Sul diniego della protezione internazionale al richiedente condannato per omicidio nel suo paese d’origine

L’esclusione dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria ex artt. 10, comma 2, lett.b e 16 lett. b del d.lgs. n. 251/2007 richiede l’accertamento dell’avvenuta commissione, da parte del richiedente, di reati fuori del territorio italiano, la cui gravità dipende dalla pena edittale prevista dalla legge italiana per il medesimo illecito e impone al giudice una valutazione autonoma delle circostanze che affronti anche le deduzioni del richiedente.

Così ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 11668/20, depositata il 16 giugno. La Corte d’Appello respingeva il ricorso proposto da un cittadino pakistano al quale era stata negata la protezione internazionale , ritenendo sussistente la causa di esclusione di cui agli artt. 10, comma 2, lett.b e 16 lett. b del d.lgs. n. 251/2007. Il ricorrente, infatti, aveva riferito di essere stato condannato all’ergastolo nel suo paese d’origine per l’omicidio della fidanzata, di essere stato ingiustamente accusato ma di non avere prove per smentire gli accertamenti svolti dal Tribunale pakistano. Avverso la decisione il cittadino straniero propone ricorso in Cassazione lamentando che la cautela nell’applicazione delle cause di esclusione impone di verificare se la sentenza di condanna del richiedente sia divenuta definitiva. Inoltre il ricorrente lamenta una mancata valutazion e delle circostanze specifiche del caso. La Cassazione, ritenendo fondato il ricorso, rileva che in generale il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione internazionale non può essere concesso a chi abbia commesso un reato grave fuori dal territorio nazionale. Tale condizione ostativa tuttavia deve essere accertata alla data della decisione e può essere rilevata dal giudice, anche d’Appello. Tuttavia l’esclusione dello status di rifugiato politico e di protezione sussidiaria richiede l’accertamento dell’avvenuta commissione di reati fuori del territorio italiano , la cui gravità dipende dalla pena edittale prevista dalla legge italiana per il medesimo illecito. Dunque, gli artt. 10, comma 2, lett.b e 16 lett. b del d.lgs. n. 251/2007 impongono al giudice una valutazione autonoma che affronti anche le deduzioni del richiedente e nel caso di specie il rilievo attribuito alla sentenza del paese d’origine del richiedente, senza alcun esame della concreta portata della decisione e senza valutazione delle circostanze dedotte dal ricorrente esprime una errata applicazione della norma e un inesatto metro valutativo che è stato adottato dal Giudice. Chiarito questo, la Cassazione accoglie il motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 gennaio – 16 giugno 2020, n. 11668 Presidente Giancola – Relatore De Marzo Fatti di causa 1. Con sentenza depositata il 20 ottobre 2017 la Corte d’appello di Milano ha respinto l’appello proposto nell’interesse di N.R. avverso la decisione di primo grado, che aveva rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale. 2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza della causa di esclusione di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b e art. 16, comma 1, lett. b , per avere lo stesso ricorrente riferito di essere stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della fidanzata, ritrovata bruciata nella stalla appartenente alla sua famiglia, senza poi essere in grado di precisare se fosse stata proposta impugnazione e con quale esito. La Corte territoriale, pur dando atto che il ricorrente aveva riferito di essere ingiustamente stato accusato dell’omicidio dai parenti della ragazza, di fede sciita, che osteggiavano la relazione con lui, al contrario, musulmano sunnita, ha osservato di non avere a disposizione elementi contrari in grado di smentire gli accertamenti del Tribunale pakistano, la cui decisione non poteva escludersi essere, nelle more, divenuta definitiva. La sentenza impugnata, infine, ha osservato a che le sopra indicate ragioni non escludevano teoricamente il riconoscimento della protezione umanitaria, ma che, in realtà, il motivo per il quale il N.R. si trovava sul suolo italiano appariva quello di sfuggire ai parenti della vittima e sottrarsi alla condanna comminata per un reato gravissimo b che il timore dell’appellante di essere condannato a morte non aveva fondamento, giacché era stato condannato a venticinque anni di detenzione e non vi era alcuna prova che tale pena potesse essere trasformata in senso peggiorativo. 3. Avverso tale sentenza N.