa al sesso della persona che l'aveva aiutata a fuggire costituiva il frutto di un'errata traduzione delle dichiarazioni. 2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 3 del D.Lgs. n. 251 del 2007 e dell'art. 35-bis del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, ribadendo che il Tribunale non ha espresso alcun dubbio in ordine alla veridicità del suo credo religioso, ma si è limitato a rilevare alcune contraddizioni relative ad aspetti diversi delle dichiarazioni da lei rese, senza porla in condizione di fornire spiegazioni al riguardo, in violazione del dovere di cooperazione istruttoria e del diritto ad un ricorso effettivo, riconosciuto dall'art. 13 della CEDU. 3. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono infondati. Questa Corte ha infatti chiarito che le dichiarazioni rese dallo straniero, se non suffragate da prove, devono essere sottoposte, ai sensi dell'art. 3, comma quinto, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ad un controllo di credibilità, avente ad oggetto da un lato la coerenza interna ed esterna delle stesse, ovverosia la congruenza intrinseca del racconto e la sua concordanza con le informazioni generali e specifiche di cui si dispone, dall'altro la plausibilità della vicenda narrata, che deve risultare attendibile e convincente sul piano razionale, non comportando tale verifica un aggravamento della posizione del richiedente, il quale beneficia anzi di un'attenuazione dell'onere della prova, ricollegabile al dovere del giudice di acquisire d'ufficio il necessario materiale probatorio ed al potere di ritenere provate circostanze che non lo sono affatto, ferma restando, per l'appunto, la necessità che i fatti narrati superino il predetto vaglio di logicità cfr. Cass., Sez. VI, 31/07/2019, n. 20580 Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142 . Tale controllo deve ritenersi nella specie correttamente effettuato, avendo il Tribunale provveduto ad esaminare i fatti allegati a sostegno della domanda sotto entrambi gl'indicati profili, la cui valutazione ha consentito di evidenziare per un verso le incongruenze del racconto e la sua difformità rispetto alla versione fornita nel corso del colloquio svoltosi dinanzi alla competente Commissione territoriale, e per altro verso la discordanza di dettagli importanti dalle informazioni riguardanti il Paese di origine, nonché l'inattendibilità degli allegati motivi di persecuzione contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della ricorrente, infatti, il decreto impugnato non ha ritenuto affatto credibili le dichiarazioni da lei rese in ordine alla sua fede religiosa, avendo anzi affermato che la sua adesione alla Chiesa del Dio Onnipotente non poteva ritenersi provata, quanto meno per il periodo anteriore all'espatrio, in quanto l'attestazione a tal fine prodotta in giudizio risultava rilasciata dalla sede romana dell'associazione religiosa in data successiva a quella dell'ingresso in Italia. Nel censurare il predetto apprezzamento, la ricorrente non è in grado d'indicare lacune argomentative o carenze logiche di gravità tale da impedire la ricostruzione del ragionamento seguito dal Tribunale, né elementi di fatto da quest'ultimo trascurati, ed idonei ad orientare in senso diverso la decisione, ma si limita ad insistere sulla veridicità dei fatti riferiti, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l'apparente deduzione del vizio di motivazione, una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica della decisione, nonché la coerenza logico-formale della stessa, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi degli artt. 360, primo comma, n. 5 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054 Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257 . La ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente deve considerarsi d'altronde sufficiente ad escludere la necessità di procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito è tenuto, in forza del dovere di cooperazione istruttoria previsto dall'art. 8, comma terzo, del D.Lgs. n. 25 del 2008, soltanto nel caso in cui la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall'impossibilità di fornire riscontri probatori non merita pertanto censura il decreto impugnato, per aver rigettato la domanda, in virtù dell'inattendibilità della vicenda allegata a sostegno della stessa, senza disporre una nuova audizione della richiedente, per consentire alla stessa di colmare le lacune e chiarire le incongruenze rilevate nella narrazione cfr. Cass., Sez. III, 19/06/2020, n. 11924 Cass., Sez. I, 19/12/2019, n. 33858 . 