Arricchimento senza causa: errato far riferimento al mancato guadagno

L'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dalla parte nell'erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che la stessa avrebbe potuto trarre dall'instaurazione di una valida relazione contrattuale.

La Terza Sezione della Cassazione civile sentenza n. 13967/19, depositata il 23 maggio si è occupata di un tema specifico la corretta quantificazione della indennità dovuta in caso di arricchimento senza causa. Il caso. Una società s.r.l. conveniva in giudizio l’ex amministratore chiedendo la restituzione di una ingente somma di denaro che la società allegava di aver indebitamente corrisposto a favore della impresa individuale il cui titolare era il medesimo predetto amministratore a titolo di provvigioni in realtà prive di qualsivoglia titolo giustificativo. Il convenuto si difendeva sostenendo che al contrario tali importi erano il corrispettivo di una serie di servizi effettivamente eseguiti a favore della società tra cui, la fruizione da parte della società, inizialmente di fatto”, poi regolarizzata, di due appartamenti di sua proprietà , facendo peraltro valere in via subordinata, in via di eccezione riconvenzionale, il proprio controcredito indennitario per ingiustificato arricchimento della società stessa. Quanto al godimento degli appartamenti, come accennato, solo successivamente le parti formalizzarono tale aspetto, attraverso la stipula di uno specifico contratto di locazione con, quindi, previsione di uno specifico canone mensile. Il Tribunale accoglieva la domanda. La riforma parziale in appello. La decisione di prime cure veniva però parzialmente riformata in appello con riconoscimento a favore dell’appellante di un controcredito indennitario, per ingiustificato arricchimento, ma solo in relazione alla incontestata messa a disposizione della società nel periodo in questione dei due menzionati appartamenti per un importo peraltro decisamente inferiore rispetto a quanto riconosciuto a favore della società . In particolare, per quanto riguarda la determinazione dell’importo riconosciuto a titolo di arricchimento senza causa – aspetto che, come si vedrà tra poco, sarà oggetto di riforma da parte della Suprema Corte – la Corte d’appello aveva fatto riferimento, quale canone mensile, al canone previsto nel contratto di locazione stipulato però solo in un secondo momento tra le parti. Seguiva il ricorso per cassazione proposto dallo stesso ex amministratore veniva proposto anche ricorso incidentale. L’azione di arricchimento senza causa è residuale conseguenze. Gli Ermellini rispondono anzitutto ad un quesito classico, inerente i presupposti per il corretto esercizio dell’azione di arricchimento senza causa. Ebbene, secondo costante giurisprudenza, qualora il giudice di merito accerti che tra una società di capitali ed il suo amministratore è intercorso soltanto il rapporto di natura organica derivante dal mandato ad amministrare - al quale sono, pertanto, riconducibili le prestazioni dell'amministratore - quest'ultimo può esercitare una specifica azione giudiziaria al fine di ottenere la determinazione del compenso o anche solo il suo adeguamento ove ritenga insufficiente quello corrisposto, avuto riguardo alla crescente entità ed importanza dell'opera prestata e non può, di conseguenza, proporre, ostandovi il disposto dell'art. 2042 c.c., l'azione generale di arricchimento indebito - di natura sussidiaria - di cui all'art. 2041 c.c., per chiedere, in vece o in aggiunta al suddetto compenso, un indennizzo proporzionato all'impegno profuso. Il criterio della sussidiarietà dell’azione di arricchimento senza causa. Secondo pacifico insegnamento, il requisito di sussidiarietà evocato dalla rubrica dell'art. 2041 c.c. non predica che detta azione possa essere esperita in alternativa subordinata a quella contrattuale per eluderne gli esiti sfavorevoli, ogni qual volta, cioè, quest'ultima, sebbene astrattamente configurabile, non consenta in concreto, per ragioni di fatto o di diritto, il recupero dell'utilità trasferita da una parte all'altra ma al contrario sta a significare soltanto che tra soggetti fra loro terzi, per l'inesistenza o la nullità di un rapporto contrattuale, gli spostamenti patrimoniali non sorretti da giusta causa devono essere retrattati nei limiti del minor valore tra arricchimento a danno Il ricorso incidentale l’eccezione di giudicato esterno. Era stata disattesa l’eccezione di giudicato esterno proposta dalla società in ragione di un precedente giudizio tra le parti. Motivo di ricorso che gli Ermellini respingono anzitutto per ragioni di rito. Infatti, la parte che eccepisce il giudicato esterno ha l'onere di provare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio, non soltanto