Il silenzio della sentenza sulle spese del CTU non può mai considerarsi “concludente”

E’ affetta dal vizio di omessa pronuncia la sentenza d’appello che, accogliendo il gravame e accollando le spese di lite alla parte soccombente, taccia sulla sorte delle spese della consulenza tecnica d’ufficio eseguita nel primo grado di giudizio, a nulla rilevando che tali spese abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato, ex art. 168 d.p.r. 115/02.

Il danno patito da una società di cooperativa edilizia, per effetto del ritardato rilascio dell’alloggio da parte del socio estromesso può essere liquidato in via equitativa ex art. 2727 c.c., anche in mancanza di una prova specifica del suo esatto ammontare, avuto riguardo all’oggetto sociale, al presumibile uso che la società avrebbe fatto di quell’immobile nel caso di tempestiva riconsegna, alla durata dell’occupazione illegittima ed alle caratteristiche dell’immobile. Tale in sintesi il contenuto dell’ordinanza della Corte di Cassazione numero 10804/20, depositata il 5 giugno, che ora andiamo ad analizzare più da vicino. Una società cooperativa convenne in giudizio due coniugi esponendo che il proprio oggetto sociale era la costruzione di immobili da assegnare ai soci che l’uomo era stato socio della società e gli era stato assegnato provvisoriamente un alloggio che successivamente, questi era stato radiato dalla cooperativa per morosità e che pertanto da allora i due coniugi avevano occupato l’immobile sine titulo , dunque illegittimamente da ciò la richiesta di condanna dei convenuti al rilascio dell’immobile, al pagamento di quanto ancora dovuto alla cooperativa e al risarcimento dei danni per illegittima occupazione . I due convenuti, costituendosi, affermarono, lui l’inesistenza di un grave inadempimento , e, sotto vari aspetti, la morosità, non avendo la cooperativa dato prova della propria pretesa di pagamento, e che, essendosi separato dalla moglie, le spese generali dovevano essere addebitate a lei, rimasta da sola ad occupare l’immobile lei, di non avere mai ricevuto alcuna intimazione o diffida, che il provvedimento di radiazione era illegittimo ed inefficace”, non indicando l’autorità presso cui era possibile impugnarlo né i documenti attestanti la morosità. In primo grado le richieste attoree vennero respinte con la motivazione che il fascicolo di parte, ritirato al momento della precisazione delle conclusioni, non era stato depositato entro i termini di cui all’art. 169 c.p.c. e che conseguentemente le allegazioni e le deduzioni non potevano essere prese in considerazione. Appellata la sentenza dalla società, il secondo grado si concludeva a suo favore infatti, la decisione affermava che il fascicolo era stato depositato tempestivamente, che il provvedimento di radiazione, non essendo stato impugnato nei termini, era definitivo che la fuoriuscita del socio faceva venir meno il titolo che legittimava l’occupazione dell’immobile che si condividevano le conclusioni del CTU, secondo cui residuava in capo alla cooperativa un credito di euro 8.749,86 infine, era da respingersi la domanda di risarcimento del danno, non essendo questo stato provato. La sentenza è impugnata in cassazione dai due nel frattempo divenuti ex coniugi, mentre la cooperativa propone appello incidentale. La delibera di radiazione è contestabile solo mediante specifica opposizione. Con il primo motivo i ricorrenti principali contestano la violazione degli artt. 2527 c.c. e 28 d.lgs. numero 310/2004 e sostengono che il provvedimento di radiazione era nullo, in quanto emesso dal consiglio di amministrazione e non dall’assemblea e che tale nullità è rilevabile in ogni stato e grado. Motivo infondato, risponde la Corte il provvedimento si sarebbe dovuto impugnare mediante opposizione, ai sensi dell’art. 2527 c.c., entro trenta giorni dalla comunicazione conseguentemente, nel giudizio attivato per occupazione indebita non si può fare valere l’invalidità della delibera a corredo del principio, più volte affermato, la Corte richiama numerosi precedenti, quali Cass. numero 12001/2005, Cass. numero 26211/2013, Cass. numero 25945/2011 . Una diversa valutazione delle prove non spetta al Giudice di Legittimità. Nel secondo motivo le norme richiamate sono le stesse, ma la censura attiene all’assenza di prova del credito, da parte della società, e alla conseguente erronea quantificazione della CTU e della sentenza che alla stessa aveva fatto riferimento. Motivo inammissibile perché l’individuazione del debito dovuto da un socio verso la società cooperativa è un accertamento di fatto e non di diritto, come tale precluso ai giudici di Legittimità. Sostanzialmente si chiede una diversa valutazione delle fonti di prova, ma rileva la Corte che tale diversa valutazione, per costante e pluridecennale orientamento, non è consentita in sede di legittimità, e non rileva che tali prove avrebbero potuto essere valutate in maniera differente anche qui, la Corte richiama una serie di precedenti e cioè, tra tanti Cass. numero 7394/2010, Cass. numero 13954/2007, Cass. numero 12052/2007, Cass. numero 7972/2007, Cass. numero 5274/2007, Cass. numero 2577/2007, Cass. numero 27197/2006, Cass. numero 14267/2006, Cass. numero 12446/2006, Cass. numero 9368/2006, Cass. numero 9233/2006, Cass. numero 3881/2006 fino a Cass. 1674/1963 . Le obbligazioni del socio nascono dal contratto di società. Con il terzo motivo si contesta l’omesso esame di un fatto decisivo. Il motivo contiene due censure. La prima lamenta la mancata considerazione dell’assenza di prova della morosità e la seconda, riferibile al solo marito contesta che, con la intervenuta separazione dalla moglie e rimasta solo lei ad occupare l’immobile , quegli non era più tenuto a pagare le spese generali dovute alla cooperativa. Anche dette censure sono respinte, la rima con gli stesi motivi affermati in relazione al secondo motivo la seconda, con la motivazione che ciò che fonda le obbligazioni nei confronti della società da parte del socio è il contratto di società, le obbligazioni dipendono dalla sua qualità di socio e perdurano fino a che questa permanga. Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse. Col quarto motivo si censura, come violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., il fatto che a fronte della richiesta di liquidazione per un periodo, la Corte d’Appello aveva accolto la domanda per un periodo diverso e inferiore. A pare la circostanza che tale richiesta non soddisfa la previsione di cui all’art. 100 c.p.c., secondo cui per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”, - dal momento che il suo accoglimento, comportando la liquidazione per un periodo più amplio, sarebbe sfavorevole al suo autore -, in ogni caso non può riconoscersi il vizio di ultrapetizione, che si ha quando il giudice decida su una domanda mai formulata, o attribuisca un bene della vita mai richiesto. Dunque, la Corte respinge tutti i motivi del ricorso principale. Passiamo ora ai motivi sollevati nel ricorso incidentale. Valutazione equitativa del danno da ritardato rilascio dell’immobile da parte del socio della cooperativa edilizia. Qui, il primo motivo contesta il mancato riconoscimento del danno da occupazione di immobile senza titolo, motivato con la mancata prova del danno. Afferma la cooperativa che tale prova si sarebbe potuta desumere ai sensi dell’art. 2727 c.c., secondo cui Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato . Per la Corte il motivo è fondato per violazione dell’art. 1223 c.c., a mente del quale Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta . Ricordano i Giudici che qualora sia lamentato un mancato guadagno dovuto all’inadempimento o al fatto illecito che ha comportato la mancata disponibilità dell’immobile, la Corte di Cassazione ha già affermato, il danno può presumersi ai sensi dell’art. 2727 c.c. anche dal fatto noto che l’immobile del quale il danneggiato non ha potuto disporre avesse una vocazione commerciale o comunque ad un impiego remunerativo . Non che tale danno debba intendersi in re ipsa , essendo sempre necessaria la prova dello stesso, ma non può prescindersi da un ampio ricorso alla prova presuntiva ed all ’id quod plerumque accidit dalla considerazione della natura dell’immobile tardivamente restituito e dal rilievo che può costituire danno” in senso giuridico anche la perdita dell’utilità teorica che il danneggiato poteva ritrarre dall’uso diretto del bene, durante il tempo per il quale è stato occupato da altri richiama in argomento i precedenti di Cass. numero 18494/2105, numero 7493/2017, 30472/2018 . Nel caso di specie il danneggiato è una società cooperativa edilizia, come tale avente per oggetto sociale per l'appunto la costruzione e l’assegnazione ai soci degli immobili realizzati o acquistati dunque, la mancata restituzione del bene ha parzialmente impedito il raggiungimento di tale scopo. Avendo accertato la Corte d’Appello lo scopo mutualistico della società e la ritardata restituzione dell’immobile, la pretesa dell’ulteriore prova dell’effettivo pregiudizio, tralasciando quello rappresentato ex se dall’impedimento al conseguimento dello scopo sociale costituisce una falsa applicazione dell’art. 1223 c.c Segue dunque l’enunciazione del principio di diritto, come enunciato in massima. L’omessa liquidazione delle spese del CTU in sentenza non è colmabile in via interpretativa. Con il secondo motivo il ricorso incidentale contesta la mancata liquidazione nella sentenza di appello delle spese dovute al CTU. In primo grado tali spese erano state poste provvisoriamente a carico delle parti in solido ed in secondo grado la sentenza, pur condannando i convenuti al pagamento delle spese di lite, non aveva disposto nulla circa le spese della consulenza tecnica. Per la cooperativa, tale omissione mantiene in vita la statuizione del primo grado, addossandole così parte delle spese di lite, con conseguente violazione dell’art. 91 c.p.c., oltre che dell’art. 112 c.p.c. Prima di affrontare la doglianza, la Corte ne esclude l’inammissibilità, sollevata dai ricorrenti principali, secondo cui essa si sarebbe dovuta sollevare in grado di appello e non in grado di Legittimità basta sul punto la considerazione che, proponendo l’appello, la cooperativa, rimasta soccombente in primo grado nel merito, chiese la riforma sia del merito, che della regolazione delle spese con ciò dunque includendo nel tema dedendum anche la regolazione delle spese della consulenza . Nel merito, per la Corte il motivo fondato in effetti la sentenza di appello nulla ha statuito sulle spese della consulenza, con ciò errando dal momento che ai sensi dell’art. 336 c.p.c. La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata comma 1 . A tale omissione non può sopperirsi in via interpretativa infatti non è possibile concludere né per la conferma della statuizione di primo grado, che addossava le spese in solido a tutte le parti, né per la implicita condanna ai soccombenti, né per la condanna alla parte vittoriosa. La Corte ci spiegherà perché la soluzione in via interpretativa non è possibile. Per farlo, vorrà esporre sinteticamente il quadro normativo che regola la liquidazione e la ripartizione delle spese di consulenza tecnica d’ufficio nel processo civile. E dunque. Le spese di consulenza tecnica , al pari di tutte le altre del processo, pongono tre aspetti problematici. Quello dell’ anticipazione , quello della liquidazione e quello della ripartizione tra i litiganti. All’anticipazione, che è solo eventuale, e alla liquidazione provvede il giudice che procede, in atti diversi dalla sentenza. La liquidazione è contenuta in un decreto motivato, comunicato alle parti e al CTU ex art. 168 d.P.R. numero 115/2002 e opponibile ex art. 170 d.P.R. numero 115/2002 . Sia nel provvedimento con cui dispone l’anticipazione delle spese che nel provvedimento con cui dispone la liquidazione definitiva delle stesse, il giudice può indicare quale delle parti sia tenuta, ma tale statuizione non è da confondersi con quella con cui si liquidino le spese processuali ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c, ed ha l’unico fine di consentire al CTU di disporre di un titolo esecutivo nei confronti della parte obbligata, ma il CTU ha il diritto di pretendere il compenso da qualunque delle parti in causa . Il CTU potrà così rivolgersi anche alla parte non individuata dal giudice e questa dovrà pagare, salvo poi rivalersi mediante azione di regresso ex art. 1299 c.c. Ciò, in quanto il principio della soccombenza opera solo nei rapporti con le parti e non nei confronti