Opposizione all’esecuzione: non c’è violazione di legge se il Giudice assegna un termine superiore a tre mesi per l’introduzione del giudizio di merito

In tema di opposizione all’esecuzione, il termine che, ai sensi dell’art. 616 c.p.c., il Giudice dell’esecuzione deve assegnare alle parti, all’esito della fase sommaria, per introdurre il giudizio di merito o riassumerlo davanti all’ufficio giudiziario competente deve essere contenuto entro quelli minimo un mese e massimo tre mesi stabiliti dall’art. 307, comma 3, c.p.c Nondimeno, qualora il Giudice erroneamente assegni un termine maggiore, non incorre in decadenza la parte che introduca il giudizio oltre lo spirare dei tre mesi, ma entro il termine concretamente assegnatogli. Infatti, la legge che rimette al Giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario cui le parti debbano comunque attenersi.

Il caso. Con sentenza emessa dal Tribunale di Genova – successivamente confermata dalla Corte di Appello della medesima località – due fratelli sono stati condannati al risarcimento dei danni derivanti dalla nullità della compravendita di quattro immobili che, per circonvenzione della venditrice incapace, gli stessi avevano a suo tempo acquistato a prezzo irrisorio, peraltro neppure effettivamente corrisposto. In forza di tale titolo, i creditori hanno dunque precettato il pagamento delle somme liquidate dal Tribunale, effettuando successivamente un pignoramento presso terzi. A seguito dell’opposizione proposta dagli esecutati , il Giudice dell’esecuzione ha disposto la parziale sospensione del processo esecutivo limitatamente alla rivalutazione e agli interessi precettati e ha assegnato le somme residue, concedendo il termine semestrale per l’introduzione del giudizio di merito , successivamente ritualmente instaurato dai creditori procedenti. Costituendosi nel relativo giudizio di merito, l’opponente ha eccepito – tra l’altro – la tardività dell’introduzione del giudizio di merito, in quanto asseritamente perfezionatasi oltre la scadenza del termine trimestrale di cui all’art. 307 c.p.c. così come ridotto dalla L. n. 69/2009. La decisione della Corte di Cassazione. Per quanto qui di interesse, gli esecutati hanno proposto ricorso per cassazione eccependo la violazione dell’art. 307 c.p.c., insistendo nell’eccezione preliminare di tardività dell’introduzione del giudizio di opposizione già formulata in primo grado. Secondo i ricorrenti, nonostante il Giudice dell’esecuzione avesse assegnato un termine di sei mesi per introdurre il giudizio di merito, il termine perentorio da osservare sarebbe invece stato quello di tre mesi stabilito dalla citata disposizione , come modificata dalla L. n. 69/2009. Per quanto la Corte di Cassazione abbia richiamato il proprio orientamento secondo cui nell’ipotesi – certamente diversa, ma strutturalmente affine – in cui il Giudice assegna alle parti, ai sensi dell’art. 50 c.p.c., un termine per riassumere la causa davanti all’ufficio giudiziario dichiarato competente, tale termine non può essere inferiore o superiore a quello minimo e massimo stabiliti dall’art. 307 c.p.c., le deduzioni del ricorrente sono state rigettate. Secondo gli Ermellini, infatti, in tema di opposizione all’esecuzione, il termine che, ai sensi dell’art. 616 c.p.c., il Giudice dell’esecuzione deve assegnare alle parti, all’esito della fase sommaria, per introdurre il giudizio di merito o riassumerlo davanti all’ufficio giudiziario competente deve essere contenuto entro quelli minimo un mese e massimo tre mesi stabiliti dall’art. 307, comma 3, c.p.c Nondimeno, qualora il Giudice erroneamente assegni un termine maggiore, non incorre in decadenza la parte che introduca il giudizio oltre lo spirare dei tre mesi , ma entro il termine concretamente assegnatogli. Infatti, la legge che rimette al Giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario cui le parti debbano comunque attenersi.