producendola, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere che la mancata contestazione di controparte sull'affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, né che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità. Onere che nel caso di specie non era stato assolto. Poco male, tuttavia, perché la Cassazione si sofferma anche se non necessario a dimostrare che il motivo era comunque infondato. La corretta valutazione da parte della Corte d’appello della sussistenza dell’azione di arricchimento senza causa. La Corte d'appello ha, secondo gli Ermellini, motivatamente escluso il carattere gratuito della concessione in godimento degli immobili, sulla base di un ragionamento presuntivo idoneo a sorreggere il relativo convincimento e in sé non fatto segno di specifica critica in ricorso. Altrettanto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che, in mancanza di un valido contratto che desse diritto a un corrispettivo su base sinallagmatica, detta concessione in godimento potesse riguardarsi, dal lato del proprietario, quale potenziale motivo di depauperamento legittimandolo all'azione di ingiustificato arricchimento. L’errata quantificazione dell’indennità dovuta fatta coincidere con il mancato guadagno. La Corte d'appello aveva quindi giudicato quasi tutto correttamente, incorrendo però in errore là dove aveva ritenuto di poter commisurare il relativo indennizzo in misura corrispondente al canone locativo convenuto tra le parti nella successiva stipula del contratto di locazione, con ciò del tutto obliterando i presupposti e i criteri che presiedono al relativo riconoscimento nell'an e nel quantum. Infatti, l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dalla parte nell'erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che la stessa avrebbe potuto trarre dall'instaurazione di una valida relazione contrattuale. Andava preso a parametro il criterio oggettivo dell’utilità conseguita. La Corte di merito avrebbe pertanto dovuto provvedere solo in esito ad una valutazione oggettiva dell'utilità conseguita, entro i limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido. A tal fine avrebbe dovuto valutare l'esistenza di un effettivo pregiudizio in capo al proprietario degli immobili discendente dal non averli potuto altrimenti sfruttare a proprio vantaggio o da altre situazioni pregiudizievoli, potendo al riguardo bensì avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari da allegare e provare da parte del preteso depauperato diversi dalla mera mancata disponibilità o godimento del bene, che possano sorreggere il convincimento sia dell'esistenza di pregiudizio, sia del suo collegamento con l'altrui arricchimento. La decisione è stata così cassata con rinvio.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 27 febbraio – 23 maggio 2019, n. 13967 Presidente Armano – Relatore Iannello Fatti di causa 1. La Finterni Due S.r.l. in liquidazione conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Terni G.G. chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 835.859,55 che deduceva di aver indebitamente pagato, dal 1996 al 2003, allorquando era amministrata dal convenuto, a fronte di fatture emesse dallo stesso, quale titolare dell’impresa individuale Finterni di G.G. , a titolo di provvigioni in realtà prive di alcun titolo giustificativo. Costituendosi in giudizio il G. contestava la fondatezza della domanda, assumendo che - le somme riscosse costituivano in realtà il corrispettivo di un pacchetto di servizi quali la fruizione dei due appartamenti di sua proprietà, completamente arredati e attrezzati, con le relative utenze la possibilità di avvalersi delle prestazioni di due dipendenti la sua stessa attività di amministratore - per finalità di carattere fiscale tra lui e l’altro socio l’attuale liquidatore della società si era convenuto che il compenso loro spettante come amministratori fosse fittiziamente imputato ad attività di procacciamento d’affari, in realtà mai svolta - solo dal gennaio 2003 la fruizione di quei servizi fu formalizzata attraverso la stipula di un contratto di locazione, verso il pagamento di un canone mensile di Euro 3.600, oltre Iva la previsione di un compenso agli amministratori di Euro 8.000 al mese. In subordine, in via di eccezione riconvenzionale, il convenuto opponeva in compensazione il proprio controcredito indennitario per l’ingiustificato arricchimento della società. Con sentenza del 22/12/2014 il tribunale accoglieva la domanda. 2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Perugia, in parziale accoglimento dell’appello interposto dal soccombente, ha riconosciuto allo stesso un controcredito indennitario, per ingiustificato arricchimento, solo in relazione alla incontestata messa a disposizione della società, nel periodo in questione, dei due appartamenti di sua proprietà, liquidandolo equitativamente in Euro 234.000 sulla base dell’importo di Euro 3.600 convenuto dalle parti, al netto dell’Iva, quale canone mensile per la locazione successivamente stipulata. 