dell’ausiliario sul punto la Corte cita i precedenti di Cass. numero 25047/2018, 23522/2014, 23586/2008, 6199/1996 . Dunque la liquidazione delle spese dovute al consulente non ha a che vedere con le spese di lite la prima è regolata dagli artt. 168-170 DPR 115/2002, mentre la seconda dagli artt. 91 e 92 c.p.c. La prima è contenuta nel decreto opponibile ex art. 170 cit., l’altra è nella sentenza. La prima fornisce al CTU il titolo esecutivo per pretendere da qualunque parte il pagamento, la seconda non regola i rapporti tra le parti ed il CTU, ma quelli delle parti alla fine del processo. Da ciò discende che primo, la liquidazione delle spese del CTU va fatta con decreto motivato , modificabile solo dal tribunale, su opposizione, e non con sentenza. Secondo, quale che sia il modo con cui nel decreto il giudice nel decreto ha statuito circa il pagamento delle spese al CTU, nella sentenza dovrà in ogni caso provvedere ex novo su tale punto addossandole al soccombente, o anche ove vi siano i presupposti compensandole cita qui, tra molti, i precedenti di Cass. numero 26849/2019, Cass. numero 17739/2016, ass. numero 9813/2015 . Infatti, come detto, da un lato la regolazione delle spese prescinde da quanto indicato nel decreto ex DPR 115/2002 cita Cass. numero 12110/2003 , dall’altro, il giudice può sempre compensare le spese. Ne deriva che il silenzio della sentenza sulle spese del CTU non può mai considerarsi un silenzio concludente”. Da quanto detto, deve dunque ritenersi abbandonato, prosegue la Corte, l’orientamento precedente all’attuale Testo Unico sulle spese di giustizia D.P.R. numero 115/2002 , secondo cui disposta, per giusti motivi, la compensazione delle spese giudiziali, ove il giudice con pregresso decreto abbia attribuito alla parte poi soccombente il pagamento integrale delle spese di CTU, questa non potrà pretendere nei confronti dell’altra parte il pagamento anche parziale delle stesse, che restano a carico di chi le ha anticipate Cass. numero 5976/2001 . Orientamento che, dice la Corte, non può oggi condividersi, dal momento che prescinde dalla totale autonomia e indipendenza tra i due provvedimenti del decreto di liquidazione del spese e della regolazione delle spese nella sentenza che conclude il giudizio. Allo stesso modo, prosegue la Corte, non può condividersi l’opposto orientamento, sempre espresso in grado di Legittimità, secondo cui se nella statuizione sulle spese nulla si dice circa le spese del CTU, non vi è omessa pronuncia, perché la decisione sulle spese del giudizio ricomprende implicitamente quelle sulla consulenza Cass. numero 1023/2013 e Cass. numero 25817/2017 . Tale orientamento si fonda, dice la Corte, esclusivamente sulla motivazione per cui la compensazione non comporta condanna, ma solo esclusione dal rimborso motivazione a cui il Collegio non aderisce sia per il suo contenuto oggettivamente tautologico sia perché l’esclusione dal rimborso delle spese sostenute in nulla si distingue dalla condanna a rifondere all’altra parte le spese che, anticipate da essa, si é potuto evitare di sostenere . Da quanto osservato, consegue che nel caso in cui per il decreto ex d.P.R. numero 115 cit., le spese siano stata anticipate dalla parte poi risultante soccombente può accadere che se la liquidazione delle spese applicherà la regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c., le spese resteranno a carico della parte che le ha anticipate ove invece le spese siano compensate ex art. 92 c.p.c., si adotterà analoga regola per le spese della CTU, che quindi spetteranno per metà e chi le ha anticipate avrà diritto al regresso il giudice potrà, inoltre, compensando le spese, decidere che quelle della CTU restino a carico della parte soccombente si tratterà di una compensazione parziale delle spese sempre possibile, v. Cass. numero 22868/2019 menzionata nel provvedimento . Ove invece il decreto abbia addossato le spese alla parte poi risultata vittoriosa, potrà accadere che se con la sentenza il giudice applicherà il criterio della soccombenza ex art. 91 c.p.c., dovrà espressamente condannare il soccombente alla refusione delle spese di CTU ove invece la sentenza compensi le spese di giudizio, dovrà condannare la parte soccombente alla refusione del 50% delle spese di CTU alla parte vittoriosa. Dopo tale amplissima premessa, la Corte tira le fila del discorso sulla fattispecie concreta e conclude che le sentenza de qua è effettivamente viziata da omessa pronuncia e non può desumersi alcuna decisione implicita. Infatti, in primis, come detto, la sentenza prescinde del tutto dal contenuto del decreto ex art 168 d.P.R. numero 115/2002 deve poi escludersi che la sentenza che condanna i soccombenti ex art. 91 c.p.c. alla refusione delle spese di lite possa avere implicitamente voluto addossare ai soccombenti le spese di CTU. La regolazione delle spese dev’essere esplicita od almeno inequivoca ” ed il mero silenzio sulle spese di consulenza non può dirsi inequivoco. Infine deve escludersi, altresì, che la sentenza abbia implicitamente voluto addossare le spese di CTU alla cooperativa, in virtù del principio per cui tra più interpretazioni plausibili va eliminata quella che renderebbe l’atto invalido e così sarebbe, in violazione dell’art. 91 c.p.c., l’attribuzione alla parte vittoriosa le spese di CTU. Conclusivamente, la sentenza ha omesso di decidere circa la liquidazione delle spese di CTU e spetterà a giudice del rinvio colmare la lacuna, attenendosi al principio enunciato dalla Corte come in massima. La contestazione della violazione dei minimi tariffari dev’essere per specifiche voci Il terzo motivo del ricorso incidentale è infine qualificato inammissibile. Il ricorrente incidentale si duole del mancato rispetto, nella liquidazione dei compensi, dei minimi tabellari di cui al DM numero 127/2004. Ed invero, come riporta la sentenza, la Corte di Cassazione ha già stabilito che i parametri di liquidazione delle spese processuali, in base a cui vanno commisurati i compensi forensi ai sensi dell’art. 41 D.M. numero 140/2012, si applicano ove la liquidazione giudiziale pervenga dopo l’entrata in vigore del decreto, se a tale data l’attività difensiva non si sia completata non operano invece quando la liquidazione pervenga successivamente alla conclusione dell’attività Cass. 17577/2018 e Cass. SS. UU. numero 17405/2012 . Il motivo, come detto, ritenuto inammissibile in quanto non specifica la o le singole voci degli onorari e dei diritti che risulterebbero liquidate in maniera inferiore ai minimi normativi cita sul punto tra molte, Cass. numero 30716/2017 .

