Il possesso di un appartamento per mera tolleranza del proprietario non porta all’usucapione

La Suprema Corte ha ripercorso i consolidati principi giurisprudenziali in tema di onere della prova del possesso ai fini dell’usucapione, ricordando che, oltre al riscontro di un comportamento continuo ed ininterrotto, l’attore deve dimostrare la c.d. interversio possessionis che consente di mutare il titolo originario del rapporto con la cosa.

Sul tema l’ordinanza n. 20508/19, depositata il 30 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello di Roma confermava la decisione di prime cure di rigetto della domanda di accertamento di usucapione avanzata dall’attore nei confronti delle due sorelle ed avente ad oggetto l’acquisto di un appartamento. I Giudici di merito ritenevano infatti insussistente la prova del possesso in capo all’attore che aveva la disponibilità dell’immobile a titolo di comodato concesso dalla sorella o al più per tolleranza della stessa. Il soccombente ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione. Prova del possesso ai fini dell’usucapione. Il Collegio ricorda che è onere di chi invoca l’intervenuta usucapione dimostrare di aver esercitato sul bene un potere di fatto che si è estrinsecato in attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà. Egli deve infatti provare non solo di essere nella disponibilità del bene, ma anche l’animus possidenti per il tempo necessario per usucapire. Per il perfezionamento dell’usucapione è infatti necessaria la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene Cass. Civ. n. 23849/18 . Riprendendo le parole della Corte, si può affermare che in tema di presunzione di possesso utile ad usucapionem , l’art. 1141, comma 1, c.c. opera se e in quanto non si tratti di rapporto obbligatorio e presuppone, quindi, la mancanza di prova che il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente come detenzione, in conseguenza non di un atto volontario di apprensione, ma di un atto o un fatto del proprietario possessore Cass. Civ. n. 7271/03 . Infatti, oltre al riscontro di un comportamento continuo ed ininterrotto l’attore deve dimostrare la c.d. interversio possessionis , che consente di mutare il titolo originario del rapporto con la cosa ai sensi del comma 2 dell’art. 1141 c.c Nel caso di specie, tale onere probatorio non è stato soddisfatto dal ricorrente avendo correttamente la Corte territoriale escluso che la mera gestione del bene integrasse un atto di interversione del possesso vista la tolleranza concessa dalla sorella in virtù dei rapporti di familiarità tra le parti. Per questi motivi, il ricorso viene rigettato e il ricorrente condannato alle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 8 febbraio – 30 luglio 2019, n. 20508 Presidente Gorjan – Relatore Giannaccari Fatti di causa 1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza ex art. 281 sexies c.p.c., dell’8.7.2014, confermava la sentenza del Tribunale di Roma n. 2729/2012, che aveva rigettato la domanda di usucapione di T.F.P. nei confronti delle sorelle T.R. e A.M. , avente ad oggetto l’acquisto per usucapione dell’appartamento sito in omissis . 1.1 La corte territoriale, muovendo da presupposto che il proprietario possa possedere solo animo o per mezzo di detentori, quali il comodatario, riteneva che il T. non avesse fornito la prova del possesso e che egli avesse la disponibilità dell’immobile a titolo di comodato, concesso dalla sorella T.A.M. o per tolleranza della medesima. 2. Per la cassazione della sentenza, ha proposto ricorso T.F.P. sulla base di cinque motivi. 2.1 Ha resistito con controricorso T.R. , in proprio e quale erede di T.A.M. . 2.2 In prossimità dell’udienza, le parti hanno depositato memorie difensive. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1141 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte territoriale posto a carico del T. , che aveva il possesso attuale del bene ed avrebbe potuto giovarsi della presunzione ex art. 1142 c.c., l’onere di dimostrare il disinteresse della proprietaria T.A.M. . 2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1144 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte territoriale erroneamente presunto la sussistenza di atti tolleranza in ragione del rapporto di parentale con la convenuta, mentre tale presunzione non troverebbe fondamento in nessuna disposizione di legge. 3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1144, 2727 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la corte territoriale avrebbe presunto la tolleranza della proprietaria dell’appartamento in ragione del suo status di religiosa, incorrendo nella violazione dell’onere della prova non sussisterebbero, inoltre, presunzioni gravi, precise e concordanti in relazione alla tolleranza, in quanto la vita in comunità non avrebbe impedito alla sorella di curare i propri interessi. 4. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto la motivazione sarebbe priva della quaestio facti, oltre ad essere insufficiente e contraddittoria. 5. Con il quinto motivo di ricorso, si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la corte territoriale avrebbe omesso di considerare il periodo in cui il possesso dell’appartamento sarebbe stato esercitato dai genitori delle parti in causa e trasferito agli eredi T.F.P. e T.R. e non alla convenuta, perché figlia di T.E. ma non della seconda moglie A.P. . Osserva il ricorrente che, nella denuncia di successione, T.A.M. non figurava come comproprietaria, con ciò dimostrando disinteresse nei confronti del bene. 6. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati. 6.1. È onere di chi chiede accertarsi l’intervenuta usucapione dimostrare di aver esercitato sul bene un potere di fatto che si è estrinsecato in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà. Lo stesso deve, infatti, provare non solo il corpus - dimostrando di essere nella disponibilità del bene ma anche l’animus possidendi per il tempo necessario ad usucapire. Ai fini dell’usucapione è, infatti, necessaria la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene Cassazione civile sez. II, 02/10/2018, n. 23849 . Quando è dimostrato il potere di fatto, pubblico e indisturbato, esercitato sulla cosa per il tempo necessario ad usucapirla, ne deriva, a norma dell’art. 1141 c.c., comma 1, la presunzione che esso integri il possesso di conseguenza, incombe alla parte, che invece correla detto potere alla detenzione, provare il suo assunto vale a dire, che la disponibilità del bene è stata conseguita dall’attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale - cfr. Sez. 2, Sentenza n. 14092 del 11/06/2010 ovvero per tolleranza del titolare del diritto - cfr. Sez. 2, Sentenza n. 7817 del 04/04/2006 - , in mancanza dovendosi ritenere l’esistenza della prova della possessio ad usucapionem cfr., di recente, Sez. 2, Sentenza n. 26984 del 02/12/2013 . In definitiva, in tema di presunzione di possesso utile ad usucapionem, l’art. 1141 c.c., comma 1, opera se e in quanto non si tratti di rapporto obbligatorio e presuppone, quindi, la mancanza di prova che il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente come detenzione, in conseguenza non di un atto volontario di apprensione, ma di un atto o un fatto del proprietario possessore Sez. 2, Sentenza n. 7271 del 12/05/2003 . Ai fini della sussistenza del possesso utile per usucapire, oltre al riscontro di un comportamento continuo e non interrotto incombe sull’attore la dimostrazione della cosiddetta interversio possessionis, che gli avrebbe consentito di mutare il titolo originario di questo rapporto con la cosa, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2. Inoltre, in materia di usucapione, nell’indagine diretta a stabilire se una attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza ex art. 1144 c.c., e sia, perciò, inidonea all’acquisto mediante possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo della esclusione di detta situazione di tolleranza e della sussistenza di un vero e proprio possesso. Tale presunzione, tuttavia, è inoperante quando la tolleranza si colleghi a un rapporto di parentela tra i soggetti interessati, giacché lo stretto legame familiare consente al dominus di esimersi dalla necessità di rivendicare periodicamente la piena titolarità della res nei confronti del parente beneficiario del godimento del bene. Il protrarsi nel tempo di un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale, può, dunque, integrare un elemento presuntivo di esclusione della tolleranza solo nei rapporti labili e mutevoli, ma non nei casi di vincoli di stretta parentela, nei quali è plausibile il mantenimento di un atteggiamento tollerante anche per un lungo arco di tempo. 6.2 Ciò debitamente premesso, la corte territoriale, ha correttamente posto a carico di T.F.P. l’onere della provata di aver esercitato un potere di fatto sull’immobile corrispondente a quello del proprietario, che può possedere anche solo animo. Con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, il giudice d’appello ha reputato che sussistessero elementi fattuali idonei a dimostrare che la relazione del T. con il bene scaturisse da un rapporto di comodato con la sorella o da mera tolleranza, derivanti dal rapporto di familiarità. In considerazione dei doveri connessi allo stato di religiosa e, in particolare, a quello di vivere in comunità con le sue consorelle, ha ritenuto che la medesima avesse consentito il godimento dei beni ai suoi familiari a titolo gratuito, in virtù di contratto di comodato, o per mera tolleranza. Correttamente la corte ha escluso che la mera gestione del bene integrasse un atto di interversione del possesso nei confronti della proprietaria, idoneo al mutamento del titolo, ed ha ritenuto sussistente la tolleranza, in considerazione dei rapporti di familiarità. Conseguentemente, il giudice di appello, facendo applicazione dei principi di diritto in materia di possesso e della prova presuntiva, ha escluso il possesso ad usucapionem del ricorrente considerando un ulteriore elemento fattuale, consistente nella sussistenza del corpus possidendi da parte della proprietaria, nei periodi in cui si allontanava dalla sua congregazione ed occupava l’alloggio. Non sussiste il vizio di mancanza della motivazione , ai sensi dell’art. 132, n. 4, in quanto la sentenza, emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., espone in forma sintetica le ragioni di fatto e di diritto che sorreggono la decisione. Parimenti, non ricorre il vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo introdotto dalla L. n. 134 del 2012, denunciabile solo ove l’anomalia motivazionale si traduca in omessa motivazione, ovvero in violazione di legge e non anche nell’ipotesi di insufficiente e contraddittoria motivazione Cass. SU 8053-8054/14 . Nella specie, la circostanza che dal 1961 l’appartamento fosse nel possesso dei genitori delle parti sin dal 1961 e che nel 1981 sia maturata l’usucapione in favore degli eredi non è decisiva perché anche la convenuta T.A.M. era erede di T.E. , e, conseguentemente, anche in suo favore si era trasferito il possesso, a nulla rilevando la circostanza che fosse figlia di primo letto e che non avesse presentato denuncia di successione, in qualità di comproprietaria Cassazione civile sez. II, 28/02/2019, n. 6029 . 7. Il ricorso va, pertanto, rigettato. 7.1 Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. 7.2 Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di lite che liquida in Euro5.500,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15%, iva e cap come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.