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 7 novembre 2019 – 5 giugno 2020, n. 10806 Presidente De Stefano – Relatore D’Arrigo Fatti di causa Il Tribunale di Genova, con sentenza confermata in parte qua dalla Corte di appello, condannò C.O.A., in solido col fratello C.O.G. e la Immobiliare Palon s.p.a., al risarcimento dei danni derivanti dalla nullità della compravendita di quattro immobili in OMISSIS che, per circonvenzione della venditrice incapace G.T. vicenda già oggetto di procedimento penale conclusosi per prescrizione , gli stessi acquistarono a prezzo irrisorio, neppure effettivamente corrisposto. In forza del titolo i creditori G., A. ed Ma.An. e Mo.Fe. precettarono a C.O. il pagamento della complessiva somma di Euro 367.817,69 e, a seguire, effettuarono un pignoramento presso terzi, incardinato innanzi al Tribunale di Genova. L'esecutato si oppose, deducendo che non erano dovuti gli importi richiesti per rivalutazione ed interessi e neppure molte delle voci per spese legali successive. Disposta la parziale sospensione del processo esecutivo, limitatamente alla rivalutazione e agli interessi indicati in precetto, all'udienza del 29 ottobre 2009 furono assegnate le somme residue e venne fissato il termine di mesi sei per l'introduzione del giudizio di merito. A tale onere provvidero i M.- Mo. con atto di citazione notificato nei giorni 22 e 23 marzo 2010. L'opponente, costituendosi, ha eccepito la tardività dell'introduzione del giudizio di merito, in quanto perfezionatasi oltre la scadenza del termine trimestrale di cui all'art. 307 c.p.c. così come ridotto dalla L. n. 69 del 2009 . Inoltre, ha insistito sull'insanabile contraddittorietà della sentenza azionata, che aveva liquidato il risarcimento all'attualità ed al contempo aveva riconosciuto come spettanti ai creditori gli accessori fin dalla data dei fatti ed ha ribadito la non spettanza di alcune delle ulteriori voci precettate. Il Tribunale di Genova ha respinto l'opposizione. Il C.O. ha impugnato la decisione, ma la Corte d'appello di Genova ha respinto il gravame. C.O.A. ha proposto ricorso, articolato in quattro motivi, per la cassazione della sentenza d'appello. Gli intimati hanno resistito con controricorso. E' stata disposta la trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata, in vista della quale il ricorrente e i controricorrenti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c. Con ordinanza interlocutoria n. 5633/2018 il Collegio ha disposto la trattazione del ricorso in pubblica udienza, ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., comma 3, non ravvisando la sussistenza dei presupposti per la trattazione in sede camerale. Entrambe le parti hanno depositato, ai sensi dell'art. 378 c.p.c., memorie difensive. Ragioni della decisione 1.1 Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 307 e 616 c.p.c., insistendo nell'eccezione preliminare di tardività dell'introduzione nel merito del giudizio di opposizione già formulata in primo grado. Osserva in proposito che, nonostante il giudice dell'esecuzione avesse assegnato alle parti un termine di sei mesi per introdurre il giudizio di merito, il termine perentorio da osservare era invece quello di tre mesi stabilito dall'art. 307 c.p.c., comma 3, come modificato dalla L. n. 69 del 2009. La Corte d'appello, che pur aveva ritenuto che il giudizio di opposizione fosse soggetto alle novità introdotte con la citata L. n. 69 del 2009, sarebbe caduta in errore nella parte in cui ha poi affermato che l'art. 307 c.p.c., comma 3, avrebbe potuto trovare applicazione solamente nel caso in cui si fosse dovuto riassumere il giudizio innanzi ad altro ufficio competente, ma non anche nel caso di prosecuzione davanti al medesimo tribunale infatti, la disposizione in commento non consente - a parere del ricorrente - tale distinzione, giacchè essa riguarda genericamente tutti i casi in cui occorre proseguire, riassumere o integrare il giudizio . 