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 22 ottobre 2019 – 5 giugno 2020, n. 10804 Presidente Armano – Relatore Rossetti Fatti di causa 1. Nel 2003 la società cooperativa Urbania a r.l. d'ora innanzi, per brevità, la Cooperativa convenne dinanzi al Tribunale di Latina C.A. e S.M., esponendo che - il proprio oggetto sociale era costituito dalla costruzione di immobili, da assegnare ai soci - C.A. dal 1990 era socio della cooperativa, e gli era stato provvisoriamente assegnato un alloggio sito a omissis - il consiglio d'amministrazione della cooperativa il 21 dicembre 2001 deliberò la radiazione del suddetto socio, per morosità - ciononostante il socio e sua moglie, S.M., erano rimasti nella detenzione dell'alloggio, ormai sine titulo. Concluse pertanto chiedendo la condanna dei convenuti al rilascio dell'immobile, al pagamento delle somme ancora dovute alla cooperativa quantificate in Euro 23.898,58 ed al risarcimento del danno da illegittima occupazione. 2. Si costituirono ambedue i convenuti. C.A., secondo quanto riferito nel ricorso per cassazione, respingeva la ricorrenza dell'ipotesi di grave inadempimento e contestava sotto diversi profili la ricorrenza della morosità che gli era imputata in citazione, per non avere la cooperativa prodotto alcun documento giustificativo della propria pretesa di pagamento . Aggiungeva che, essendosi separato dalla moglie S.M. sin dal 7 giugno 2000, le spese generali pretese dalla cooperativa dovevano essere poste a carico della moglie, unico occupante dell'immobile. 3. Si costituì altresì S.M., sostenendo di non aver mai ricevuto dalla cooperativa alcuna intimazione o diffida e che comunque il provvedimento di radiazione del socio C. era illegittimo ed inefficace, sia perchè non indicava l'autorità dinanzi al quale poteva essere impugnato, sia perchè non vi erano stati allegati documenti comprovanti la morosità contestata così il ricorso per cassazione, p. 4 . 4. Il Tribunale di Latina con sentenza 29.9.2011 n. 2564 rigettò le domande attoree, sul presupposto che la Cooperativa, dopo aver ritirato il proprio fascicolo di parte al momento della precisazione delle conclusioni, non lo aveva depositato nei termini di cui all'art. 169 c.p.c. e che di conseguenza le sue allegazioni e produzioni documentali non potevano essere prese in esame. 5. La sentenza venne impugnata dalla società soccombente. Con sentenza 6 settembre 2017 n. 5648 la Corte d'appello di Roma accolse il gravame. La Corte d'appello, rilevato che dagli atti di causa risultava che il fascicolo della Cooperativa era stato tempestivamente depositato, ritenne che - il provvedimento di radiazione del socio C.A., non tempestivamente impugnato, era ormai definitivo - la perdita della qualità di socio determinava l'assenza di qualsiasi titolo per l'occupazione dell'immobile - erano condivisibili le conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, il quale aveva determinato il credito residuo della cooperativa nella misura di 8.749,86 Euro - andava rigettata, in quanto non provata, la domanda di risarcimento del danno da occupazione sine titulo. 6. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da C.A. e S.M., con un ricorso unitario fondato su quattro motivi ed illustrato da memoria. Ha resistito con controricorso la Cooperativa, proponendo ricorso incidentale fondato su tre motivi. Ragioni della decisione 1. Il primo motivo del ricorso principale. 1.1. Col primo motivo i ricorrenti principali lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell'art. 2527 c.c. e del D.Lgs. 28 dicembre 2004, n. 310, art. 28. Sostengono che il provvedimento di radiazione di C.A. dalla Cooperativa era nullo, perchè adottato dal consiglio di amministrazione della società cooperativa invece che dall'assemblea dei soci aggiungono che tale nullità può essere rilevate ogni stato e grado del giudizio. 1.2. Il motivo è infondato, alla luce del principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui il socio che sia stato escluso dalla società può far valere i vizi della relativa Delibera soltanto mediante l'opposizione ex art. 2527 c.c., da proporre entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione ne consegue che nel giudizio avente ad oggetto la domanda di rilascio dell'immobile della società, abusivamente occupato dal socio, il giudice non può sindacare la legittimità del provvedimento di esclusione Sez. 1, Sentenza n. 12001 del 08/06/2005, Rv. 581524-01 nello stesso senso, Sez. 1, Sentenza n. 26211 del 22.11.2013 Sez. 1, Sentenza n. 25945 del 5.12.2011, in motivazione Sez. 1, Sentenza n. 26211 del 22/11/2013, Rv. 629534-01 Sez. 1, Sentenza n. 25945 del 05/12/2011, Rv. 620808-01 . 2. Il secondo motivo del ricorso principale. 2.1. Col secondo motivo i ricorrenti principali lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione delle medesime norme già indicate nell'epigrafe del primo motivo. Nella illustrazione del motivo, tuttavia, ad onta di tali riferimenti normativi, espongono che la Cooperativa non aveva affatto provato l'entità del proprio credito che le conclusioni raggiunte dal consulente tecnico d'ufficio in merito alla quantificazione del suddetto credito erano erronee e comunque non fondate su valide prove, che pertanto erroneamente la Corte d'appello aveva condiviso quella consulenza. 