L’azione negatoria servitutis è concessa non solo ai proprietari, ma anche a titolari di diritti reali minori di godimento

Nel caso esaminato dalla Cassazione, i ricorrenti, anche se non proprietari dell’area, erano comunque titolari di un diritto perpetuo ed esclusivo e quindi a loro doveva essere concesso il diritto di proporre l’azione negatoria della servitù, a differenza di quanto affermato dalla Corte d’Appello.

La questione è stata affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 11823/2018, depositata lo scorso 15 maggio. Il caso. Due coniugi agivano in giudizio domandando l’accertamento dell’inesistenza di una servitù di stendere i panni e di gocciolio su un fondo di loro proprietà da parte dei vicini residenti nell’appartamento sito al di sopra dell’abitazione attorea. Il Tribunale all’esito del giudizio pronunciava sentenza di rigetto della domanda succitata. Similmente la Corte d’Appello rigettava la domanda, seppure con motivazioni giuridiche differenti. Secondo il Giudice del riesame, difatti, il Tribunale di prime cure aveva rigettato la domanda sul presupposto che fosse stata avanzata una domanda inibitoria sulle immissioni e stillicidio di acqua, ma che la saltuarietà dell’attività dei vicini avesse comportato il rigetto di questa domanda. La domanda attorea, invece, era chiaramente una azione negatoria della servitù, volta a fare accertare il contenuto negativo di una servitù prediale nella fattispecie la servitù di stendere i panni e gocciolio . Il Giudice d’Appello aveva rilevato come tuttavia gli attori non fossero effettivamente proprietari dell’area e quindi non sarebbero stati legittimati a dolersi della pretesa servitù esercitata dai convenuti. Alla luce della duplice soccombenza gli attori si vedevano costretti a ricorrere in Cassazione. La Cassazione, con la sentenza 11823 del 15 maggio 2018, accoglieva parzialmente uno dei motivi di ricorso e rinviava il giudizio alla Corte d’Appello. Il ricorso depositato dei soccombenti era sostanziato in 3 motivi di diritto. Legittimazione attiva? Con il primo motivo i ricorrenti lamentavano come la Corte d’Appello avesse errato nel valutare la carenza di legittimazione degli appellanti nel secondo grado di giudizio. Sebbene fosse infatti condivisibile la conclusione del Giudice di appello sull’errata valutazione della causa da parte del primo Giudice – il quale si era erroneamente pronunciato su una domanda inerente delle immissioni e non una azione negatoria come richiesto dagli attori – la Corte avrebbe errato nel valutare in secondo grado la carenza di legittimazione attiva degli attori. La valutazione in ragione della quale gli attori, non essendo proprietari dell’area, non avrebbero avuto diritto di agire in giudizio a tutela della pretesa di servitù dei convenuti, avrebbe dovuto essere sollevata dalle controparti, mentre non poteva essere rilevata dal Giudice essendo una eccezione in senso stretto e quindi insuscettibile di essere proposta per la prima volta in appello. La Cassazione rigettava questo primo motivo di diritto invocando la precedente giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite che con la sentenza n. 2951/2016 aveva pronunciato il principio in ragione del quale la carenza di titolarità attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa, disattendendo la diversa opinione che è invece posta a fondamento del motivo in esame . Nel presente caso il giudice di Appello aveva quindi correttamente rilevato d’ufficio la carenza di legittimazione attiva degli appellanti in quanto desumibile dalla documentazione prodotta in giudizio. Carenza di proprietà del terreno. Il secondo motivo di ricorso, di contro, denunciava la violazione da parte della Corte d’Appello in merito alla carenza di proprietà del terreno circostante l’alloggio e sul quale insisteva lo sgocciolamento dei panni dei vicini. Secondo i ricorrenti infatti il riferimento per l’area al piano terreno circostante l’alloggio, di un diritto di uso esclusivo e perpetuo a favore dei ricorrenti conferma che gli stessi ne sono divenuti proprietari esclusivi, mancando una specifica riserva di proprietà in favore della venditrice . La Corte di Cassazione, respingendo altresì questo motivo di diritto, specifica che i ricorrenti abbiano richiesto una valutazione sul merito che non può essere oggetto del giudizio della Suprema Corte. L’interpretazione di un contratto, infatti, è demandata al Giudice di merito e può essere sindacata in grado di legittimità solamente in caso di asserita violazione dei criteri ermeneutici, circostanza non sollevata nel presente caso. Servitù. Con il terzo e ultimo motivo di doglianza i ricorrenti contestavano come l’area circostante la loro proprietà fosse un bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c. e che quindi gli stessi sarebbero stati legittimati a proporre