1.2 Il motivo è infondato. Questa Corte, come esattamente osservato dal ricorrente, ha già affermato che il termine fissato dal giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 616 c.p.c. è soggetto alla regola generale posta dall'art. 307 c.p.c., comma 3, valevole in tutti i casi in cui non sia stabilita dalla legge la durata dei termini entro cui alle parti spetta di proseguire o riassumere il giudizio e tale termine deve essere stabilito dal giudice Sez. 3, Sentenza n. 25142 del 27/11/2006, Rv. 593821 - 01 . A conferma della portata generale di tale disposizione è opportuno richiamare la pronuncia della Cassazione con cui è stato recentemente ribadito che pure nell'ipotesi - certamente diversa, ma strutturalmente affine - in cui il giudice assegna alle parti, ai sensi dell'art. 50 c.p.c., un termine per riassumere la causa davanti all'ufficio giudiziario dichiarato competente, tale termine non può essere inferiore o superiore a quello minimo e massimo stabiliti dall'art. 307 c.p.c., comma 3, Sez. 3, Sentenza n. 11204 del 24/04/2019, Rv. 653709 - 02 . Peraltro, diversamente da quanto sostiene la Corte d'appello, l'art. 307 c.p.c., comma 3, non consente affatto di distinguere, nel caso in cui si debba introdurre nel merito il giudizio di opposizione all'esecuzione, a seconda se questo prosegua davanti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice dell'esecuzione, ovvero debba essere riassunto dinanzi ad altro giudice. La disposizione in commento, infatti, si riferisce indistintamente a tutti i casi in cui le parti debbano proseguire, riassumere o integrare il giudizio . La norma, dunque, è insensibile alla circostanza che l'impulso di parte determini la prosecuzione del giudizio innanzi allo stesso giudice che ha assegnato il termine perentorio oppure davanti ad un diverso ufficio giudiziario. La prospettazione del ricorrente è corretta pure nella parte un cui afferma che, per individuare la versione dell'art. 307 c.p.c. applicabile ratione temporis, occorre far riferimento alla data in cui è stato proposto il ricorso in opposizione, anzichè a quella in cui è stata avviata l'azione esecutiva, stante l'evidente autonomia dei due processi. Di conseguenza, poichè il ricorso in opposizione è stato depositato in data 10 luglio 2009, cioè pochi giorni dopo l'entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 4 luglio 2009 , il termine per introdurre il giudizio di merito doveva essere contenuto entro la durata massima di tre mesi. 1.3 Nondimeno, alla violazione di tale termine non seguono le conseguenze auspicate dal ricorrente. Com'è noto, i termini si distinguono in legali e giudiziari art. 152 c.p.c. . I primi sono stabiliti dalla legge, gli altri dal giudice. I termini stabiliti dalla legge sono, di regola, ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori. Anche quelli fissati dal giudice possono essere a pena di decadenza, ma soltanto se la legge lo permette espressamente. L'art. 616 c.p.c. autorizza il giudice a fissare un termine, espressamente qualificato come perentorio, per l'introduzione del giudizio di merito all'esito della fase sommaria dell'opposizione all'esecuzione. Il termine così stabilito è, quindi, un termine giudiziario a pena di decadenza. Talora accade - come nel caso di cui all'art. 307 c.p.c., comma 1, - che la legge stabilisca un termine minimo e/o un termine massimo entro cui il giudice può esercitare il suo potere discrezionale. Qualora, in concreto, il giudice erroneamente esorbiti dai limiti stabiliti dalla legge, le conseguenze sono diverse a seconda che egli abbia assegnato alle parti un termine inferiore al minimo o superiore al massimo entro cui avrebbe dovuto contenersi. Un termine inferiore al minimo, infatti, comprime illegittimamente il diritto di difesa, in quanto rende eccessivamente difficoltoso l'esercizio di un'attività processuale per la quale la legge ha inteso assicurare alle parti quantomeno un certo lasso di tempo. Pertanto, le parti che compiano l'attività dovuta entro il termine minimo stabilito dalla legge non incorrono in alcuna decadenza, a prescindere dal fatto che il giudice abbia fissato un minor termine. Viceversa, qualora il giudice abbia assegnato alle parti un termine superiore a quello massimo previsto dalla legge, le parti non incorreranno in decadenza per il sol fatto di non aver rispettato il termine legale. Infatti, sebbene un siffatto provvedimento sia illegittimo, non può aversi la sostituzione automatica del maggior termine fissato dal giudice nel nostro caso, sei mesi con quello massimo, ma inferiore, stabilito dalla legge tre mesi, ai sensi del novellato art. 307 c.p.c., comma 3 . Affinchè possa ritenersi apposto un termine giudiziario perentorio occorre a che vi sia una norma che attribuisca al giudice il potere di stabilire siffatto termine b che il giudice emetta in concreto un provvedimento che lo fissi. Ove