2.2. Il motivo è inammissibile. Lo stabilire quale sia l'ammontare del credito d'una società cooperativa nei confronti d'un socio moroso non è una valutazione in N, diritto, ma un accertamento di fatto, come tale non sindacabile in questa sede. Il motivo in esame pertanto, al di là di richiami puramente formali alle norme che si assumono violate da parte della Corte d'appello, nella sostanza richiede a questa Corte una nuova e diversa valutazione delle fonti di prova sottoposte al vaglio del giudice di merito. Una censura di questo tipo, tuttavia, cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747 Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004 Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230 Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019 Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448 Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677 Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021 Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557 Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229 Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706 Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486 Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214 e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esamè, poi ritenuto per sessant'anni e cioè che la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione . 3. Il terzo motivo del ricorso principale. 3.1. Col terzo motivo i ricorrenti principali lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo. Il motivo, nonostante la sua formale unità, contiene due censure. 3.2. Con una prima censura i ricorrenti sostengono che la Corte d'appello non avrebbe considerato il seguente fatto decisivo che la Cooperativa, sulla quale incombeva il relativo onere, non aveva affatto dimostrato che il socio C.A. fosse moroso. Con una seconda censura, evidentemente riferibile al solo ricorrente C.A. p. 17 del ricorso , questi aggiunge che in ragione della intervenuta separazione dalla moglie non era più tenuto a corrispondere le spese generali richieste dalla Cooperativa. 3.3. La prima delle suddette censure è inammissibile per le medesime ragioni già indicate supra, al p. 2.2 della presente motivazione e cioè che, con essa, i ricorrenti censurano la valutazione delle prove e la ricostruzione dei fatti. La seconda delle censure sopra esposte è infondata. Infatti le obbligazioni del socio nei confronti della società cooperativa scaturiscono dal contratto di società, dipendono dalla sua qualità di socio, e perdurano fino a che questa permanga. E', di conseguenza, irrilevante ai fini della nascita delle suddette obbligazioni la circostanza che il socio abbia abbandonato l'immobile in seguito a separazione coniugale. 4. Il quarto motivo del ricorso principale. 4.1. Col quarto motivo i ricorrenti principali lamentano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell'art. 112 c.p.c Nella illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile la Cooperativa, con l'atto introduttivo del giudizio, aveva sostenuto che il convenuto C.A. si era reso moroso nel pagamento delle obbligazioni su di lui gravanti in quanto socio, per il periodo compreso tra il 1 gennaio 1991 ed il 31 agosto 2002 la Corte d'appello aveva tuttavia accolto la domanda per un diverso e minore periodo, vale a dire per la morosità maturata dal 1 gennaio 1991 al 31 dicembre 2001. Di qui, secondo i ricorrenti, deriverebbe il vizio di ultrapetizione. 4.2. Il motivo è innanzitutto inammissibile per difetto di interesse, ex art. 100 c.p.c L'accoglimento di esso, infatti, comporterebbe quale naturale conseguenza la condanna del debitore al pagamento di un importo maggiore di quello liquidato dal giudice di merito. Il motivo è comunque anche infondato. Sussiste infatti il vizio di ultrapetizione quando il giudice pronunci su una domanda mai formulata, oppure attribuisca un bene della vita non richiesto non, invece, quando accolga una domanda effettivamente formulata, ma in misura minore rispetto a quanto richiesto. 5. Il primo motivo del ricorso incidentale. 5.1. Col primo motivo di ricorso incidentale la Cooperativa lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223,1226,1591,2043, 2056 e 197 c.c Sostiene che erroneamente la Corte d'appello di Roma ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da ritardata restituzione dell'immobile, ritenendo non fornita, da parte della Cooperativa, la prova della sussistenza del danno lamentato. Tale prova, osserva la ricorrente incidentale, si sarebbe infatti dovuta desumere ex art. 2727 c.c., dal fatto stesso che la Cooperativa aveva perduto per molti anni la disponibilità d'un immobile destinato ad uso abitativo, e si sarebbe dovuto liquidare ponendo a base del calcolo un affitto mensile di circa Euro 600, indicato come similare al frutto ordinariamente ricavato dalla Cooperativa dall'assegnazione di alloggi analoghi a quello oggetto del contendere. 5.2. Il motivo è fondato, con riferimento alla lamentata violazione dell'art. 1223 c.c Tale norma, come noto, stabilisce che il risarcimento del danno da inadempimento o da fatto illecito deve comprendere così la perdita subita, come il mancato guadagno. Quando il danneggiato assuma che il mancato guadagno causato dall'inadempimento o dal fatto illecito sia derivato dalla perduta possibilità di disporre d'un bene immobile, questa Corte ha già ripetutamente affermato che l'esistenza del danno possa presumersi, ai sensi dell'art. 2727 c.c., anche dal fatto noto che l'immobile del quale il danneggiato non ha potuto disporre avesse una vocazione commerciale o comunque ad un impiego remunerativo. Ciò non vuol dire che il danno da perduta disponibilità d'un immobile debba ritenersi in re ipsa, e che di conseguenza vada dichiarato esistente sol perchè sia stata provata l'occupazione abusiva. Anche per i danni di cui si discorre, infatti, la prova di essi che sia diretta, indiretta, presuntiva, legale, storica o critica resta sempre necessaria. Tuttavia nell'accertamento dell'esistenza del danno in esame non può prescindersi da un ampio ricorso alla prova presuntiva ed all'id quod plerumque accidit dalla considerazione della natura dell'immobile tardivamente restituito e dal rilievo che può costituire danno in senso giuridico anche la perdita dell'utilità teorica che il danneggiato poteva ritrarre dall'uso diretto del bene, durante il tempo per il quale è stato occupato da altri Sez. 3, Sentenza n. 18494 del 21.9.2015 Sez. 3, Ordinanza n. 7439 del 23.3.2017 Sez. 2, Ordinanza n. 30472 del 23.11.2018 . Nel caso di specie, il soggetto danneggiato era una società cooperativa edilizia ed una società cooperativa edilizia ha per oggetto sociale giustappunto la costruzione e l'assegnazione ai soci dei beni immobili realizzati od acquistati, sicchè la ritardata restituzione dell'immobile necessariamente aveva parzialmente impedito il conseguimento di tale scopo. La Corte d'appello dunque ha accertato in