3. Avverso tale sentenza G.G. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, cui resiste la società intimata, depositando controricorso e proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato a due motivi. A quest’ultimo replica del ricorrente principale, depositando controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo del proprio ricorso G.G. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2389, 1414, 1315, 1655, 2555 e 2562 c.c. per avere la Corte d’appello escluso l’esistenza di una giustificazione contrattuale a base dei pagamenti eseguiti in suo favore dalla società. Lamenta che al riguardo la sentenza muove erroneamente dalla atomizzazione del credito complessivo cui erano riferiti i pagamenti, violando i canoni ermeneutici codificati che - in relazione alle circostanze di fatto date per non contestate nell’ordinanza con la quale, per tale motivo, in data 30/5/2016, la Corte d’appello aveva rigettato le iterate richieste di prova per testi dirette a dimostrarle -avrebbero dovuto condurre a riconoscerne il collegamento sinallagmatico con un accordo che prevedeva alla stregua di un contratto atipico la messa a disposizione della società di un pacchetto di servizi, costituenti un tutto unitario . In tale prospettiva deduce l’irrilevanza del richiamo in sentenza alla giurisprudenza che esclude che la sola approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori sia idonea a determinare l’insorgenza del relativo diritto in mancanza di una espressa delibera. 2. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2389, 2041 e 2042 c.c., in relazione al rigetto della reiterata eccezione riconvenzionale di compensazione nella parte in cui è riferita a preteso credito indennitario per ingiustificato arricchimento derivato dall’attività di amministratore rigetto giustificato in sentenza sul rilievo che per l’insorgenza di un diritto a tale titolo si richiede sempre, n.d.r. la presenza di una formale delibera assembleare non potendosi aggirare il divieto attraverso il ricorso all’arricchimento . Rileva che detta motivazione mostra di confondere la pretesa creditoria di natura negoziale con quella di natura extracontrattuale ed indennitaria, legata ai diversi presupposti dell’arricchimento da un lato e del corrispondente impoverimento dall’altro. 3. Con il terzo motivo il G. infine denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1414, 1615, 1655, 2555, 2562, 2041 e 2042 c.c., nonché della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 1, e dei principi in materia di negozi misti, per avere la Corte d’appello parimenti negato il diritto all’indennizzo per ingiustificato arricchimento con riferimento alla prestazione lavorativa resa in favore della società da personale da lui dipendente, ritenendovi ostare la valenza in ogni caso illecita di un accordo diretto all’utilizzo di personale, formalmente alle dipendenze di un terzo , integrante un’ipotesi, vietata, di intermediazione di manodopera. Sostiene di contro il ricorrente che il divieto posto dalla citata normativa impedisce che l’intermediario della prestazione possa esigere contrattualmente il corrispettivo, ma non viene in rilievo nell’ipotesi in cui, come nella specie, il credito venga dedotto sulla base dei diversi presupposti dell’ingiustificato arricchimento. Rileva inoltre, iterando argomentazioni esposte nel giudizio di appello ma non prese in esame dalla Corte di merito, che non può nella specie considerarsi realizzata un’ipotesi di intermediazione di manodopera dal momento che l’utilizzo da parte della Finterni Due S.r.l. dei dipendenti della ditta individuale di esso ricorrente era avvenuto nell’ambito dell’organizzazione e del coordinamento del lavoro propri di quest’ultimo, non disponendo invece la società di una propria autonoma organizzazione di cose e mezzi all’interno della quale si fosse inserita la prestazione lavorativa. 