si sostituisse al termine stabilito dal giudice quello previsto dalla legge per il combinato disposto dell'art. 616 c.p.c. e art. 307 c.p.c., comma 3 , si avrebbe un termine perentorio giudiziario in carenza del secondo presupposto sul punto v. anche Sez. 3, Sentenza n. 13165 del 25 maggio 2017, non massimata . In altri termini, si determinerebbe la conversione di un termine giudiziario in un termine legale. Ed invece occorre tenere distinta l'ipotesi in cui la legge fissa direttamente un termine perentorio da quella in cui essa assegna al giudice il potere di fissare un termine di decadenza, stabilendone una durata minima e/o massima tali limiti valgono solo nei confronti del giudice, ma non anche come termini perentori sostitutivi imposti alle parti in caso di cattivo esercizio, da parte del giudice, del potere conferitogli. Di conseguenza, anche se il giudice stabilisce un termine perentorio illegittimo in quanto esorbitante il limite massimo consentito dalla legge, è pur sempre al contenuto del provvedimento giudiziario che le parti devono fare riferimento per l'eventuale decadenza. Tale conclusione, oltretutto, risulta coerente con i principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., del processo equo fissato dall'art. 6 CEDU e della effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Difatti, deve essere ritenuto incolpevole l'affidamento che le parti facciano nel contenuto di un provvedimento giudiziario che, sebbene in concreto illegittimo, assegni comunque loro un determinato termine per il compimento, a pena di decadenza, di una certa attività processuale. Va dunque affermato il seguente principio di diritto In tema di opposizione all'esecuzione, il termine che, ai sensi dell'art. 616 c.p.c., il giudice dell'esecuzione deve assegnare alle parti, all'esito della fase sommaria, per introdurre il giudizio di merito o riassumerlo davanti all'ufficio giudiziario competente deve essere contenuto entro quelli minimo un mese e massimo tre mesi stabiliti dall'art. 307 c.p.c., comma 3. Nondimeno, qualora il giudice erroneamente assegni un termine maggiore, non incorre in decadenza la parte che introduca il giudizio oltre lo spirare dei tre mesi, ma entro il termine concretamente assegnatogli. Infatti, la legge che rimette al giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario cui le parti debbano comunque attenersi . 1.4 Nel caso di specie, come si è chiarito in premessa, il giudice dell'esecuzione ha in concreto fissato un termine per introdurre il giudizio di merito, ai sensi dell'art. 616 c.p.c., di sei mesi. Si tratta, quindi, di un termine più lungo di quello tre mesi previsto dall'art. 307 c.p.c., comma 3, nella versione applicabile alle cause iniziate in primo grado in data successiva al 4 luglio 2009. Tuttavia, l'art. 307 c.p.c., comma 3, è una norma che pone un limite all'esercizio del potere del giudice di stabilire il termine entro cui il giudizio di merito doveva essere introdotto, ma non stabilisce direttamente un termine di decadenza per le parti. Pertanto, non è incorsa in decadenza la parte che ha introdotto il giudizio di merito oltre il termine dei tre mesi previsto dall'art. 307 c.p.c., comma 3, ma entro quello semestrale previsto nel provvedimento del giudice dell'esecuzione. Il motivo deve essere quindi rigettato e la decisione impugnata deve essere confermata sul punto, previa correzione della motivazione, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 4, nei termini sopra illustrati. 2.1 Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 324,112, 474 e 615 c.p.c., nonchè la violazione o falsa applicazione dell'art. 2909 c.c. Con l'atto d'appello il C.O. aveva riproposto una censura concernente la sentenza che i creditori hanno azionato quale titolo esecutivo, giacchè tale decisione aveva liquidato il risarcimento in una somma già alla data attuale , ma, contraddittoriamente, aveva al contempo condannato i soccombenti al pagamento anche degli interessi e della rivalutazione. Ora il ricorrente si lamenta della circostanza che la Corte d'appello, pur avendo riconosciuto che fosse incerta la volontà espressa nel titolo esecutivo, ha tuttavia concluso che simili doglianze avrebbero potuto essere fatte valere mediante l'appello