punto di fatto che il danneggiato era una società con scopo mutualistico ha accertato in punto di fatto che vi fu ritardata restituzione dell'immobile ma ha preteso dalla Cooperativa la prova ulteriore della sussistenza d'un effettivo pregiudizio, trascurando di considerare quello rappresentato ex se dall'impedimento al conseguimento dello scopo sociale. Di qui la falsa applicazione dell'art. 1223 c.c La sentenza impugnata va di conseguenza cassata su questo punto, con rinvio alla Corte d'appello di Roma, la quale nel tornare ad esaminare la domanda di risarcimento proposta dalla Cooperativa, applicherà il seguente principio di diritto il danno patito da una società cooperativa edilizia, per effetto del ritardato rilascio dell'alloggio da parte del socio estromesso può essere liquidato in via equitativa ex art. 2727 c.c., anche in mancanza d'una prova specifica del suo esatto ammontare, avuto riguardo all'oggetto sociale, al presumibile uso che la società avrebbe fatto di quell'immobile nel caso di tempestiva riconsegna, alla durata dell'occupazione illegittima ed alle caratteristiche dell'immobile . 6. Il secondo motivo del ricorso incidentale. 6.1. Col secondo motivo del ricorso incidentale la Cooperativa lamenta che la Corte d'appello, nel regolare le spese del doppio grado di giudizio, abbia trascurato di provvedere sulle spese di consulenza tecnica, violando l'art. 112 c.p.c Espone che in primo grado le spese di consulenza erano state poste provvisoriamente a carico delle parti in solido, e che in sede di gravame la Corte d'appello, pur condannando i soccombenti alla rifusione delle spese di lite in favore della Cooperativa, nulla stabilì in merito alle spese di consulenza. La società ricorrente ne trae la conclusione che, nulla avendo la Corte d'appello stabilito al riguardo, la ripartizione delle spese di consulenza operata dal primo giudice sarebbe rimasta ferma anche dopo la sentenza d'appello, e che di conseguenza la Corte d'appello, addossandole una frazione delle spese di lite, avrebbe violato l'art. 91 c.p.c 6.2. Va preliminarmente rigettata l'eccezione di inammissibilità di tale doglianza, sollevata dai ricorrenti principali nella memoria depositata ai sensi dell'art. 378 c.p.c Secondo i ricorrenti principali, il secondo motivo del ricorso incidentale sarebbe inammissibile perchè la doglianza che ne forma oggetto si sarebbe dovuta sollevare in grado di appello. Tuttavia basterà in contrario rilevare che la Cooperativa, rimasta soccombente in primo grado nel merito, proponendo l'appello chiese la riforma della sentenza di primo grado tanto nel merito, quanto con riferimento alla regolazione delle spese, e con tale domanda ha dunque necessariamente introdotto nel thema decidendum del giudizio d'appello anche la questione relativa alle spese di consulenza. 6.3. Nel merito il motivo è fondato, con riferimento alla lamentata violazione dell'art. 112 c.p.c La sentenza d'appello, infatti, nulla ha disposto in merito alle spese di consulenza ed avrebbe dovuto farlo, poichè essa, riformando quella di primo grado, aveva necessariamente travolto tutte le statuizioni ivi contenute, così come previsto dall'art. 336 c.p.c., secondo cui la riforma della sentenza impugnata ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata . Nè tale totale carenza di statuizioni può essere superata in via interpretativa. Non è possibile, infatti, nè supporre che il giudice d'appello abbia voluto richiamare implicitamente le statuizioni sulle spese di consulenza adottate dal Tribunale nel decreto di liquidazione di queste ultime ove vennero poste a carico delle parti in solido nè supporre che la Corte d'appello, addossando agli appellanti principali soccombenti le spese di lite, abbia implicitamente voluto porre a loro carico anche le spese di consulenza nè, infine, supporre che la Corte d'appello abbia voluto addossare le suddette spese alla Cooperativa. Per spiegare queste tre affermazioni è necessario ripercorrere brevemente il quadro normativo che disciplina la liquidazione e la ripartizione delle spese di consulenza nel processo civile. 6.4. Le spese di consulenza, come tutte le spese processuali, pongono un triplice problema quello della loro anticipazione, quello della loro liquidazione, e quello della loro ripartizione tra i litiganti. All'anticipazione che può anche mancare, non essendo imposta da alcuna norma di legge ed alla liquidazione definitiva delle spese di consulenza provvede il magistrato che procede, ma con atti diversi dalla sentenza. La liquidazione delle spese di consulenza deve infatti avvenire con decreto motivato comunicato alle parti ed al c.t.u. D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 168 , suscettibile di autonoma opposizione nelle forme prescritte dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 15 D.P.R. n. 115 del 2002, cit., art. 170 . Nel provvedimento con cui si accorda al c.t.u. un'anticipazione c.d. fondo-spese , e col decreto di liquidazione definitiva delle spese di consulenza il giudice può stabilire quale, tra le parti in causa, debba sopportare il relativo onere ma questa statuizione non ha nulla a che vedere col provvedimento di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c., ed ha l'unico scopo di consentire al c.t.u. di disporre d'un titolo esecutivo nei confronti della parte obbligata. Le statuizioni sul riparto delle spese di consulenza contenute nel decreto di liquidazione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 168, infatti, non sono opponibili al c.t.u., il quale ha diritto di pretendere il compenso da qualunque delle parti in causa e se la parte di fatto escussa dal c.t.u. per il pagamento non fosse quella onerata delle spese di consulenza nel decreto di liquidazione, tale circostanza non potrà essere opposta all'ausiliario. Unica conseguenza sarà che la parte richiesta del pagamento da parte del c.t.u., se diversa da quella onerata oppure se all'esito della lite le spese processuali saranno poste a carico di altre parti , potrà agire in regresso ex art. 1299 c.c., nei confronti di queste ultime. Ciò in quanto il principio della soccombenza opera solo nei rapporti con le parti e non nei confronti dell'ausiliare Sez. 2, Sentenza n. 25047 del 10/10/2018 Rv. 650671-01 Sez. 6-3, Ordinanza n. 23522 del 05/11/2014, Rv. 633222-01 Sez. 2, Sentenza n. 23586 del 15/09/2008, Rv. 605201-01 Sez. 1, Sentenza n. 6199 del 08/07/1996, Rv. 498416-01 . 