4. Il primo motivo del ricorso incidentale investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto, difformemente dal primo giudice, che l’eccezione riconvenzionale del convenuto/appellante non fosse preclusa dal giudicato esterno negativo legato all’esito di precedente giudizio intercorso tra le parti nel quale la Finterni aveva chiesto la condanna del G. alla restituzione della somma di Euro 159.454,57, riferita ad una ricognizione di debito effettuata dal G. e relativa a percezione di costi indebiti per l’anno 2002, e nel quale il G. aveva analogamente eccepito in compensazione crediti ritenuti fondati sulle medesime causali ciò sul rilievo che la presente controversia riguarda annualità diverse, con esclusione dell’anno 2002 cui si riferiva il precedente giudizio. La Finterni Due S.r.l. in liquidazione denuncia in proposito, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., affermando che, nel giungere a tale conclusione, la Corte d’appello avrebbe erroneamente applicato il principio giurisprudenziale richiamato a fondamento, ricavandosi bensì da esso che la preclusione del giudicato opera nel caso di giudizi identici, per identità di soggetti, causa petendi e petitum , ma anche che per tale valutazione occorre tener conto dell’effettiva portata della domanda giudiziale e della decisione, nei limiti dell’accertamento della questione di fatto e non anche in relazione alle conseguenze giuridiche . Rileva che, sotto tale profilo, più correttamente il primo giudice aveva evidenziato che le questioni relative alla durata del rapporto fatto valere o all’importo della somma richiesta, attengono ad elementi di fatto che non mutano l’identità di oggetto e di domanda . 5. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia, in subordine, violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2041, 2056 e 2697 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione al riconosciuto diritto, in capo a controparte, ad una somma a titolo di arricchimento per la messa a disposizione della società di due appartamenti di sua proprietà. Rileva che tale decisione deroga illegittimamente al requisito ad substantiam della forma scritta del contratto di locazione postula una onerosità del godimento degli immobili neanche eccepita da controparte nei propri atti opera infine una liquidazione equitativa in assenza dei relativi presupposti. Sotto quest’ultimo profilo lamenta, in particolare, che la liquidazione è stata operata senza un previo accertamento dell’effettiva esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile tale da costituire apprezzabile depauperamento per mancato utilizzo dell’immobile , nemmeno dedotto da controparte. 6. Benché il primo motivo del ricorso incidentale ponga questione di carattere preliminare sul piano logico, occorre comunque posporne l’esame a quello del ricorso principale atteso che l’eventuale giudizio di inammissibilità di quest’ultimo determinerebbe, ex art. 334 c.p.c., comma 2, la perdita di efficacia del ricorso incidentale, in quanto tardivo, essendo stato proposto dopo la scadenza del termine breve per impugnare decorrente dalla notifica della sentenza. 7. Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile, perché aspecifico. Con esso, invero, il ricorrente non denuncia un’erronea ricognizione, nel provvedimento impugnato, delle fattispecie astratte recate dalle norme di legge richiamate, ma piuttosto sembra lamentarne una falsa applicazione, assumendo in sostanza l’esistenza di fatti in sé incontroversi che sarebbero stati dalla Corte di merito erroneamente sussunti nella fattispecie normativa astratta. Occorre però rilevare che tale presupposto, ossia l’esistenza di fatti in sé incontroversi, e segnatamente di un accordo omnicomprensivo, non è affatto rilevabile dalla sentenza, la quale in realtà afferma il contrario v. § 3 della parte motiva, pagg. 9-10 . Tale passaggio motivazionale viene trascurato dal ricorrente che, con evidente salto logico, ricava invece erroneamente l’espressione di un convincimento diverso dal fatto che, con ordinanza istruttoria in corso di causa, la Corte d’appello avesse in precedenza rigettato le richieste di prova orale dedotte al fine di dar prova di detto accordo perché relative a circostanze in fatto riconosciute . La contraddizione tra tale ultima valutazione e il convincimento espresso in sentenza avrebbe però dovuto essere fatta valere semmai quale error in procedendo, per violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione alla mancata ammissione di dette richieste di prova oppure per avere la Corte erroneamente ritenuto controversi fatti che invece erano non contestati. Peraltro, pur prescindendo da tale assorbente rilievo, non è comunque spiegata la ragione per la quale la considerazione unitaria e complessiva delle varie prestazioni dovesse valere a mutarne la natura e a sottrarle alle norme inderogabili per esse dettate. 