avverso quella sentenza, oramai passata in giudicato. Osserva, sul punto, il C.O. che la circostanza che la sentenza di condanna fosse passata in giudicato non esclude che la stessa debba essere interpretata in sede esecutiva e che le relative contestazioni non attengono al contenuto decisorio del giudizio di nullità della compravendita, bensì alla individuazione di quale sia l'effettiva portata del praeceptum posto in esecuzione forzata. La sentenza della corte di merito e dunque è censurata per essersi sottratta il compito di interpretare il titolo esecutivo. Con il terzo motivo si denuncia la violazione degli artt. 324,112, 474 e 615 c.p.c. Anche tale doglianza riguarda il problema dell'interpretazione del titolo esecutivo, con specifico riferimento alla debenza degli interessi e della rivalutazione. In questo caso, però, la sentenza impugnata viene censurata nella parte in cui ha ritenuto che sul tema si fosse formato un giudicato non tangibile in sede esecutiva. Dei due motivi, benchè suscettibili di essere esaminati congiuntamente, è fondato solo l'ultimo. 2.2 In realtà, è pacifico che il vizio di un titolo esecutivo giudiziale va fatto valere esclusivamente coi mezzi di impugnazione propri di questo, se ancora esperibili, restando altrimenti indeducibile in qualsiasi opposizione alle esecuzioni su quello fondate si veda per tutte Sez. U, Sentenza n. 19889 del 23/07/2019, pag. 31, cui si rimanda per ulteriori riferimenti . Ciò che implica l'infondatezza del secondo motivo, in sè considerato e quindi limitato a questa affermazione resa dalla Corte d'appello, intrinsecamente corretta. E tuttavia, la circostanza che il titolo esecutivo sia costituito da una sentenza passata in giudicato e che, quindi, non possano ri proporsi in sede di opposizione all'esecuzione censure che attendono al merito della decisione, non solleva il giudice dell'esecuzione e, di conseguenza, neppure il giudice del giudizio di merito dell'opposizione all'esecuzione proposta sul punto dall'onere di interpretarne il contenuto e la portata Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 32196 del 12/12/2018, Rv. 651979 - 01 . La Corte d'appello, invece, si è limitata ad osservare che la questione della debenza degli interessi legali e della rivalutazione era stata dedotta nel giudizio di impugnazione avverso la sentenza che oggi funge da titolo esecutivo, ma la questione era stata dichiarata inammissibile perchè proposta per la prima volta con la comparsa conclusionale. Tale circostanza, pur determinando il passaggio in giudicato della statuizione contenuta nella decisione di primo grado, non esclude che quest'ultima, una volta impiegata quale titolo esecutivo posto a fondamento dell'azione esecutiva opposta, debba essere soggetta ad interpretazione, specialmente rispetto ad un profilo che la stessa sentenza qui impugnata riconosce essere di contenuto effettivamente incerto. Ovviamente, non si vuol dire che il giudice dell'opposizione all'esecuzione possa sostituirsi a quello della causa di merito nel valutare se quelle voci accessorie fossero dovute oppure no. Piuttosto, in presenza di una sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro passata in giudicato, il giudice dell'opposizione deve procedere all'interpretazione del giudicato esterno, individuandone il contenuto precettivo sulla base del dispositivo e della motivazione. Egli non può, cioè, limitarsi a rilevare l'esistenza del giudicato, ma deve pure definirne la portata e chiarire dunque se, sulla base del titolo, gli interessi e la rivalutazione sono dovuti. In proposito, è utile ricordare che - in presenza di un contenuto ambiguo e bisognevole di chiarimenti - è consentita anche l'interpretazione extra-testuale del titolo esecutivo giudiziale, purchè avvenga sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo e l'esito non sia tale da attribuire al titolo una portata contrastante con quanto risultante dalla lettura congiunta di dispositivo e motivazione principio affermato da Sez. U, Sentenza n. 11066 del 02/07/2012, Rv. 622929 - 01, e costantemente riaffermato dalla giurisprudenza successiva, ad iniziare da Sez. 3, Sentenza n. 1027 del 17/01/2013, fino a, da ultimo, Sez. L, Ordinanza n. 5049 del 25/02/2020, Rv. 656939 - 01 . Al contrario, deve ritenersi esclusa la possibilità di integrare una pronuncia carente o dubbia facendo riferimento a regole di diritto o ad orientamenti giurisprudenziali tra le altre, Sez. L, Sentenza n. 14986 del 27/11/2001, Rv. 550607 - 01 , in quanto in tal modo il giudice dell'esecuzione finirebbe per sovrapporre la propria valutazione giuridica a quella del giudice di merito. 