6.5. La liquidazione del compenso dovuto all'ausiliario non ha nulla a che vedere con la regolazione delle spese di lite. La prima è disciplinata dal D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 168-170 la seconda dagli artt. 91 e 92 c.p.c La prima deve essere effettuata con decreto opponibile D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 15, la seconda con la sentenza. La prima comporta il diritto del c.t.u. di pretendere il pagamento da qualunque parte, in solido con le altre la seconda non regola i rapporti tra le parti ed il c.t.u., ma i rapporti tra le parti del processo. Da ciò discendono due corollari. Il primo è che la liquidazione delle spese di c.t.u. va fatta con decreto motivato, modificabile solo al Tribunale in sede di opposizione, e non con la sentenza. Il secondo corollario è che, quale che sia il modo in cui il giudice, nel decreto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 169, abbia ripartito le spese tra le parti previsione che, in quel decreto, per quanto detto potrebbe anche mancare tutte le parti infatti saranno sempre obbligate in solido verso l'ausiliario , nella sentenza conclusiva del giudizio il giudicante dovrà, sempre e comunque, provvedere ex novo a regolare tra le parti le spese di consulenza vuoi addossandole al soccombente, vuoi - ricorrendone i presupposti - compensandole da ultimo, ma ex multis, Sez. 6-L, Ordinanza n. 26849 del 21/10/2019, Rv. 655550-01 Sez. 6-2, Sentenza n. 17739 del 07/09/2016, Rv. 640893-01 Sez. 6-2, Sentenza n. 9813 del 13/05/2015, Rv. 635404-01 . Infatti, per quanto detto, da un lato la regolazione tra le parti delle spese di consulenza prescinde dalle disposizioni eventualmente dettate nel decreto di liquidazione pronunciato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 168 Sez. 3, Sentenza n. 12110 del 19/08/2003, Rv. 565941-01, la quale peraltro ragiona in termini di revoca implicita del decreto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 168, da parte della sentenza conclusiva del giudizio e dall'altro lato è sempre consentito al giudice compensare le spese anche solo in parte. Pertanto il silenzio serbato dalla sentenza circa la sorte delle spese di c.t.u. non può mai ritenersi un silenzio concludente, perchè esso non consente di stabilire se il giudice abbia inteso regolare le spese di c.t.u. richiamando il principio stabilito nel decreto ex art. 168 D.P.R. cit., oppure abbia inteso compensarle, od ancora abbia inteso addossarle ad una delle parti. 6.6. Deve pertanto, alla luce dei rilievi che precedono, ritenersi abbandonato il vecchio orientamento sorto in epoca anteriore all'introduzione del muovo testo unico sulle spese di giustizia secondo cui disposta la compensazione, per giusti motivi, delle spese giudiziali, ove il giudice, con pregresso provvisorio decreto di liquidazione, abbia posto le spese di consulenza tecnica d'ufficio a carico della parte poi risultata soccombente, la statuizione di compensazione comporta che quest'ultima parte non possa ripetere dalla parte vittoriosa, neppure per la metà, le somme anticipate per il pagamento del compenso al consulente, le quali restano pertanto a totale carico della parte che le ha anticipate Sez. 3, Sentenza n. 5976 del 23/04/2001, Rv. 546260-01 . Tale orientamento in verità non può oggi più condividersi quale che ne fosse la condivisibilità all'epoca in cui sorse , dal momento che prescinde dalla totale autonomia ed indipendenza tra il decreto di liquidazione delle spese al c.t.u., che è un provvedimento destinato ad incidere nei rapporti tra queste e l'ausiliario e la regolazione delle spese contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio, che invece è destinata ad incidere nei reciproci rapporti tra le parti, ed alla quale resta del tutto estraneo il c.t.u 6.7. Per le medesime ragioni non ritiene questo Collegio possibile dare continuità all'opposto principio affermato da Sez. 3, Sentenza n. 1023 del 17/01/2013, Rv. 624919-01 e ribadito in seguito da Sez. 3, Sentenza n. 25817 del 31/10/2017, Rv. 646459-01 , secondo cui se nella statuizione sulle spese di lite non venga indicata la parte sulla quale graveranno definitivamente quelle relative alla consulenza tecnica d'ufficio non si configura il vizio di omessa pronuncia poichè la decisione sulle spese del giudizio ricomprende implicitamente quelle di consulenza . Tale diverso orientamento, infatti, non si fonda su alcun'altra motivazione che la seguente che la compensazione delle spese di c.t.u. non implica condanna, ma solo esclusione del rimborso . Motivazione alla quale il Collegio non ritiene di potere aderire sia per il suo contenuto oggettivamente tautologico sia perchè l'esclusione del rimborso delle spese sostenute in nulla si distingue dalla condanna a rifondere all'altra parte le spese che, anticipate da essa, si è potuto in tal modo evitare di sostenere. 6.8. Alla luce delle osservazioni che precedono, le evenienze che possono verificarsi all'esito del giudizio non possono che essere due che le spese di c.t.u. siano state anticipate, prima della fine del giudizio, dalla parte che poi risulterà soccombente oppure che siano state anticipate dalla parte che poi risulterà vittoriosa. 6.8.1. Se le spese di c.t.u. sono state anticipate, prima della fine del giudizio, dalla parte che poi risulterà soccombente, possono darsi due ipotesi a se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante applicherà la regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c., dovrà disporre che le spese di c.t.u. restino definitivamente a carico della parte che le ha sostenute b se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compenserà le spese ex art. 92 c.p.c., dovrà dettare analoga previsione per le spese di c.t.u. in tal caso la parte che le ha anticipate per intero avrà diritto di regresso, nella misura del 50%, nei confronti dell'altra c se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compensi le spese ex art. 92 c.p.c., ma addossi al soccombente quelle di c.t.u., tale provvedimento va qualificato come una compensazione parziale delle spese, ovviamente sempre possibile Sez. 3, Ordinanza n. 22868 del 13/09/2019, Rv. 655093-01 . 