una azione negatoria della servitù avverso i vicini soprastanti. La Cassazione accoglieva in parte il presente motivo. Gli Ermellini, difatti, rigettano la parte di doglianza mirata ad ottenere una valutazione sul merito, ma accoglievano la diversa valutazione del diritto dei ricorrenti sul terreno oggetto dello stillicidio. Il richiamo all’art. 1117 c.c. era improprio in quanto l’area non era considerabile come bene comune, tuttavia i Giudici di merito avevano effettivamente mancato di valutare la sussistenza di un diritto pari all’usufrutto che i ricorrenti avevano sul bene. L’art. 949 c.c. in tema di azione negatoria afferma al primo comma che il proprietario può agire per far dichiarare l'inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio . La Cassazione, però, ha esteso la legittimazione attiva a proporre l’azione non solo al proprietario, come invece opinato dai Giudici di merito, ma anche al titolare di un diritto reale diverso da quello di proprietà sul punto si vedano anche Cass. 12169/2002 e Cass. 11222/1991 . I ricorrenti, è stato accertato, anche se non proprietari dell’area erano comunque titolari di un diritto perpetuo ed esclusivo e quindi a loro doveva essere concesso il diritto di proporre l’azione negatoria della servitù, a differenza di quanto affermato dalla Corte d’Appello. Alla luce di tale circostanza la Cassazione accoglieva parzialmente il ricorso e rinviava il giudizio ad un’altra sezione della Corte d’Appello.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 19 dicembre 2017 – 15 maggio 2018, n. 11823 Presidente Petitti – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto 1. Gli odierni ricorrenti convenivano gli intimati dinanzi al Tribunale di Asti chiedendo accertarsi l’inesistenza della servitù di stendere i panni e di gocciolio sul fondo di loro proprietà, con la condanna ad astenersi in futuro da analoghe condotte. A tal fine deducevano di essere proprietari del fondo sottostante il balcone dei convenuti, i quali avevano apposto due staffe con relativi fili di ferro al fine di stendere i panni, con modalità tali da venire a creare un’illegittima servitù in loro danno. Il Tribunale adito con la sentenza del 26 gennaio 2010 rigettava la domanda e la Corte d’Appello di Torino con la sentenza n. 1061 dell’11 giugno 2012, rigettava il gravame sebbene sulla scorta di una diversa motivazione rispetto a quella fatta propria dal giudice di prime cure. Osservava la Corte distrettuale che effettivamente il Tribunale aveva disatteso le richieste attoree sul presupposto che fosse stata avanzata una domanda in tema di immissioni, e ritenendo quindi che la saltuarietà dell’attività di sciorinamento dei panni escludesse che potesse ravvisarsi una situazione di intollerabilità delle immissioni. Tuttavia, la domanda attorea era chiaramente finalizzata a far valere un’actio negatoria servitutis, con la conseguenza che il Tribunale aveva posto in essere la sostituzione della domanda originaria con una diversa domanda in realtà mai avanzata dagli istanti. Tuttavia, una volta preso atto del fatto che gli appellanti avevano rinunziato in appello alla richiesta di rimozione anche degli stendini apposti sul balcone degli appellati, la sentenza rilevava che dall’atto di compravendita degli appellanti emergeva che gli stessi godevano solo di un diritto di uso esclusivo e perpetuo sull’area a pian terreno circostante l’alloggio che avevano, invece, acquistato in proprietà. Ne derivava, quindi, che non essendo proprietari dell’area a tutela della quale avevano agito, non erano legittimati a dolersi della pretesa servitù esercitata dai convenuti. Quanto invece al pregiudizio eventualmente arrecato alla speculare area sottostante il balcone dei convenuti, non emergeva la prova degli effettivi confini dell’area concessa in uso esclusivo agli attori, non essendo in ogni caso stata fornita la prova che il gocciolio interessasse la porzione di effettiva proprietà degli appellanti, essendo invece verosimile ritenere che gli stendini si protraessero oltre lo specchio sottostante il balcone degli appellati con esclusione di un pregiudizio all’area degli attori speculare a quella del balcone sovrastante. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione S.G. e F.R. sulla base di tre motivi. Gli intimati non hanno svolto difese in questa fase. 2. Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. dell’art. 345 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e contradditoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Infatti, sebbene sia condivisibile la conclusione dei giudici di appello secondo cui il Tribunale aveva erroneamente sostituito la domanda di tutela dalle immissioni illegittima all’actio negatoria servitutis avanzata dagli attori, aveva tuttavia poi inopinatamente accolto l’eccezione dei convenuti circa il difetto di titolarità attiva del diritto di proprietà in capo ai ricorrenti. Mai nel corso del giudizio di primo grado era sorta questione in merito al fatto che gli attori fossero proprietari dell’area a tutela della quale avevano agito, sicché la Corte distrettuale non avrebbe potuto in appello rilevare il difetto di titolarità attiva del rapporto controverso, trattandosi a ben vedere di un’eccezione in senso stretto, come tale insuscettibile di essere proposta per la prima volta in grado di appello. Il motivo è infondato. A tal fine deve essere richiamato quanto di recente statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte che con la sentenza n. 2951 del 2016 hanno aderito alla tesi secondo cui la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa, disattendendo la diversa opinione che è invece posta a fondamento del motivo in esame. Pertanto, poiché come rilevato dalla stessa sentenza, gli atti di acquisto degli immobili delle parti in causa erano già stati allegati nel corso del giudizio di primo grado, i giudici di appello, pur in assenza di una sollecitazione degli appellati, ben potevano anche d’ufficio riscontrare il difetto della qualità di proprietari del preteso fondo servente in capo agli attori, dovendosi quindi escludere la sussistenza della dedotta violazione della previsione di cui all’art. 345 c.p.c 3. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa gli elementi probatori allegati dai ricorrenti. Si assume che la motivazione della sentenza gravata sarebbe del tutto insufficiente nella parte in cui ha ritenuto che gli attori non fossero proprietari dell’area sulla quale sgocciolavano i panni stesi dai convenuti. Ed, infatti, la decisione gravata è pervenuta alla conclusione secondo cui l’area sarebbe rimasta di proprietà della società costruttrice, laddove tale affermazione non è in alcun modo avvalorata dal tenore dell’atto di acquisto. Il riferimento per l’area al piano terreno circostante l’alloggio, di un diritto di uso esclusivo e perpetuo a favore dei ricorrenti conferma che gli stessi ne sono divenuti proprietari esclusivi, mancando una specifica riserva di proprietà in favore della venditrice. Nella seconda parte del motivo poi si evidenzia che gli stessi convenuti nella loro comparsa di risposta avevano riconosciuto di essere soliti stendere i panni sul balcone sovrastante la proprietà degli attori, sicché non appare corretta l’affermazione secondo cui questi ultimi non avrebbero fornito la prova del loro assunto. Anche tale motivo è privo di fondamento. La censura, a fronte dell’affermazione dei giudici di merito secondo cui dal tenore del contratto di acquisto degli appellanti emergeva che gli stessi non erano proprietari dell’area interessata dal fenomeno del gocciolamento dei panni, ma erano semplicemente titolari di un diritto di uso esclusivo e perpetuo, dovendosi pertanto reputare che la proprietà spettasse a terzi, si risolve in una surrettizia richiesta a questa Corte di provvedere ad una diversa valutazione dei fatti di causa. A tal fine deve ricordarsi che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione inadeguata ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione . Sicché, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti , ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536 . D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni tra le altre Cass. 12 luglio 2007, n. 15604 Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178 . Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra Cass. 7500/2007 24539/2009 . Nel caso di specie i ricorrenti non hanno nemmeno specificamente dedotto quale specifica regola legale ermeneutica sia stata violata da parte dei giudici di appello, limitandosi apoditticamente a sostenere che, pur a fronte di una espressione letterale che non contempla il riferimento al diritto di proprietà, avrebbero in realtà acquistato la proprietà dell’area circostante il loro alloggio. Né appare invocabile il principio secondo cui in tema di azione negatoria non sarebbe necessario fornire una prova rigorosa del diritto di proprietà, posto che nella fattispecie è stato accertato, sulla base degli elementi probatori in atti, che doveva escludersi la sussistenza del diritto di proprietà in capo ai ricorrenti, e non anche che ne fosse dubbia la ricorrenza. Né appare pertinente, rispetto alla ratio che è alla base della sentenza gravata, il richiamo al fatto che gli stessi convenuti avessero confermato che stendevano i panni dal loro balcone, in quanto la causa del rigetto della domanda non risiede nella assenza di prova circa l’attività dei titolari del preteso fondo dominante, quanto piuttosto nella mancata dimostrazione che l’attività de qua venisse a pregiudicare beni dei quali gli attori erano effettivamente proprietari. 