2.3 Per tali ragioni, la sentenza impugnata deve essere cassata in accoglimento del terzo motivo di ricorso. Il giudice del rinvio si atterrà, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, al presente principio di diritto Allorquando il titolo esecutivo sia costituito da una sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro passata in giudicato, compete al giudice dell'esecuzione e, in caso di opposizione ex art. 615 c.p.c., al giudice dell'opposizione procedere all'interpretazione del giudicato esterno, individuandone la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione, potendo ricorrere, nel caso in cui il contenuto del titolo sia obbiettivamente ambiguo o incerto e ferma l'indeducibilità di motivi di contestazione nel merito delle statuizioni, anche ad elementi extra-testuali, purchè ritualmente acquisiti nel processo ed a condizione che egli non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito . 3.1 Con il quarto motivo il ricorrente prospetta la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in quanto la Corte d'appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame relativo alla liquidazione delle spese di lite, limitandosi ad una mera motivazione apparente. Il motivo è fondato. 3.2 Va premesso, in diritto, che pure dopo la modifica dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che ha espunto il vizio di motivazione dall'elenco dei motivi di ricorso, è denunciabile in cassazione l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830 - 01 . In particolare, sebbene non sia più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all'obbligo di motivazione previsto in via generale dall'art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile . In tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, Rv. 650880 - 01 . 3.3 Nel caso in esame, il C.O. aveva dedotto, con l'opposizione all'esecuzione, che nell'atto di precetto fossero incluse alcune voci non dovute, fra cui visure catastali e ispezioni catastali . In sede di appello, aveva specificatamente contestato la decisione di primo grado nella parte in cui si era limitata a dire che alcuni degli importi precettati erano relativi ad attività effettivamente svolte dopo la pubblicazione della sentenza e altre alla procedura esecutiva, ponendo in evidenza che egli aveva contestato la debenza non di tali voci, bensì di quelle relative ad attività che non avevano alcun nesso diretto nè con la pubblicazione della sentenza, nè con l'intimazione del precetto di pagamento. La Corte d'appello si è limitata ad osservare che alcune spese indicate nell'atto di precetto attenevano alla fase successiva al deposito della sentenza, mentre altre erano relative alla procedura esecutiva promossa e non avrebbero perciò potuto essere liquidate nella sentenza . Tale motivazione è meramente apparente in quanto, sebbene asseritamente riferita al motivo di appello prospettato dall'opponente, non ha, nella sostanza, offerto alcuna risposta a questa specifica doglianza. La corte di merito, dunque, non ha verificato se la sentenza di primo grado contenesse l'errore denunciato dall'appellante, nè ha passato in rassegna le singole voci contestate, onde verificarne l'effettiva riconducibilità all'una o all'altra delle due ipotesi dalla stessa prospettate e, soprattutto, al fine di verificare se erano tutte congruenti con l'attività legale effettivamente svolta. In tal modo, riproducendo la motivazione della sentenza di primo grado, senza alcun confronto dialettico con le specifiche censure formulate dall'appellante, la Corte d'appello si è sottratta all'onere specifico di motivazione. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata anche in relazione a questo profilo. 4. Il giudice del rinvio dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo ed il quarto cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.