6.8.2. Se, invece, le spese di c.t.u. sono state anticipate, prima della fine del giudizio, dalla parte che poi risulterà vittoriosa, possono darsi le seguenti ipotesi c se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante applicherà la regola della soccombenza ex art. 91 c.p.c., dovrà espressamente condannare la parte soccombente alla rifusione delle spese di c.t.u. in favore della controparte d se, con la sentenza che definisce il giudizio, il giudicante compenserà le spese ex art. 92 c.p.c., dovrà condannare la parte soccombente alla rifusione in favore della parte vittoriosa del 50% delle spese di consulenza da quest'ultima anticipate. 7. Si sono ora esposti tutti gli elementi per spiegare per quali ragioni la sentenza impugnata presenti effettivamente un vizio di omessa pronuncia, nè possa ammettersi che contenga una decisione implicita in merito alle spese di c.t.u 7.1. Deve, infatti, in primo luogo escludersi che la Corte d'appello abbia tacitamente ritenuto che fosse sufficiente a regolare le spese di lite il decreto di liquidazione pronunciato dal Tribunale su istanza dell'ausiliario. Infatti, anche a prescindere dal silenzio serbato sul punto dalla sentenza d'appello, si è già detto che il decreto col quale il giudice, su istanza dell'ausiliario, liquida le spese di consulenza ponendole a carico d'una o d'ambo le parti in solido è un provvedimento che rileva unicamente nei rapporti tra le parti e il c.t.u Nei rapporti tra le parti, invece, il riparto delle spese di consulenza non può che essere regolato da una statuizione espressa e contenuta nella sentenza conclusiva del giudizio. Statuizione che necessariamente è destinata a travolgere, se non coincidenti con essa, le disposizioni sul riparto delle spese di consulenza contenute nel decreto di liquidazione. 7.2. Deve parimenti escludersi che la sentenza d'appello, condannando gli appellati soccombenti alla rifusione delle spese di lite in favore della controparte e tacendo sulle spese di consulenza, abbia in tal modo implicitamente manifestato la volontà di addossare ai soccombenti anche le spese di c.t.u La regolazione delle spese, ivi comprese quelle di c.t.u., deve infatti essere esplicita od almeno inequivoca. Ma il mero silenzio serbato dal giudice di merito sulla regolazione delle spese di consulenza non può, per definizione, mai ritenersi inequivoco. 7.3. Deve, infine, escludersi che la sentenza impugnata abbia inteso, col proprio silenzio, addossare le spese di consulenza definitivamente alla parte che le aveva anticipate, cioè la cooperativa. Osta a tale conclusione l'universale principio ermeneutico, valido anche per l'interpretazione degli atti giudiziari, secondo cui tra più interpretazione tutte teoricamente plausibili, va scartata quella che renderebbe invalido l'atto da interpretare e poichè, per quanto detto, addossare alla parte vittoriosa le pese di c.t.u. costituirebbe una violazione dell'art. 91 c.p.c., tale interpretazione non potrebbe ammettersi. 7.4. Deve, in conclusione, rilevarsi che la sentenza impugnata ha omesso di provvedere sulla regolazione delle spese di consulenza, regolazione che spetterà ora al giudice del rinvio compiere, e che dovrà essere effettuata in applicazione del seguente principio di diritto è affetta dal vizio di omessa pronuncia la sentenza d'appello che, accogliendo il gravame e accollando le spese di lite alla parte soccombente, taccia sulla sorte delle spese della consulenza tecnica d'ufficio eseguita nel primo grado di giudizio, a nulla rilevando che tali spese abbiano già formato oggetto di liquidazione con decreto motivato, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 168 . 8. Il terzo motivo del ricorso incidentale. 8.1. Col terzo motivo la ricorrente incidentale lamenta, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione delle norme vigenti ratione temporis, e disciplinanti la liquidazione dei compensi professionali spettanti ai difensori per l'attività giudiziale. Deduce che la Corte d'appello avrebbe liquidato le spese di lite, sia del primo che del secondo grado di giudizio, in misura inferiore ai minimi tabellari. 8.2. Nella parte in cui lamenta l'illegittima liquidazione delle spese del primo grado di giudizio il motivo è inammissibile. All'epoca della sentenza di primo grado 29.9.2011 , infatti, la liquidazione dei compensi sarebbe dovuta avvenire in base al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, vale a dire col sistema di diritti ed onorari. Questa Corte ha infatti già stabilito che i nuovi parametri di liquidazione delle spese processuali, in base ai quali vanno commisurati i compensi forensi ai sensi del D.M. n. 140 del 2012, art. 41, in luogo delle abrogate tariffe professionali, si applicano in tutti i casi in cui la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del citato decreto purchè, a tale data, l'attività difensiva non sia ancora completata invece, essi non operano, quando la liquidazione venga effettuata dopo l'esaurimento dell'attività difensiva, come nel caso della liquidazione delle spese relative ad un grado o fase precedente da parte del giudice della impugnazione o del rinvio Sez. 6-3, Ordinanza n. 17577 del 04/07/2018, Rv. 649689-01 così pure Sez. U., Sentenza n. 17405 del 12/10/2012 . Tuttavia la società ricorrente nel proprio ricorso incidentale ha omesso di indicare, come era suo onere a pena di inammissibilità, quali onorari e quali diritti sarebbero stati sottostimati o trascurati dalla Corte d'appello. Questa Corte, a tal riguardo, ha ripetutamente affermato che la parte, la quale intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l'onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima così, ex multis, Sez. 6-2, Ordinanza n. 30716 del 21/12/2017, Rv. 647175-01 . 8.2. Con riferimento alla liquidazione delle spese del grado di appello il motivo resta assorbito dall'accoglimento dei primi due motivi del ricorso incidentale. 9. Le spese. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio. P.Q.M. la Corte di Cassazione - rigetta il ricorso principale - accoglie il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale dichiara in parte inammissibile, ed in parte assorbito il terzo motivo del ricorso incidentale cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.