Povertà e rischio di scioglimento del matrimonio in patria non bastano per ottenere la protezione umanitaria

In tema di richiesta di protezione umanitaria, il paventato rischio di scioglimento del vincolo coniugale in caso di ritorno in patria non evidenza alcun pericolo persecutorio per il richiedente, né in senso stretto né in senso lato. Conseguentemente, si rivela logica e coerente la decisione di rigetto della domanda di protezione umanitaria.

Lo ha affermato la Suprema Corte con l’ordinanza n. 15938/20, depositata il 24 luglio. La Corte d’Appello di Torino rigettava la domanda di protezione internazionale ed umanitaria proposta da un cittadino bengalese. L’uomo, di religione musulmana, aveva riferito di aver avuto difficoltà economiche a fronte dell’esigenza di mantenimento della numerosa famiglia e dei problemi di salute che avevano colpito il padre. Si era inoltre sposato molto giovane senza il consenso della famiglia della moglie che ora rivoleva indietro la donna. Secondo la Corte territoriale mancava la dimostrazione di un effettivo ed attuale pericolo per il richiedente dipendente da un rischio di persecuzione specifica nei suoi confronti, né risultava che il Paese d’origine fosse interessato da eventi di guerriglia o da instabilità. Allo stesso modo, venivano negati i presupposti per il riconoscimento del permesso umanitario Il richiedente ha impugnato la decisione dinanzi alla Suprema Corte dolendosi per la violazione degli artt. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998 e 32 d.lgs. n. 25/2008 in relazione all’omesso esame di fatti decisivi per la domanda riguardante il permesso umanitario . La doglianza risulta priva di fondamento. La vicenda narrata dal ricorrente evidenzia, come ha sottolineato anche la Corte d’Appello, una situazione problematica dal punto di vista economico per la carenza di un reddito sufficiente a far fronte al mantenimento dell’ampio nucleo familiare del richiedente. Ciò posto, correttamente è stata esclusa l’esigenza di un approfondimento istruttorio officioso. Inoltre, il paventato rischio dello scioglimento del vincolo coniugale in caso di ritorno in patria non evidenza alcun pericolo persecutorio né in senso stretto né in senso lato. Sottolinea infine il Collegio come non sia stata prospettata alcuna censura sotto il profilo del rischio di una violazione dei diritti umani, essendo il ricorso centrato sui soli problemi di natura economica del ricorrente nel proprio paese d’origine. In conclusione, il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 24 gennaio – 24 luglio 2020, n. 15398 Presidente Cristiano – Relatore Acierno Fatti di causa e ragioni della decisione La Corte d’Appello di Torino ha rigettato la domanda di protezione internazionale ed umanitaria proposta dal cittadino del Bangladesh R.M.J. , confermando la decisione del giudice di primo grado. Il richiedente ha dichiarato alla Commissione territoriale di essere di religione musulmana. Il suo nucleo familiare è costituito da quattro fratelli, il padre, la madre ed il nonno. Il padre aveva avuto problemi di salute e lui aveva dovuto provvedere con estrema difficoltà, essendosi anche sposato, al mantenimento dell’intera famiglia. Ha dichiarato inoltre di essere arrivato in Italia, provenendo dalla Libia il 26/8/2015. Il modello C 3 recava la dicitura schiavo scappa dalla famiglia che lo ha venduto più volte . In relazione alla propria situazione personale ha inoltre riferito di essersi sposato molto giovane senza il consenso della famiglia della moglie, a causa delle sue difficoltà economiche. La famiglia della moglie, data la povertà del marito rivuole indietro ma lei non vuole andare perché ha un figlio. Ha infine riferito che se torna perde moglie e figlio. La Corte d’Appello, a sostegno del rigetto ha rilevato preliminarmente che la domanda relativa alla protezione sussidiaria è stata proposta per la prima volta in appello. Per quanto riguarda la domanda relativa al riconoscimento della protezione umanitaria è stato osservato che manca ogni prova di effettivo ed attuale pericolo per l’incolumità dell’appellante, dipendente da un rischio di persecuzione specifica nei suoi confronti tenuto conto dell’espresso riconoscimento di aver lasciato il paese per bisogni di natura economica. Inoltre la zona di riferimento non risulta dalle fonti Internet essere attualmente colpita da eventi di guerriglia nè il Paese risulta caratterizzato da assoluta instabilità, come, invece, prospettato dall’appellante. Infine la dedotta integrazione non consente il riconoscimento in via giudiziale del permesso umanitario, trattandosi di una condizione priva di rilievo. Avverso questa pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero. Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno. Nell’unico motivo viene censurata la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e l’omesso esame di fatti decisivi in relazione al rigetto della domanda riguardante il riconoscimento del diritto al permesso umanitario. La ricorrente ha evidenziato che la vicenda narratà ritenuta credibile, non è stata valorizzata, in particolare in relazione al fatto che egli è tenuto a mantenere la sua famiglia e può farlo soltanto fuori del Bangladesh per la situazione generale di povertà di quel paese, rischiando altrimtenti la recisione del suo matrimonio. In generale ha posto in luce che la protezione umanitaria ha natura residuale e che le situazioni di vulnerabilità devono essere accertate caso per caso. Ha infine osservato che non è stata svolta la comparazione tra il grado di integrazione e il livello di violazione dei diritti umani nel paese di origine in caso di rientro. La censura non è fondata. La vicenda narrata evidenzia, come rilevato esattamente dalla Corte d’Appello una situazione problematica sul piano economico per la carenza di reddito sufficiente a mantenere il proprio ampio nucleo familiare. Non vi è, pertanto, l’esigenza di approfondimento istruttorio officioso nè il paventato rischio dello scioglimento del vincolo coniugale, costituisce un presupposto per l’applicazione del principio di non refoulement, non evidenziandosi una situazione di pericolo persecutorio nè in senso stretto nè in senso lato in capo al ricorrente ma la necessità di risolvere problemi, ancorché seri, di carattere economico. Per quanto riguarda il mancato esame della vulnerabilità soggettiva del ricorrente sotto il profilo dell’omessa valutazione comparativa richiesta da Cass. 4455 del 2018 e S.U. 24960 del 2019, deve rilevarsi che non viene neanche prospettata nella censura una situazione di grave violazione dei diritti umani, essendo soltanto rappresentata a pag. 4 del ricorso la difficile situazione economica del pese. In conclusione, il ricorso è inammissibile. Segue l’applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese processuali del giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali da liquidarsi in Euro 2100 per compensi oltre spese prenotate a debito. Sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quarter, se dovuto.