8. Il secondo motivo è infondato, ancorché per ragioni diverse da quelle indicate in sentenza, imponendosi sul punto soltanto una correzione della motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4. Le ragioni che non consentono di dare ingresso alla domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento in relazione alle prestazioni rese quale amministratore di società di capitali, ove il richiedente non possa ottenerne il compenso in mancanza di formale delibera assembleare, risiedono infatti nell’assenza del requisito di sussidiarietà dell’azione, ex art. 2042 c.c Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, qualora il giudice di merito accerti che tra una società di capitali ed il suo amministratore è intercorso soltanto il rapporto di natura organica derivante dal mandato ad amministrare - al quale sono, pertanto, riconducibili le prestazioni dell’amministratore - quest’ultimo può esercitare una specifica azione giudiziaria al fine di ottenere la determinazione del compenso o anche solo il suo adeguamento ove ritenga insufficiente quello corrisposto, avuto riguardo alla crescente entità ed importanza dell’opera prestata e non può, di conseguenza, proporre, ostandovi il disposto dell’art. 2042 c.c., l’azione generale di arricchimento indebito - di natura sussidiaria - di cui all’art. 2041 c.c., per chiedere, in vece o in aggiunta al suddetto compenso, un indennizzo proporzionato all’impegno profuso Cass. 03/04/1990, n. 2679 v. anche Cass. 16/04/2014, n. 8897 24/02/1997, n. 1647 19/03/1991, n. 2895 . 9. È altresì infondato il terzo motivo. Secondo pacifico insegnamento, invero, il requisito di sussidiarietà evocato dalla rubrica dell’art. 2041 c.c. non predica che detta azione possa essere esperita in alternativa subordinata a quella contrattuale per eluderne gli esiti sfavorevoli, ogni qual volta, cioè, quest’ultima, sebbene astrattamente configurabile, non consenta in concreto, per ragioni di fatto o di diritto, il recupero dell’utilità trasferita da una parte all’altra ma al contrario sta a significare soltanto che tra soggetti fra loro terzi, per l’inesistenza o la nullità di un rapporto contrattuale, gli spostamenti patrimoniali non sorretti da giusta causa devono essere retrattati nei limiti del minor valore tra arricchimento a danno v. Cass. 27/01/2012, n. 1216 30/06/2015, n. 13339 . Pertanto, tale azione, in ipotesi di intermediazione di manodopera, vietata L. 23 ottobre 1960, n. 1369, ex art. 1 applicabile alla fattispecie de qua, in base al principio generale tempus regit actum, in quanto ricadente temporalmente in epoca antecedente al 24/10/2003, data di entrata in vigore del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che ne ha disposto l’abrogazione v. Cass. 26/10/2018, n. 27213 12/10/2006, n. 21818 , non può essere riconosciuta in favore dell’interposto per recuperare dall’interponente spese che, ai sensi della citata norma, sono da considerare irripetibili. La decisione impugnata deve pertanto ritenersi pienamente corretta in diritto, in quanto conforme all’esposto principio. Nella restante parte la censura si risolve nella mera sollecitazione di una diversa ricognizione del fatto, estranea al vizio dedotto e comunque certamente inammissibile in questa sede. 10. Il ricorso principale va pertanto rigettato. Ricorrono quindi le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione a carico del ricorrente principale, del raddoppio del contributo unificato. 11. Non evidenziandosi ragioni che conducano ad una declaratoria di inammissibilità dello stesso, può e deve procedersi all’esame del ricorso incidentale tardivo. Il primo dei motivi con esso dedotti è inammissibile e, comunque, infondato. 11.1. Sotto il primo profilo occorre rammentare che, come affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte, con indirizzo cui si intende qui dare continuità, la parte che eccepisce il giudicato esterno ha l’onere di provare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio, non soltanto producendola, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, nè che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità Cass. 23/08/2018, n. 20974 09/03/2017 n. 6024 29/08/2013, n. 19883 08/05/2009, n. 10623 . Nella specie, dall’esame degli atti, tale onere non risulta assolto. 11.2. Può comunque ad abundantiam rilevarsi anche l’infondatezza del motivo. Nell’affrontare il tema occorre muovere dal principio di diritto secondo il quale qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo e tale principio non trova deroga in caso di situazioni giuridiche di durata, giacché anche in tal caso l’oggetto del giudicato è un unico rapporto e non gli effetti verificatisi nel corso del suo svolgimento . Si ricava da tale principio - al quale, nel contrasto tra opposti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, le Sezioni Unite di questa Corte hanno espressamente prestato adesione con la sentenza n. 13916 del 16/06/2006 - che la capacità espansiva del giudicato esterno richiede la sussistenza dei seguenti presupposti a che si tratti di due giudizi tra le stesse parti i quali abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico b che uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato c che sussista un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formante