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi cui hanno resistito con controricorso il Ministero dell’interno e la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b e art. 16, comma 1, lett. b . Sottolineato che nè la Commissione territoriale competente, nè il giudice di primo grado avevano ritenuto la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della causa di esclusione, il ricorrente osserva che la necessaria cautela nella applicazione delle cause di esclusione, da accompagnare ad una completa valutazione delle circostanze del caso di specie, impone di verificare se la sentenza sia divenuta definitiva, all’esito di un giudizio in cui sia stato effettivamente consentito allo straniero l’esercizio del diritto di difesa, tenendo, altresì conto, del divieto di pena di morte previsto dall’art. 27 Cost. e del divieto di subire torture e trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, era mancata una compiate e attenta valutazione delle circostanze specifiche del caso. La doglianza è fondata. In linea generale, in materia di protezione internazionale, il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria non essere concesso, rispettivamente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b e art. 16, comma 1, lett. b , come modificati dal D.Lgs. n. 18 del 2014, art. 1, comma 1, lett. h e l , n. 1, a chi abbia commesso un reato grave al di fuori dal territorio nazionale, anche se con un dichiarato obiettivo politico, così come, per identità di ratio, non può essere riconosciuta la protezione per motivi umanitari. Tale causa ostativa, in quanto condizione dell’azione, deve essere a accertata alla data della decisione e, involgendo la mancanza dell’elemento costitutivo previsto dalla suddetta legge, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in appello Cass. 30 ottobre 2018, n. 27504 . Non è dato cogliere alcuna violazione di legge, pertanto, per il fatto che siffatta causa ostativa sia stata rilevata dalla Corte distrettuale ex officio. Tuttavia, in tema di protezione internazionale, l’esclusione dello status di rifugiato politico e dello status di protezione sussidiaria, previste rispettivamente dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 10, comma 2, lett. b e art. 16, comma 1, lett. b , richiede l’accertamento dell’avvenuta commissione di reati fuori del territorio italiano, da qualificai si gravi alla luce del parametro della pena edittale prevista dalla legge italiana per quel medesimo illecito Cass. 23 ottobre 2017, n. 25073 . L’art. 10, comma 2, lett. b cit., infatti, al pari dell’art. 16, comma 1, lett. a citati, pone come criterio valutativo l’esistenza di fondati motivi per ritenere che lo straniero abbia commesso un grave reato. Ora, da un punto di vista sistematico si osserva che le norme non attribuiscono valore decisivo all’esistenza di una sentenza straniera anche perché sarebbe singolare l’attribuzione di un valore vincolante ad una decisione giurisdizionale straniera ex se e in mancanza di una esplicita deroga ai criteri generali di cui alla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64 ma impongono al giudice una valutazione autonoma che si dia carico di affrontare anche le deduzioni del richiedente, dal momento che le cause di esclusione vanno accertate con rigore e a carico dello Stato. Nel caso di specie, pertanto, il mero rilievo attribuito alla sentenza pakistana senza alcun esame della concreta portata della decisione e una puntuale considerazione delle specifiche circostanze dedotte dal ricorrente quanto ai fatto che la prima, da lui stesso prodotta, sarebbe il frutto di una macchinazione per ragioni religiose ai suoi danni, esprime esattamente un’errata applicazione della norma giuridica, in ragione dell’inesatto metro valutativo adottato. Anzi può aggiungersi che finisce per fare difetto proprio quel concreto accertamento della persecuzione lamentata dal ricorrente e da lui argomentata anche in relazione all’epilogo giudiziario del quale s’è detto. 2. L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento del secondo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, con il quale si deduce violazione di legge con riferimento al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in ordine alla mancata concessione della protezione umanitaria. Il ricorrente lamenta la violazione del principio di non refoulement con riferimento all’art. 3 della CEDU, anche in relazione al rischio dell’applicazione della pena di morte e dall’altro lamenta la mancata considerazione della grave situazione di vulnerabilità personale della situazione di buona integrazione lavorativa e sociale del ricorrente. P.Q.M. Accoglie il primo motivo dichiara assorbito il secondo in relazione al disposto accoglimento, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.