Costretto in patria a lavorare da piccolo e ad abbandonare la scuola: protezione possibile

Riprende vigore la richiesta presentata da un cittadino del Pakistan. Decisivi i dettagli del racconto da lui fatto e relativo allo sfruttamento subito non solo da lui ma anche dal padre.

Padre sfruttato dai datori di lavoro e a rimetterci è anche il figlio che, sin da piccolo, è costretto a lavorare nei campi col genitore e ad abbandonare la scuola. Legittima, di conseguenza, la richiesta di protezione del ragazzino, divenuto ormai un uomo Cassazione, ordinanza n. 6879/20, sez. I Civile, depositata l’11 marzo . Persecuzione. Protagonista della vicenda è un cittadino del Pakistan, rifugiatosi in Italia per scappare, ha spiegato, dagli uomini che hanno perseguitato il padre e hanno costretto lui a lavorare sin da piccolo. Il racconto non è però sufficiente, sia secondo la Commissione territoriale che secondo i giudici del Tribunale, per riconoscere allo straniero lo status di rifugiato. Ciò perché egli ha dichiarato di essere fuggito dal Paese di origine per ragioni di ordine economico. Visione diversa, però, quella dei giudici della Cassazione, che ridanno speranza al cittadino pakistano. In particolare i magistrati si soffermano sulle parole dello straniero, ponendo in evidenza il fatto che lui ha dichiarato di essere fuggito dal Paese di origine poiché il padre era stato sfruttato dai propri datori di lavoro e lui stesso era stato costretto sin da piccolo a lavorare per i proprietari del terreno ove lavorava il padre e ad abbandonare la scuola. Da aggiungere poi che lo straniero ha anche precisato di avere timore, in caso di rimpatrio, di essere rintracciato dalle stesse persone e di essere costretto a lavorare per tutta la vita per ripagare un debito, contratto dal padre a causa sua . Ebbene, secondo i Giudici ci si trova di fronte a una storia concernente la riduzione in schiavitù, essendo stato lo straniero privato del diritto allo studio e costretto a lavorare sin dalla giovane età, e ciò significa che è plausibile il riconoscimento della misura della protezione internazionale. Evidenti gli errori compiuti in Tribunale, laddove, osservano dalla Cassazione, non è stata valutata adeguatamente la situazione individuale e le circostanze personali dello straniero e non si è considerato che l’avere già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzione o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore di subire ulteriori persecuzioni in caso di ritorno in patria. E a questo proposito i giudici del ‘Palazzaccio’ tengono anche a sottolineare che la persecuzione rilevante per il riconoscimento dello status di rifugiato può derivare, come in questo caso, anche da soggetti non statuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 24 ottobre 2019 – 11 marzo 2020, n. 6879 Presidente Cristiano – Relatore Pacilli Fatti di causa 1. Con decreto del 25 luglio 2018, il Tribunale di Lecce ha respinto la domanda proposta da AK. WA., nativo del omissis , volta al riconoscimento della protezione internazionale o di quella umanitaria. In sintesi, secondo il Tribunale non erano riconoscibili lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria, nella carenza dei requisiti di legge, dato che il richiedente aveva dichiarato di essere fuggito per ragioni di ordine economico e dalle fonti consultate emergeva che nel luogo di origine del ricorrente non vi è una situazione tale da creare una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dall'art. 14 del D.Lgs. n. 251 del 2007. Il Tribunale, inoltre, non ha riconosciuto la protezione umanitaria, avendo rilevato l'assenza di integrazione del richiedente e di condizioni di vulnerabilità particolari. 2. Avverso il descritto decreto il richiedente ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi. Il Ministero dell'Interno ha depositato una nota in cui ha dichiarato di essersi costituito oltre i termini di legge, al fine dell'eventuale partecipazione all'udienza di discussione della causa. Ragioni della decisione 1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente I Violazione dell'art. 32, comma 1, D.Lgs. 25/2008, art. 3 lett. a, c, d, art. 6, comma 2, art. 7 lett. a e b D.Lgs. 251/2007 in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., per avere il Tribunale errato nell'applicare le norme suindicate, avendo omesso di considerare le reali condizioni del richiedente e, in particolare, la