4. Il rigetto delle predette censure, confermando la validità dei dubbi espressi nel provvedimento impugnato relativamente alla fede religiosa professata dalla L., comporta l'infondatezza anche del terzo motivo, con cui la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 8, commi secondo e terzo, del D.Lgs. n. 25 del 2008, dell'art. 3, commi terzo, lett. a e b , e quinto, lett. c , del D.Lgs. n. 251 del 2007, degli artt. 2, 3 e 13 della CEDU e dell'art. 46 della direttiva 2013/32/UE, nonché la nullità del decreto impugnato per apparenza della motivazione, sostenendo che, nel ritenere non credibile che essa ricorrente fosse riuscita ad espatriare legalmente, nonostante la sottoposizione ad atti di persecuzione, il decreto impugnato si è limitato a richiamare un rapporto dell'autorità canadese per l'immigrazione, senza tener conto delle diverse informazioni risultanti dalla documentazione prodotta, le quali escludevano che le persecuzioni per motivi religiosi attuate in Cina comprendessero anche l'applicazione di misure restrittive in ordine all'espatrio. 4.1. L'affermazione secondo cui l'adesione ad una confessione religiosa vietata avrebbe impedito alla ricorrente di ottenere dalle autorità cinesi il rilascio del visto e del passaporto costituisce soltanto una delle ragioni che hanno indotto il Tribunale a dubitare della veridicità dei fatti allegati a sostegno della domanda l'accertamento della sua inesattezza, in quanto contraddetta da informazioni desumibili da fonti internazionali autorevoli ed aggiornate, non risulterebbe pertanto sufficiente ad escludere la fondatezza delle perplessità manifestate nel decreto impugnato relativamente allo stesso credo religioso praticato dalla ricorrente, le quali, inducendo il Tribunale ad escludere l'esposizione di quest'ultima al dedotto rischio di persecuzione, hanno determinato il rigetto della domanda di protezione. 5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell'art. 4 del D.Lgs. n. 251 del 2007, dell'art. 19, comma primo, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, dell'art. 32, comma terzo, del D.Lgs. n. 25 del 2008 e del principio di non refoulement, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, nonostante la mancata contestazione del suo credo religioso. Sostiene infatti che l'avvenuto rilascio della relativa certificazione in epoca successiva all'espatrio non escludeva il rischio di sottoposizione ad atti persecutori in caso di rimpatrio, configurabile anche sulla base di avvenimenti verificatisi o di attività svolte dopo la partenza del richiedente dal Paese di origine. 5.1. Il motivo è fondato. L'osservazione contenuta nel decreto impugnato, secondo cui l'attestazione prodotta in giudizio dalla ricorrente sarebbe risultata inidonea a comprovare l'appartenenza della stessa alla Chiesa di Dio Onnipotente fin da epoca anteriore all'espatrio, non escludendo che l'adesione alla predetta confessione religiosa possa aver avuto luogo successivamente all'ingresso in Italia, non poteva considerarsi infatti sufficiente ad esonerare il Tribunale dal dovere di procedere alla verifica di tale circostanza e della conseguente esposizione della ricorrente al rischio di persecuzione, in caso di rimpatrio, anche alla luce delle informazioni richiamate nel decreto impugnato, nonché di quelle prodotte in giudizio, da cui emergevano le restrizioni imposte dalle autorità cinesi all'esercizio della libertà religiosa. Il possibile assoggettamento della ricorrente a tali restrizioni, in caso di rientro in Cina, fa apparire irrilevante la circostanza che la relativa causa sia insorta soltanto in epoca successiva all'abbandono del Paese, trovando applicazione l'art. 4 del D.Lgs. n. 251 del 2007, il quale prevede che la domanda di protezione internazionale può essere motivata da avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente dal suo Paese di origine ovvero da attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal Paese d'origine , individuando come elemento favorevole di valutazione l'accertamento che le attività addotte costituiscono l'espressione e la continuazione di convinzioni od orientamenti già manifestati nel Paese d'origine, ma non escludendo, in linea di principio, la possibilità di accordare la protezione anche in assenza di tale presupposto. In altri termini, come già precisato da questa Corte, il pericolo di danno grave nel caso di rimpatrio deve essere considerato in linea meramente oggettiva, a prescindere dalle ragioni che hanno indotto il richiedente ad emigrare e comunque con riferimento all'attualità, risultando irrilevante la circostanza che la situazione pericolosa possa essere sorta in un momento successivo alla partenza del richiedente dal paese di origine, ed ininfluente anche il motivo che aveva originato la partenza cfr. Cass., Sez. I, 7/02/2020, n. 2954 Cass., Sez. VI, 17/04/2018, n. 9427 . 6. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dal motivo accolto, con il conseguente rinvio della causa al Tribunale di Roma, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. rigetta i primi tre motivi di ricorso accoglie il quarto motivo cassa il decreto impugnato, in relazione al motivo accolto, e rinvia al Tribunale di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.