4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1117 e 1012 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Si deduce che l’area circostante il fabbricato costituirebbe un bene comune ex art. 1117 c.c., e che quindi sarebbe in comproprietà dei ricorrenti, che a tale titolo potrebbero quindi agire ai sensi dell’art. 949 c.c Inoltre, erroneamente la qualità dei ricorrenti come titolari di un diritto di uso esclusivo è stata equiparata a quella dell’usufruttuario, laddove la perpetuità del diritto attribuito dovrebbe far propendere per la qualità di enfiteuti, come tali legittimati ad agire autonomamente ex art. 949 c.c Ancora, laddove si reputi che gli attori siano titolari di un diritto di usufrutto, sarebbe stato necessario ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti del nudo proprietario, come appunto si ricava dalla previsione di cui all’art. 1012 c.c. Tale motivo è solo in parte fondato. Innanzi tutto deve essere disatteso nella parte in cui mira ad ottenere una non consentita rivalutazione dell’apprezzamento in fatto compiuto dal giudice di merito. Come visto, la sentenza di appello ha ritenuto, sulla scorta della valutazione del contenuto dell’atto di acquisto, che la proprietà dell’area fosse rimasta in capo a terzi, nemmeno specificamente individuati ma si tratta verosimilmente della società venditrice , sicché il richiamo alla titolarità di un diritto di enfiteusi ovvero di un diritto di usufrutto si sostanzia nella indebita pretesa ad una diversa ricostruzione della natura giuridica del diritto scaturente dal contratto di acquisto degli attori, senza che, come visto, risulti adeguatamente censurata l’attività di interpretazione compiuta dalla Corte d’Appello. Così come del pari improprio è il richiamo alla previsione di cui all’art. 1117 c.c., non avendo in alcun modo i giudici di appello ritenuto che l’area de qua costituisca bene comune ai sensi della norma in esame, avendo invece negato qualsivoglia diritto di proprietà ovvero di comproprietà in capo agli attori. Diversa rilevanza assume invece la doglianza che investe la mancata considerazione da parte del giudice di merito del diritto acquisito dai ricorrenti sull’area circostante il fabbricato, espressamente qualificato come diritto di uso esclusivo e perpetuo, occorrendo a tal fine far richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui la tutela offerta dalla previsione di cui all’art. 949 c.c. compete non solo al proprietario, come invece opinato dai giudici di merito, ma anche al titolare di un diritto reale diverso da quello di proprietà cfr. Cass. n. 12169/2002 Cass. n. 11222/1991 . Ora se effettivamente deve reputarsi che i ricorrenti fossero proprietari dell’area cortilizia, la stessa sentenza ha affermato, alla luce del pacifico contenuto del titolo di acquisto, che erano titolari di un diritto di uso perpetuo ed esclusivo, sicché risulta del tutto carente la motivazione della decisione gravata nella parte in cui supporta il rigetto della domanda solo sulla base della insussistenza del diritto di proprietà in capo agli attori. La sentenza, proprio alla luce della possibilità che l’actio negatoria sia concessa anche a titolari di diritti reali di godimento, avrebbe dovuto motivare sulle ragioni per le quali il diritto acquistato dagli attori precludeva il ricorso all’art. 949 c.c., ponendosi in tale prospettiva anche la necessità di considerare la compatibilità del diritto di uso con il carattere della perpetuità e, nel caso di risposta negativa, stabilire quale possa essere la corretta interpretazione del titolo di acquisto, anche in chiave conservativa della volontà negoziale cfr. in tal senso Cass. n. 6004/2008, a mente della quale, in un’ipotesi di cessione in uso perpetuo di posti auto all’interno di un condominio, convenuta tra due società di capitali, si è ritenuto che fosse carente la motivazione della sentenza di appello, per avere affermato che la durata del diritto d’uso andava ricondotta a quella massima di trent’anni dell’usufrutto a favore di persona giuridica, senza porsi il problema se le parti avessero o meno voluto tale diverso contratto, essendo, infatti, necessario valutare, ai fini dell’eventuale conversione del contratto nullo, da un lato, la obiettiva sussistenza di un rapporto di continenza tra il negozio nullo e quello che dovrebbe sostituirlo, dall’altro, l’intento negoziale dei contraenti, valutazione chiaramente riservata al giudice di merito, e diretta a stabilire se la volontà che indusse le parti a stipulare il contratto nullo possa ritenersi orientata anche verso gli effetti del contratto diverso. 5. Il motivo deve pertanto essere accolto nei limiti sopra precisati e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. Rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo nei limiti di cui in motivazione, e cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino.