I criteri di ammissibilità dell’appello e gli obblighi dell’appellante

Affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente la semplice manifestazione di volontà, ma occorre, piuttosto, l’esposizione di una parte argomentativa che si contrapponga alla motivazione della sentenza impugnata e attraverso un’espressa censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico.

L’appellante non è tenuto a ricorrere a forme sacramentali o a redigere un progetto alternativo di decisione, che si contrapponga quello impugnato e lo sostituisca, ma, è piuttosto obbligato a circoscrivere il giudizio di gravame ai soli capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono, formulando le ragioni del proprio dissenso, rispetto al percorso seguito dal giudice di primo grado. Con l’ordinanza n. 20023/20, depositata il 24 settembre, la Cassazione è nuovamente intervenuta sul tema della forma e del contenuto dell’appello, ai fini della sua ammissibilità. Il fatto. All’origine della vicenda vi è un’opposizione ad un verbale di contestazione, emesso dalla Polizia Stradale di Pordenone, proposta innanzi al Giudice di Pace di Portogruaro ed in merito alla quale il detto giudice pronunciava la propria incompetenza per materia. La successiva ordinanza ingiunzione, emessa dalla Prefettura di Venezia, era anch’essa oggetto di opposizione, presso il medesimo Giudice di Pace, che stavolta la accoglieva. Avverso tale decisione, l’Ufficio Territoriale del Governo di Venezia, proponeva appello, innanzi al Tribunale di Pordenone, che tuttavia ne dichiarava l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., rilevando come i motivi di appello non fossero conformi al disposto della detta norma, poiché, secondo il giudice d’appello, essi si limitavano a chiedere di riconsiderare la decisione di primo grado, senza indicare né le specifiche censure da muovere al provvedimento, né le relative modifiche. Tale ultima decisione era oggetto di ricorso. La forma e il contenuto dell’appello. La Suprema Corte, chiamata nuovamente ad intervenire sull’argomento, ha voluto mantenersi nel solco tracciato dalla precedente giurisprudenza di legittimità, ribadendo che, affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente la semplice manifestazione di volontà della parte, ma occorre, piuttosto, l’esposizione di una parte argomentativa che si contrapponga alla motivazione della sentenza impugnata e attraverso un’espressa censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico sentenza n. 12280/2016 . La Corte, in ogni caso, ha ritenuto di dover precisare che l’appellante non è tenuto a presentare le proprie deduzioni secondo forme determinate, né a riproporre l’intero provvedimento impugnato, con diverso contenuto, ma, piuttosto, egli è obbligato a circoscrivere il giudizio di gravame ai soli capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono, formulando le ragioni del proprio dissenso, rispetto al percorso seguito dal giudice di primo grado. La negazione del formalismo. L’orientamento richiamato dalla Suprema Corte, già recepito dalle Sezioni Unite sentenza 27199/2017 , è improntato ad un’interpretazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. che, lungi dall’essere esclusivamente formalistica, giunge ad affermare che l’impugnazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, la chiara e precisa individuazione delle questioni e dei punti della sentenza, che s’intende contestare e con essi delle relative doglianze. È quindi necessario che, nell’atto d’appello, alla parte volitiva si affianchi una parte argomentativa che confuti le motivazioni poste dal giudice di primo grado, a fondamento del proprio ragionamento, senza però che vi sia l’obbligo di ricorrere a forme sacramentali e senza dover redigere un progetto alternativo di decisione, che si contrapponga quello impugnato e lo sostituisca.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 2, ordinanza 3 luglio – 24 settembre 2020, n. 20023 Presidente Cosentino – Relatore Criscuolo Motivi in fatto ed in diritto della decisione La società intimata proponeva opposizione avverso il verbale di contestazione emesso dalla Polizia Stradale di Pordenone in data 16/10/2014, per avere esercitato attività di trasporto per conto terzi senza essere iscritta all’albo nazionale degli autotrasportatori. L’opposizione era però decisa dal Giudice di Pace di Portogruaro, che si dichiarava incompetente per materia. Successivamente la Prefettura di Venezia emetteva ordinanza ingiunzione per la violazione di cui alla L. n. 298 del 1974, art. 26 applicando la sanzione pecuniaria di Euro 4.130,00. Avverso tale provvedimento proponeva opposizione la Wood International S.r.l. ed il Giudice di Pace di Portogruaro con sentenza n. 92 del 13/9/2016 accoglieva l’opposizione. Rilevava che, alla luce dell’interpretazione della L. n. 298 del 1974, che era stata offerta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 7/2005, non poteva essere sanzionata la condotta dell’autotrasportatore che non era idonea a porre in essere un’attività di concorrenza sleale. Nella fattispecie era emerso che la società titolare del veicolo interessato dal provvedimento opposto faceva parte di un gruppo societario familiare, del quale erano componenti anche le altre due società le cui merci erano state rinvenute a bordo del veicolo, sicché doveva escludersi che l’attività di autotrasporto fosse quella primaria della società contravvenzionata. Il trasporto delle merci era avvenuto solo in ragione degli stretti legami esistenti tra i soci titolari delle varie società, come anche confermato dal contratto di comodato con il quale la Wood International aveva permesso alle altre due società di avvalersi del furgone. Lungi dal porre in essere un’alterazione delle regole della concorrenza nel settore del trasporto su gomma, in realtà si era inteso razionalizzare le spese di trasporto delle tre società, al fine di contenere le stesse, avvalendosi quindi di un unico automezzo. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’Ufficio Territoriale del Governo di Venezia e, nella resistenza dell’originaria parte opponente, il Tribunale di Pordenone, con la sentenza n. 117 dell’8 febbraio 2018, ha dichiarato il gravame inammissibile per la violazione del disposto di cui all’art. 342 c.p.c. nella formulazione attualmente vigente. Dopo aver richiamato l’interpretazione che di tale norma è stata offerta anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, si è escluso che i motivi di appello fossero conformi al dettato del codice di rito, risolvendosi in una richiesta di riconsiderazione dell’intera vicenda, mancando l’indicazione delle specifiche censure e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto come operata dal giudice di primo grado. Il Ministero dell’Interno e la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo di Venezia hanno proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di un motivo. L’intimata non ha svolto difese in questa fase. Con il motivo di ricorso si denunzia la violazione dell’art. 342 c.p.c. laddove il giudice di appello ha dichiarato inammissibile il gravame per essere stato redatto non in conformità di quanto previsto dall’art. 342 c.p.c Si evidenza che l’atto di appello conteneva ben cinque motivi di gravame con i quali si sottoponevano a critica le varie argomentazioni spese dal giudice di primo grado per pervenire all’accoglimento dell’opposizione, sicché la sentenza di appello, nel pervenire alla declaratoria di inammissibilità, pur dichiarando formalmente di aderire all’insegnamento delle Sezioni Unite, ne ha tradito il reale contenuto. Ad avviso del Collegio il motivo è fondato. In punto di diritto, occorre ricordare che secondo la giurisprudenza della Corte cfr. Cass. n. 12280/2016 , sebbene relativa alla precedente formulazione dell’art. 342 c.p.c., affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che nel gravame sia manifestata una volontà in tal senso, occorrendo, al contrario, l’esposizione di una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico, anticipandosi in tal senso quanto poi disposto dal legislatore. Tuttavia e proprio con specifico riferimento a fattispecie sottoposta alla vigente previsione normativa, e precisamente alla novellata formula dell’art. 434 c.p.c., che, in materia di processo del lavoro, ricalca in maniera quasi integrale la previsione di cui all’art. 342 c.p.c., questa Corte ha specificato che cfr. Cass. n. 2143/2015 l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c-bis , convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum , circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente formulato un ricorso in appello, in cui le singole censure - attinenti alla ricostruzione del fatto e/o alla violazione di norme di diritto - erano state sviluppate mediante la indicazione testuale riassuntiva delle parti della motivazione ritenute erronee e con la analitica indicazione delle ragioni poste a fondamento delle critiche e della loro rilevanza al fine di confutare la decisione impugnata in senso conforme si veda anche da ultimo Cass. n. 17712/2016 . Infine tale orientamento, ispirato alla negazione di una visione esclusivamente formalistica, è stato recepito dalle Sezioni Unite di questa Corte che con la sentenza n. 27199 del 2017 hanno affermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. Orbene posti tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, e ribadita la possibilità di procedere alla disamina diretta degli atti processuali, atteso che il motivo in esame denunzia un error in procedendo commesso dal giudice del merito, si ritiene che le doglianze della parte ricorrente siano fondate. Il Ministero, nell’atto di appello, dopo avere riportato il contenuto della decisione gravata, con il primo motivo ha posto la questione della violazione del ne bis in idem ed il contrasto con un precedente giudicato, che non era stata effettivamente esaminata dal giudice di primo grado, e che poneva quindi la necessità per il giudice di appello di confrontarsi con tale deduzione, idonea nella prospettazione dell’appellante a definire la controversia. Ancora, con i successivi motivi mirava a porre in contestazione i vari argomenti spesi dal giudice di primo grado al fine di pervenire all’accoglimento dell’opposizione, contestandosi la tesi della rilevanza dell’appartenenza delle tre società ad un medesimo gruppo familiare, l’affermazione secondo cui vi sarebbe stato un valido contratto di comodato per l’utilizzo da parte delle altre due società del veicolo appartenente all’odierna intimata, l’affermazione circa l’assenza di uno scopo di lucro per la Wood International, ed infine esegesi della L. n. 298 del 1974, art. 26, quale offerta dal giudice di pace. Risulta palese l’individuazione delle circostanze da cui deriva la violazione delle norme che sarebbe stata operata dal giudice di primo grado avendo i motivi di appello inteso porre in discussione i presupposti applicativi su cui si fondava la decisione appellata, e precisamente la rilevanza ai fini dell’esclusione della violazione contestata, del legame societario esistente tra la società titolare del veicolo e di quelle fruitrici del trasporto , come anche evidente è l’individuazione della parte del provvedimento che si intende appellare investendo i motivi la decisione di prime cure nel suo complesso ed in relazione a tutti i vari elementi che sorreggevano l’impianto argomentativo del giudice di pace nonché delle modifiche alla ricostruzione in fatto laddove si contesta e si dubita dell’esistenza di un rapporto di comodato . Deve pertanto reputarsi che, pur a fronte del formale ossequio da parte del Tribunale alla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, l’esito finale al quale è pervenuto ne abbia evidentemente tradito il reale significato, celandosi dietro una lettura eccessivamente formalista, che non corrisponde all’esito ermeneutico cui è pervenuta questa Corte in relazione alla novellata previsione di cui all’art. 342 c.p.c La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al Tribunale di Pordenone in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. Accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, al Tribunale di Pordenone, in persona di diverso magistrato.