Pagamento di denaro in cambio di un posto di lavoro: finalità truffaldina che non ammette la soluti retentio

Il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro oltre a violare norme imperative deve ritenersi negozio contrario al buon costume comunemente accettato, con tutte le conseguenze giuridiche che ne derivano.

Sul punto la Cassazione con ordinanza n. 8169/18 depositata il 3 aprile. Il caso. Il Tribunale rigettava la domanda dell’attore, il quale chiedeva che la controparte fosse condannata al pagamento di una somma di denaro a titolo di restituzione del compenso versato per la promessa di un posto di lavoro per la figlia. A sostegno della domanda l’attore aveva esposto il non verificarsi dell’assunzione promessa e che lo stesso aveva, altresì, sporto denunzia per i reati di truffa e millantato credito, dai quali il convenuto era stato prosciolto per prescrizione. La Corte d’Appello, in riforma della decisione di prime cure, accoglieva il gravame e condannava l’appellato al pagamento della somma invocata dall’appellante. Secondo i Giudici di secondo grado nella fattispecie doveva trovare applicazione la disciplina dell’indebito oggettivo e non la soluti retentio di cui all’art. 2035 c.c. Prestazione contraria al buon costume . Avverso quest’ultima decisione ricorre per cassazione il soccombente lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 2035 c.c Negozio contrario al buon costume. Per risolvere la controversia la Suprema Corte ha precisato che tra i negozi contrari al buon costume rientrano anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente . Inoltre, aggiunge la Corte, sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 c.c., non solo gli esborsi fatti con il fine contrario al buon costume ma non anche le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative . Ciò premesso la Cassazione ha evidenziato che chiunque versi una somma di denaro per scopo di truffa o corruzione non è ammesso a ripetere la prestazione, in quanto, tali finalità sono sicuramente contrarie a norme imperative ed anche al buon costume. Maggiore gravità del comportamento illecito. Secondo il Suprema Collegio, nel caso di specie, non vi sono dubbi circa l’illiceità del comportamento di colui che paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro ed, inoltre, tale condotta integra gli estremi del negozio contra bonos mores considerando che è contrario al concetto di buon costume comunemente accettato. Per queste ragioni, secondo la Corte, non è condivisibile la scelta del Giudice di merito di far rientrare la fattispecie all’interno della disciplina dell’indebito oggettivo dovendo applicarsi al contrario l’art. 2035 c.c Infatti, conclude la Suprema Corte, la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume . In conclusione la Cassazione accoglie il ricorso e, decidendo nel merito rigetta la domanda di restituzione del pagamento proposta dall’originario attore.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 30 gennaio – 3 aprile 2018, n. 8169 Presidente Amendola – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. B.F. convenne in giudizio L.M.F. , davanti al Tribunale di Torre Annunziata, chiedendo che fosse condannato al pagamento della somma di Euro 20.650,84 asseritamente da lui versata a titolo di compenso per la promessa di un posto di lavoro per la figlia B.L. presso il Banco di Napoli, ove il convenuto aveva sostenuto di avere alcune conoscenze. A sostegno della domanda, l’attore espose che l’assunzione non era avvenuta e che egli aveva sporto denunzia per i reati di truffa e millantato credito, dai quali il L.M. era stato prosciolto per intervenuta prescrizione. Si costituì in giudizio il convenuto, chiedendo il rigetto della domanda. Il Tribunale rigettò la domanda per mancanza di prova e compensò le spese di giudizio. 2. La pronuncia è stata impugnata in via principale dall’attore soccombente e in via incidentale dal convenuto in punto di spese e la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 24 maggio 2016, ha accolto il gravame principale e, in riforma della decisione del Tribunale, ha condannato l’appellato al pagamento della somma suindicata, con gli interessi ed il carico delle spese dei due gradi di giudizio. Ha osservato la Corte territoriale che nella specie non doveva trovare applicazione la soluti retentio di cui all’art. 2035 cod. civ., bensì la disciplina dell’indebito oggettivo, poiché il versamento di denaro era avvenuto in violazione anche di norme imperative e non solo del buon costume. 3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Napoli propone ricorso L.M.F. con affidato a due motivi. Resiste B.F. con controricorso. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., ed entrambe le parti hanno depositato memorie. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2035 cod. civ., oltre ad omesso esame di un fatto decisivo oggetto di contestazione tra le parti. Osserva il ricorrente che il pagamento da lui ricevuto non avrebbe dovuto essere considerato ripetibile, trovando applicazione nella specie la regola di cui all’art. 2035 cod. civ. e la conseguente soluti retentio. 1.1. Il motivo è fondato. Questa Corte ha in passato già affermato che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 cod. civ., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative sentenza 18 giugno 1987, n. 5371, in linea con l’insegnamento delle Sezioni Unite, sentenza 17 luglio 1981, n. 4414 . Più di recente, questa Corte ha precisato - in una fattispecie diversa, ma tuttavia assimilabile a quella odierna - che chi ha versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume sentenza 21 aprile 2010, n. 9441 . La sentenza 17 settembre 2010, n. 35352, della Seconda Sezione Penale di questa Corte, invece, ha stabilito che la natura illecita del patto intercorso con la vittima di una truffa non impedisce la condanna dell’imputato alla restituzione della somma di denaro versatagli dalla vittima, perché solo la prestazione contraria al buon costume sarebbe assoggettata alla soluti retentio, mentre l’illiceità della causa del contratto per contrarietà all’ordine pubblico determinerebbe l’applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo. 1.2. Ritiene il Collegio che, diversamente da quanto attestato dalla citata sentenza penale, vadano confermati gli approdi ai quali è già pervenuta la giurisprudenza civile di questa Corte. Nel caso in esame, la fattispecie descritta dalla Corte di merito -consegna di una somma di denaro ai fini di un interessamento vero o presunto per l’ottenimento di un posto di lavoro - mentre configura certamente un negozio contrario a norme imperative, e quindi illecito, integra anche gli estremi del negozio contra bonos mores, posto che è contrario al concetto di buon costume comunemente accettato il comportamento di chi paghi del denaro per ottenere in cambio un posto di lavoro e ciò a prescindere dall’esito, magari anche negativo, della trattativa immorale . Di tanto ha dato atto la Corte napoletana la quale, però, è pervenuta alla non condivisibile conclusione secondo cui se la condotta, oltre ad essere immorale, è anche illecita per contrarietà all’ordine pubblico, non si applicherebbe il regime dell’art. 2035 del codice civile. Va invece ribadito che la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume. Ne consegue che il pagamento oggetto del giudizio odierno non poteva, come ha sostenuto la Corte d’appello, essere inquadrato nell’ipotesi dell’indebito oggettivo, bensì imponeva l’applicazione dell’art. 2035 cod. civ., secondo il noto brocardo romanistico per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis. 2. Il secondo motivo di ricorso rimane assorbito. 3. Il ricorso, pertanto, è accolto e la sentenza impugnata è cassata. Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con rigetto della domanda proposta da B.F. . La natura della causa ed il comportamento, sicuramente da censurare, tenuto anche dall’odierno ricorrente impongono la compensazione integrale delle spese di tutti i gradi di giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da B.F. . Compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.