Conversione religiosa poco credibile: niente protezione per la straniera

Respinta la domanda presentata da una donna originaria della Cina. I Giudici hanno rilevato che il momento centrale ed estremamente significativo della conversione è stato riferito in maniera vaga e generica, anche con riferimento alle ragioni della decisione.

Poco credibile, secondo i Giudici, la – rischiosa – conversione religiosa della straniera , originaria della Cina. Consequenziale il ‘no’ alla sua richiesta di protezione. E a sostegno di questa decisione anche la constatazione che in Italia la donna si trova a svolgere saltuari lavori di pulizia, ottenendo modesti guadagni non idonei a garantirle un’esistenza autonoma e dignitosa Cassazione, ordinanza n. 15550/20, sez. I Civile, depositata il 21 luglio . Posizione comune per ‘Commissione territoriale’ e Tribunale va respinta la domanda di protezione presentata in Italia da una cittadina della Cina, che ha raccontato di essere scappata dal proprio Paese per timore di persecuzioni da parte dello Stato a seguito della propria conversione religiosa. Per i giudici di merito, però, il racconto della straniera è poco convincente, poco credibile, e quindi non sufficiente a darle accoglienza in Italia. Queste considerazioni vengono contestate dalla donna che, tramite il proprio legale, presenta ricorso in Cassazione, parlando di violazione dei criteri legali per la valutazione di credibilità alla luce della omessa ricerca di informazioni relative al contesto di provenienza cioè alla Cina. A sostegno della richiesta di protezione, poi, la donna punta anche sulla mancata valutazione comparativa tra la situazione da lei vissuta in Italia e quella a cui sarebbe esposta in caso di ritorno in patria . Per i magistrati della Cassazione, però, la valutazione compiuta dai giudici del Tribunale è assolutamente corretta. E, viene aggiunto, il riscontro rappresentato dalla effettiva esistenza in Cina di una sorta di ‘lista nera’ che ricomprende la religione asseritamente professata dalla richiedente protezione non basta a renderne credibili le dichiarazioni . In sostanza, pur risultando dalle fonti consultate che la ‘Chiesa di Dio Onnipotente’ è ricompresa tra gli ‘evil cults’ dalle autorità cinesi , il racconto della straniera non raggiunge un sufficiente grado di attendibilità in quanto generico, poco circostanziato e a tratti implausibile . In particolare, il momento centrale ed estremamente significativo della conversione è stato riferito in maniera vaga e generica, anche con riferimento alle ragioni della decisione . Ecco le dichiarazioni della straniera Poiché a scuola avevo sempre ricevuto una educazione atea, pensavo che credere in Dio fosse solo una cosa che faceva bene ma non sapevo come fare. Mia madre aveva cercato di insegnarmi ma non l’avevo ascoltata. Poi ho iniziato a lavorare, non accettavo che i miei colleghi facessero regali ai superiori per guadagnare di più, non trovavo la mia strada, sentivo un vuoto dentro. Mia madre mi ha ripetuto la parola di Dio e ho iniziato a capire che era quella la giusta via da seguire”. A fronte di queste parole, però, i giudici evidenziano come la donna non riferisce alcun fatto specifico, grave e rilevante che potesse giustificare la sua conversione ad una fede religiosa vietata dall’autorità cinese, fede che peraltro ella conosceva da tempo in quanto professata dalla madre. Quanto alle caratteristiche della religione, che la straniera ha dichiarato di professare in maniera assidua dal 2008, ha riferito in maniera meccanica, senza aggiungere alcun elemento che potesse ricondurre a una interiorizzazione del credo . Inoltre, richiesta di spiegare come praticasse la sua fede, ha sinteticamente risposto ho predicato ai miei amici, ho partecipato a riunioni, portavo libri” . Secondo i giudici, poi, forti dubbi di plausibilità presentano i seguenti aspetti il fatto che la donna avesse praticato la sua fede, facendo anche opera di proselitismo, per un lasso di tempo apprezzabile dal 2008 al 2013 , senza mai incorrere in alcun problema il fatto che, in occasione del suo arresto mentre era in casa della consorella, la polizia non fosse riuscita ad arrestare la madre, anche lei assidua praticante, che, inspiegabilmente, sarebbe riuscita a fuggire la facile fuga, senza incontrare alcun ostacolo, dalla stazione di polizia dove era detenuta, appena il poliziotto addetto alla sua sorveglianza era stato colto dal sonno la facile corruttibilità delle autorità cinesi da parte di una persona ritenuta dissidente, autorità dalle quali era riuscita ad avere il passaporto, il ‘visto’ per l’Italia e addirittura la cancellazione dell’arresto, attraverso l’intercessione di una amica facoltosa . I giudici aggiungono ancora che la donna è caduta in una contraddizione grave. In particolare, ella ha affermato da un lato di avere interrotto, da quando è in Italia, i contatti con la famiglia in Cina perché teme di essere localizzata, avendo saputo che i poliziotti cinesi stanno collaborando con quelli italiani , però ha prodotto in udienza sei foto estratte da Youtube che la raffigurano mentre partecipa in Italia a manifestazioni di carattere religioso . Di conseguenza, secondo i giudici l’ostentazione della propria fede religiosa sui mezzi di comunicazione che consentono anche la geo-localizzazione delle persone costituisce senz’altro un elemento di scarsa attendibilità della dichiarazioni della donna, se non addirittura di precostituzione della prova finalizzata all’invocato riconoscimento della protezione nel nostro Paese . Tutti i dettagli evidenziati rendono assolutamente non attendibile il racconto della donna e consentono di escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria , concludono i giudici. Per quanto concerne, infine, la valutazione comparativa tra la situazione di provenienza e quella realizzata in Italia , viene evidenziato che la donna è ospite di un’amica connazionale, svolge lavori saltuari di pulizie con modesti guadagni, certamente non idonei a garantirle nel nostro Paese un’esistenza autonoma e dignitosa , con la conseguenza che ella non risulta aver raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica in Italia .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 3 marzo – 21 luglio 2020, n. 15550 Presidente De Chiara – Relatore Di Marzio Fatti di causa 1. - Yi. Sh. ricorre per due mezzi, nei confronti del Ministero dell'interno, contro il decreto del 20 dicembre 2018 con cui il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso avverso il diniego, da parte della competente Commissione territoriale, della domanda di protezione internazionale o umanitaria. 2. - Non spiega difese l'amministrazione intimata, nessun rilievo potendosi a scrivere ad un atto di costituzione depositato in vista dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione. Ragioni della decisione 1. - Il primo mezzo denuncia violazione dell'articolo 360 numero 3 c.p.c. in relazione agli articoli 3, terzo e quinto comma, del decreto legislativo numero 251 del 2007, 8, secondo e terzo comma, e 27, comma 1 bis, del decreto legislativo numero 25 del 2008, 6, sesto comma, del D.P.R. numero 21 del 2015, e 16 direttiva 2013/32/UE, falsa applicazione di norme di diritto, violazione dei criteri legali per la valutazione di credibilità del richiedente. Si sostiene, in breve, che il Tribunale avrebbe omesso la ricerca di informazioni relative al contesto di provenienza della ricorrente in relazione al giudizio di credibilità della medesima. Il secondo mezzo denuncia violazione dell'articolo 360, numero 3, c.p.c. in relazione agli articoli 8 e 32, terzo comma, del decreto legislativo numero 25 del 2008,5, sesto comma, e 19 del decreto legislativo numero 286 del 1998, violazione dei criteri legali per la concessione della protezione umanitaria. Si sostiene, in breve, che il Tribunale avrebbe omesso di effettuare la valutazione comparativa tra la situazione in cui versava la richiedente in Italia e quella alla quale sarebbe stata esposta in caso di ritorno nel proprio paese, per di più in assenza di qualunque attività istruttoria tesa verificare le condizioni di vita nel contesto di provenienza. 2. - Il ricorso è inammissibile. 2.1. - Il giudizio sulla credibilità del richiedente è stato motivato dal Tribunale come segue Nel caso di specie, pur risultando dalle fonti consultate che la Chiesa di Dio Onnipotente cd. Church of Almighty God o Eastern Lightning è ricompresa tra gli evil cults dalle autorità cinesi, il racconto della ricorrente non raggiunge un sufficiente grado di attendibilità in quanto generico, poco circostanziato e a tratti implausibile. Nella specie, il momento centrale ed estremamente significativo della conversione è stato riferito in maniera vaga e generica, anche con riferimento alle ragioni della decisione. Queste le sue dichiarazioni Poiché a scuola avevo sempre ricevuto una educazione atea, pensavo che credere in Dio fosse solo una cosa che faceva bene ma non sapevo come fare. Mia madre aveva cercato di insegnarmi ma non l'avevo ascoltata. Poi ho iniziato a lavorare, non accettavo che i miei colleghi facessero regali ai superiori per guadagnare di più, non trovavo la mia strada, sentivo un vuoto dentro. Mia madre mi ha ripetuto la parola di Dio e ho iniziato a capire che era quella la giusta via da seguire . Come è evidente, la ricorrente non riferisce alcun fatto specifico, grave e rilevante che potesse giustificare la sua conversione ad una fede religiosa vietata dall'autorità cinese, fede che peraltro la ricorrente conosceva da tempo in quanto professata dalla madre. Quanto alle caratteristiche della religione, che la ricorrente ha dichiarato di professare in maniera assidua dal 2008, ha riferito in maniera meccanica, senza aggiungere alcun elemento che potesse ricondurre a una interiorizzazione del credo, ciò che sostanzialmente è riportato nell'attestazione del presidente italiano della Chiesa di Dio Onnipotente a Roma, dalla stessa prodotto, e cioè che la religione si chiama la Chiesa di Dio onnipotente, la nostra scrittura e La parola appare sulla carne . La mia religione parla del ritorno di Gesù, Dio ha creato tre epoche l'era di Geova che ha scritto le leggi tramite Mosè, l'era di Grazia in cui Gesù è venuto sulla terra e si è sacrificato per noi, l'era della Parola in cui attraverso le parole si cercano di salvare le persone che ancora non comprendono. Richiesta di spiegare come praticasse la sua fede, ha