Respinta la richiesta di protezione dello straniero che teme per la propria incolumità

Irrilevanti le possibili ripercussioni in patria per la relazione intrattenuta dal musulmano con una donna di fede cristiana, relazione che ha anche portato ad una gravidanza. La Corte di Cassazione esclude la sussistenza del pericolo di un danno grave e conferma la decisione dei giudici di merito.

Lui, di fede musulmana, ha avuto in patria una relazione con una donna di fede cristiana – poi rimasta incinta – e per paura di ritorsioni è scappato in Italia. Nonostante la complicata situazione personale, però, è impossibile, sanciscono i Giudici, concedergli il permesso umanitario Cassazione, ordinanza n. 2767/18, sez. VI Civile - 1, depositata oggi . Negata la richiesta di protezione umanitaria. Scenario della vicenda è il Gambia. Lì il musulmano ha avuto una liaison con una donna cristiana. Alla notizia della gravidanza di lei, però, lui ha temuto di essere sottoposto a lapidazione o fustigazione e ha deciso di scappare dal Paese. Passaggio successivo è stato l’approdo in Italia e la richiesta di protezione. La risposta però è negativa. E su questo punto concordano i componenti della Commissione territoriale e i giudici del Tribunale, della Corte d’appello e infine della Cassazione. In particolare, i Giudici del Palazzaccio, a fronte della vicenda raccontata dallo straniero, spiegano che non si può parlare di danno grave , posto che non è provata né verosimile l’eventualità di una condanna a morte, a tortura o ad altro trattamento inumano nel Paese d’origine , dove, viene osservato, la ‘Sharia – la legge sacra islamica – prevede la lapidazione solo per l’adulterio commesso da persona sposata , mentre non si parla di fustigazione per mero rapporto tra persone non sposate e l’uomo musulmano può sposare la donna di religione cristiana . Tirando le somme, visto il carattere strettamente privato della vicenda , non ci sono i presupposti, concludono i giudici, per la protezione umanitaria .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 5 dicembre 2017 – 5 febbraio 2018, n. 2767 Presidente Di Virgilio – Relatore Nazzicone Rilevato - che la parte ricorrente ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Campobasso del 31 ottobre 2016, che ha respinto l'impugnazione avverso l'ordinanza del Tribunale della stessa città, a sua volta reiettiva del ricorso avverso il provvedimento negativo della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale - che deposita controricorso il Ministero intimato - che sono stati ritenuti sussistenti i presupposti ex art. 380-bis c.p.c Considerato - che l'unico motivo censura la violazione o falsa applicazione dell'art. 5 D.Lgs. n. 286 del 1998 t.u. immigrazione , perché il permesso umanitario non è limitato all'esistenza di particolari condizioni soggettive del richiedente, dovendo la vulnerabilità riferirsi ad una situazione di menomata dignità, come nella specie - che il ricorso è inammissibile - che, invero, la corte territoriale ha ritenuto, sulla base del principio della considerazione dello sforzo ragionevole del richiedente e del dovere di cooperazione col medesimo, che il racconto da lui compiuto, anche dove ad esso si possa dar credito, non integra i presupposti della protezione sussidiaria, né di quella umanitaria - che, invero, essa ha affermato che il richiedente, proveniente dal Cambia e di fede musulmana, narra di aver avuto una relazione con una donna cristiana, rimasta incinta, e tema di essere sottoposto a lapidazione o fustigazione per tale motivo ma non vi sono invece i presupposti di un danno grave ex art. 2, lett. g , e 14, lett. a e b , D.Lgs. n. 251 del 2007, posto che non è provata né verosimile l'eventualità di condanna a morte, tortura o altro trattamento inumano nel paese di origine per l'esposta ragione, prevedendo la Sharia la lapidazione solo per adulterio commesso da persona sposata, non vi sono nelle fonti tracce di fustigazione per mero rapporto tra persone non sposate, l'uomo musulmano può sposare la donna di religione cristiana né esistono i presupposti di cui all'art. 14, lett. c , D.Lgs. n. 251 del 2007 circa la minaccia grave alla vita o alla persona per situazioni di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che attengono ad eventi generali e diffuse, di cui non parlano i rapporto internazionali, concordi nel negare ciò - che, inoltre, ha escluso ricorrere i presupposti della protezione umanitaria, ai sensi dell'art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 del 1998, secondo la giurisprudenza della S.C., non essendo neppure stati dedotti motivi di carattere umanitario personali o una personale situazione di vulnerabilità da proteggere - che, in tal modo, la corte territoriale ha compiutamente approfondito l'esame in fatto della situazione, nel pieno rispetto dei principi enunciati da questa Corte in materia, dilungandosi in una motivazione accurata ed esauriente nell'esporre le ragioni che hanno portato la medesima alla decisione di rigetto del gravame - che dunque, in relazione alla richiesta di permesso umanitario che qui solo rileva, la Corte del merito ha applicato in modo pieno i principi enunciati da questa Corte, la quale ancor di recente ha ricordato che il carattere strettamente privato della vicenda non integra i presupposti della protezione umanitaria, atteso che il diritto alla protezione in parola non può essere riconosciuto neppure per il semplice fatto che lo straniero non versi in condizione di piena integrità fisica, necessitando, invece, che tale condizione sia l'effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza Cass. 21 dicembre 2016, n. 26641 - che, pertanto, il ricorso, pur enunciando nel motivo il vizio di violazione di legge, mira invece a sottoporre di nuovo il giudizio di fatto, inammissibile tuttavia in sede di legittimità - che la condanna alle spese di lite segue la soccombenza - che non deve provvedersi alla dichiarazione di cui all'art. 13 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, essendo il ricorrente ammesso al gratuito patrocinio P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.