la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza definitiva, sicché ne risulti precluso il riesame nell’altra causa. Orbene quest’ultimo requisito può predicarsi solo in relazione a quelle statuizioni che siano relative a qualificazioni giuridiche o ad altri eventuali elementi preliminari rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo è da escludere invece che esso possa ravvisarsi allorquando la decisione trovi fondamento nella valutazione della prova Cass. 11/02/2011, n. 3434 o nell’accertamento di fatti che non abbiano caratteristiche di durata in quanto suscettibili di variare nel tempo. Per la stessa ragione è stato condivisibilmente affermato che l’efficacia preclusiva del giudicato esterno non può estendersi alla interpretazione giuridica della norma, ove intesa come mera argomentazione avulsa dalla decisione del caso concreto , poiché detta attività, compiuta dal giudice e consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituire un limite all’esegesi esercitata da altro giudice, nè è suscettibile di passare in giudicato autonomamente dalla domanda e dal capo di essa cui si riferisce, assolvendo una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione Cass. 21/10/2013, n. 23723 . Alla luce di tali principi deve ritenersi che correttamente la Corte di merito ha nel caso di specie escluso l’efficacia espansiva del giudicato esterno atteso che, nel precedente giudizio, il rigetto dell’eccezione di compensazione risulta motivato alla stregua dei passaggi che ne sono trascritti in ricorso essenzialmente in base alla valutazione delle prove e alla ricostruzione di fatti non aventi caratteristiche di durata ovvero suscettibili di variare nel tempo tali invero possono considerarsi a quanto al credito opposto in compensazione in relazione all’attività di messa a disposizione di personale dipendente il riferimento alle testimonianze di due dipendenti che avevano affermato di aver lavorato esclusivamente per Finterni Due S.r.l. b quanto al credito relativo alla messa a disposizione degli appartamenti, la mancata dimostrazione che vi fosse un accordo in tal senso fra le parti c quanto al compenso per l’attività di amministratore, analogamente, l’assenza di prova sia sull’an che sul quantum. 12. È invece fondato il secondo motivo del ricorso incidentale nei termini appresso precisati. La Corte d’appello ha motivatamente escluso il carattere gratuito della concessione in godimento degli immobili, sulla base di un ragionamento presuntivo la stipula di contratti di locazione per il periodo successivo al 2002 nel contesto di una formalizzazione dei rapporti tra le parti idoneo a sorreggere il relativo convincimento e in sé non fatto segno di specifica critica in ricorso. Altrettanto correttamente ha ritenuto che, in mancanza di un valido contratto che desse diritto a un corrispettivo su base sinallagmatica, detta concessione in godimento potesse riguardarsi, dal lato del proprietario, quale potenziale motivo di depauperamento legittimandolo all’azione di ingiustificato arricchimento v. Cass. 11/10/2016, n. 20383 . La Corte d’appello è però incorsa in errore là dove ha ritenuto di poter commisurare il relativo indennizzo in misura corrispondente al canone locativo convenuto tra le parti nella successiva stipula del contratto di locazione, con ciò del tutto obliterando i presupposti e i criteri che presiedono al relativo riconoscimento nell’an e nel quantum. Occorre invero rammentare che l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dalla parte nell’erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che la stessa avrebbe potuto trarre dall’instaurazione di una valida relazione contrattuale cfr. Cass. 07/11/2014, n. 23780 07/10/2011, n. 20648 . La Corte di merito avrebbe pertanto dovuto provvedere solo in esito ad una valutazione oggettiva dell’utilità conseguita, entro i limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido Cass. n. 20383 del 2016, cit. . A tal fine avrebbe dovuto valutare l’esistenza di un effettivo pregiudizio in capo al proprietario degli immobili discendente dal non averli potuto altrimenti sfruttare a proprio vantaggio o da altre situazioni pregiudizievoli, potendo al riguardo bensì avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari da allegare e provare da parte del preteso depauperato diversi dalla mera mancata disponibilità o godimento del bene, che possano sorreggere il convincimento sia dell’esistenza di pregiudizio, sia del suo collegamento con l’altrui arricchimento cfr. Cass. 04/12/2018, n. 31233 . 13. In accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale dichiara inammissibile il primo rigetta il ricorso principale cassa la sentenza in relazione al motivo accolto rinvia alla Corte d’appello di Perugia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.