sinteticamente risposto ho predicato ai miei amici, ho partecipato a riunioni, portavo libri . Forti dubbi di plausibilità presentano poi i seguenti aspetti - il fatto che la ricorrente avesse praticato la sua fede, facendo anche opera di proselitismo, per un lasso di tempo apprezzabile dal 2008 al 2013 , senza mai incorrere in alcun problema - il fatto che, in occasione del suo arresto mentre era in casa della consorella, la polizia non fosse riuscita ad arrestare la madre della ricorrente, anche lei assidua praticante, che, inspiegabilmente, sarebbe riuscita a fuggire - le ripetute percosse intercalate dalle richieste della ricorrente di avere spiegazione di tanta violenza in paese in cui c'è libertà di religione -la facile fuga, senza incontrare alcun ostacolo, dalla stazione di polizia dove era detenuta appena il poliziotto addetto alla sua sorveglianza era stato colto dal sonno - la facile corruttibilità delle autorità cinesi da parte di una persona ritenuta dissidente, autorità dalle quali era riuscita ad avere passaporto, visto per l'Italia e addirittura la cancellazione dell'arresto del 5/8/2013, attraverso l'intercessione di una amica facoltosa. La ricorrente è poi caduta in una contraddizione grave. Ha affermato da un lato di avere interrotto, da quando è in Italia, i contatti con la famiglia in Cina perché teme di essere localizzata avendo saputo che i poliziotti cinesi stanno collaborando con quelli italiani. Ha invece prodotto in udienza n. 6 foto estratte da youtube che la raffigurano mentre partecipa in Italia a manifestazioni di carattere religioso. L'ostentazione della propria fede religiosa sui mezzi di comunicazione che consentono anche la geo-localizzazione degli interessati costituisce senz'altro un elemento di scarsa attendibilità della dichiarazioni della ricorrente, se non addirittura di precostituzione della prova finalizzata all'invocato riconoscimento della protezione nel nostro Paese. Le plurime e gravi lacune, inconsistenze e contraddizioni sopra evidenziate rendono assolutamente non attendibile il racconto della ricorrente e consentono di escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ai sensi dell'art. 14 letto a e b del D.L. vo n. 251/2007 . Tale doviziosa e ragionata motivazione, la quale eccede senz'altro la soglia del minimo costituzionale Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053 , non si pone affatto in conflitto con il precetto dettato dal quinto comma dell'articolo 3 del decreto legislativo numero 251 del 2007, giacché esso impone tra l'altro al giudice di considerare veritieri fatti esposti dal richiedente se le sue dichiarazioni sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al caso orbene, a parte il fatto che l'acquisizione di informazioni, che secondo la ricorrente sarebbe stata nella specie omessa, presuppone dichiarazioni coerenti e plausibili, giacché, come è ovvio, non avrebbe alcun senso imporre al giudice di verificare invece dichiarazioni prive dei requisiti minimi di coerenza e plausibilità, è comunque assorbente il rilievo che le informazioni risultano in questo caso acquisite, ove si consideri che il giudice di merito ha riscontrato l'effettiva esistenza di una sorta di lista nera che ricomprende la religione asseritamente professata dalla richiedente, ma ha nondimeno ritenuto che detta circostanza non valesse a rendere credibili le dichiarazioni in discorso, con giudizio che, siccome effettuato nell'osservanza dei parametri legali, e, come si diceva, assistito da adeguata motivazione, si sottrae a qualunque sindacato di questa Corte. Ed in effetti il ricorso altro non è che un tentativo di rimettere in discussione l'accertamento di fatto concernente la credibilità della richiedente, con conseguente inammissibilità, come si premetteva, della doglianza. 2.2. - Anche il secondo motivo è inammissibile, giacché prescinde dalla ratio decidendi posta a sostegno della decisione impugnata. La ricorrente lamenta che il Tribunale non avrebbe effettuato la valutazione comparativa tra la situazione di provenienza e quella realizzata in Italia ma nel ricorso non v'è nulla che descriva, e tanto meno comprovi, la situazione della ricorrente in Italia al di là di quanto già riferito dal giudice di merito, ossia che Yi. Sh. è ospite di un'amica connazionale, svolge lavori saltuari di pulizie con modesti guadagni, certamente non idonei a garantirle nel nostro paese un'esistenza autonoma e dignitosa , con l'ulteriore conseguenza che la donna non risulta aver raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica in Italia. Sicché il giudizio comparativo contemplato dalla giurisprudenza di questa Corte v. Cass., Sez. Un., 13 novembre 2019, n. 29460 è stato effettuato, giacché il Tribunale ha escluso l'esistenza di difficoltà ad un reinserimento sociale e lavorativo della ricorrente nel paese di provenienza, tra l'altro soffermandosi specificamente anche sulle sue condizioni di salute, ed in particolare su un disturbo post traumatico da stress giudicato privo di rilievo per i fini del riconoscimento della protezione umanitaria. 3. - Nulla per le spese. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. PER QUESTI MOTIVI dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.