condizione sociale del medesimo e l'appartenenza ad un gruppo debole e non tutelato dall'ordinamento statuale II Violazione dell'art. 32, comma 1, D.Lgs. 25/2008, violazione e falsa applicazione dell'art. 14 D.Lgs. 251/2007 in relazione all'art. 360, nn. 4 e 5, cod. proc. civ., per avere il Tribunale trascurato di considerare che il quadro descritto dal richiedente ricalcherebbe profili di fumus persecutionis, attuale e grave, e per avere errato nel valutare il preoccupante contesto di provenienza del ricorrente III Violazione dell'art. 32 D.Lgs. n. 25 del 2008 e 5, comma 6, D.Lgs. 286/98 in relazione all'art. 360, nn. 4 e 5, c.p.c. - mancata valutazione delle reali condizioni di vita esistenti in Punjab e dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari in relazione all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. 2. Il primo motivo è fondato. Il Tribunale pugliese, dopo aver delineato il quadro legislativo regolante il riconoscimento dello status di rifugiato, correttamente richiamando, in proposito, gli artt. 10 Cost., 2, lett. e ed f , ed 11 del D.Lgs. n. 251 del 2007 attuativo della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata con legge n. 722/54 e le direttive comunitarie in materia tra cui quella n. 2004/83 , ed aver specificamente indicato quali sono, alla stregua dell'art. 5 del citato decreto, i soggetti da cui dovrebbero provenire le persecuzioni di cui al menzionato art. 2 lo Stato, i partiti politici o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, nonché soggetti non statuali ove quelli appena indicati, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, adottando adeguate misure per impedire atti persecutori , ha osservato che i fatti narrati dal richiedente non attengono a persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale e pertanto - anche qualora veritieri – non integrerebbero gli estremi per il riconoscimento dello status suddetto. Tale assunto è errato e trascura di considerare l'esatta portata delle dichiarazioni del richiedente. Difatti, il richiedente ha dichiarato di essere fuggito dal Paese di origine poiché il padre era stato sfruttato dai propri datori di lavoro ed egli era stato costretto sin da piccolo a lavorare per i proprietari del terreno, ove lavorava il padre, abbandonando la scuola. Ha aggiunto che aveva timore, in caso di rimpatrio, di essere rintracciato dalle stesse persone e di essere costretto a lavorare per tutta la vita per ripagare un debito, contratto dal padre a causa sua. E' evidente, quindi, che le dichiarazioni del ricorrente danno sufficientemente conto dell'astratta inquadrabilità della situazione del richiedente in quella che consente il riconoscimento della misura della protezione internazionale richiesta. Il richiedente ha infatti narrato una storia concernente la riduzione in schiavitù, essendo stato privato del diritto allo studio e costretto sin da giovane età a lavorare nel terreno, dove lavorava il padre. Il tribunale ha quindi violato l'art. 3, comma 3 lett. c, D.Lgs. 251/2007, atteso che non ha valutato adeguatamente la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente, in particolare, la condizione sociale, il sesso e l'età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave . Ha altresì disatteso l'art. 3, comma 4, D.Lgs. 251/2007, considerato che il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzione o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi. Peraltro, giova ricordare che la persecuzione, rilevante per il riconoscimento dello status di rifugiato, può derivare anche da soggetti non statuali, ai sensi dell'art. 5, lett. c del decreto citato, con il conseguente onere del giudice di verificare in concreto se, in presenza di minaccia di danno grave ad opera di un soggetto non statuale , lo Stato di origine sia in grado di offrire alla persona minacciata adeguata protezione Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 12333 del 17/05/2017, Rv. 644272 . S'impone pertanto l'accoglimento del ricorso, in riferimento al primo motivo, assorbiti il secondo e il terzo, con la cassazione del decreto impugnato e il rinvio della causa al Tribunale di Lecce, che, nel decidere nuovamente la stessa, si atterrà ai principi di diritto innanzi enunciati. P.Q.M. La Corte, accoglie il primo motivo, assorbiti i restanti cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese, al tribunale di Lecce in diversa composizione.