Fuga per ragioni religiose: protezione in bilico per la donna scappata dal Pakistan

Riaccesa la speranza per la donna. Messa in discussione la decisione con cui i giudici in Appello hanno negato la protezione umanitaria. Riflettori puntati sulla sua vulnerabilità in caso di ritorno in patria.

Di fede cristiana, è scappata dal suo Paese, il Pakistan, per evitare le pressioni – e le minacce – finalizzate a una sua conversione all’Islam. L’accoglienza in Italia non è stata quella immaginata, soprattutto perché il Ministero dell’Interno le ha negato la protezione da lei richiesta. A rimettere tutto in discussione provvede però la Cassazione, ridando una speranza alla donna in fuga per motivi religiosi Cassazione, ordinanza n. 23604, sez. VI Civile, depositata il 9 ottobre 2017 . Conversione. La protagonista, suo malgrado, della vicenda ha raccontato ai giudici le disavventure vissute in patria. In sostanza, la donna sostiene di essere stata costretta a fuggire dal proprio Paese d’origine e di temere per la propria incolumità, in caso di rientro forzato , perché, lavorando come baby-sitter, ha subito forti pressioni da una famiglia perché ella, di fede cristiana, si convertisse alla religione musulmana . E nel concetto di forti pressioni rientra anche la minaccia di denuncia per il reato di blasfemia severamente punito in Pakistan, anche con la morte , minaccia poggiata sul pretesto che lei fosse responsabile di avere gettato alcuni fogli del Corano nel cestino dell’immondizia . A fronte di questo quadro, però, i giudici della Corte d’appello accolgono le obiezioni mosse dal Ministero dell’Interno e decidono, ribaltando le valutazioni compiute in Tribunale, di negare protezione alla donna . Pericolo. A ridare forza alla posizione della straniera sono i giudici della Cassazione, che ritengono quantomeno discutibile la decisione presa in Appello. Innanzitutto, emergono perplessità sul fatto che le dichiarazioni della donna siano state ritenute non credibili , nonostante ella abbia parlato di una persecuzione nei suoi confronti, di carattere religioso, in un contesto privato e nonostante nel suo Paese di origine vi siano guerre religiose e il reato di blasfemia sia punito gravemente . Allo stesso tempo, viene sottolineato che è irrilevante il riferimento a una vicenda privata , poiché il rischio effettivo di subire un danno grave è ravvisabile anche nelle situazioni in cui lo Stato non sia in grado di offrire una protezione effettiva e non temporanea che consiste nell’adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo . E anche sul fronte della protezione umanitaria i magistrati del ‘Palazzaccio’ censurano le valutazioni compiute in Appello, che avrebbero dovuto essere più approfondire sulla vulnerabilità della donna in caso di ritorno in patria.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza 7 luglio – 9 ottobre 2017, n. 23604 Presidente Genovese – Relatore Lamorgese Fatti di causa La Corte d'appello di Bologna, con sentenza del 15 dicembre 2015, in accoglimento del gravame del Ministero dell'interno, ha negato a If. Pe., cittadina pakistana, la protezione umanitaria riconosciuta dal Tribunale di Bologna, oltre che la protezione internazionale. L'interessata aveva riferito di essere stata costretta a fuggire dal proprio paese d'origine Rawalpindi e di temere per la propria incolumità in caso di rientro forzato, avendo subito forti pressioni dalla famiglia presso la quale lavorava come baby sitter perché, essendo di fede cristiana, si convertisse alla religione mussulmana con la minaccia di essere denunciata per il reato di blasfemia severamente punito in Pakistan anche con la morte , con il pretesto che lei fosse responsabile di avere gettato nel cestino dell'immondizia alcuni fogli del Corano, cui erano seguiti la sottrazione del cellulare e un tentativo di sequestro di persona, cui era riuscita a sottrarsi. Avverso questa sentenza If. Pe. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi il Ministero dell'interno non ha svolto difese. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 5, 6, 7, 8 e 14 D.Lgs. n. 251/2007, 8 e 27 D.Lgs. n. 25/2008, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c, per avere ritenuto non credibile il proprio racconto e sfornita di prova documentale la riferita denuncia di blasfemia nei suoi confronti. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell'art. 14 D.Lgs. n. 251/2007, in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. e vizio motivazionale ex art. 360 n. 5 c.p.c, per avere, al fine di negare il riconoscimento della protezione sussidiaria, escluso l'esistenza di una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, riferendo che la sorella continuava a vivere e lavorare senza particolari problemi nella propria città, mentre il ricorrente aveva dedotto il rischio della pena di morte o di trattamenti inumani o degradanti, in relazione alla minaccia di denuncia per blasfemia e in considerazione del fatto che erano diffusi gli attentati e le violenze alla comunità cristiana a Rawalpindi e nel Punjab. I motivi in esame, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei termini che seguono. La sentenza impugnata, negando la protezione internazionale nella forma della protezione sussidiaria, ha ritenuto non credibili le dichiarazioni dell'interessata, la quale aveva riferito di una persecuzione nei suoi confronti di carattere religioso conseguente ad una denuncia di blasfemia non documentata, circoscritta al solo ambito lavorativo e relativa a fatti di natura privata. Questa motivazione è perplessa e apparente quindi censurabile a norma dell'art. 360 n. 5 c.p.c. nuova versione laddove si afferma che la denuncia di blasfemia non era documentata, mentre la ricorrente non aveva riferito che tale denuncia fosse stata presentata ma solo che il datore di lavoro avesse minacciato di presentarla. Inoltre, la Corte di merito, pur avendo confermato che nel paese di origine vi erano guerre religiose e che il reato di blasfemia era punito gravemente, non ha valutato la domanda di protezione a norma dell'art. 14, lett. a-b, D.Lgs. n. 251/2007, limitandosi a riferire che comunque la ricorrente era riuscita a sottrarsi al sequestro anche grazie all'aiuto della sorella che ivi risiedeva senza problemi, a dimostrazione della mancanza di una situazione di pericolo in quella zona del Paese. Tuttavia, essere riusciti a sottrarsi a un sequestro non dimostra di per sé, ovviamente, la mancanza di un pericolo di danno grave , nell'accezione di cui all'art. 14 D.Lgs. n. 251/2007 né la Corte ha considerato che l'interessata aveva riferito che il datore di lavoro continuava a cercarla presso la sorella, la quale era stata costretta a trasferirsi in altra località molto distante dalla sua città. Inoltre, il rilievo dato nella sentenza impugnata al fatto che la vicenda descritta da If. Pe. si fosse verificata in un contesto privato e che le minacce provenissero da agenti privati è dissonante rispetto al sistema normativo della protezione internazionale e si risolve in una falsa applicazione di norme di diritto. Infatti, da un lato, il rischio effettivo di subire un grave danno , nel caso in cui il cittadino straniero rientri nel Paese di origine e non [possa] o, a causa di tale rischio, non [voglia] avvalersi della protezione di detto Paese artt. 3, comma 1, lett. g, D.Lgs. n. 251/2007 2, comma 1, lett. f, D.Lgs. n. 25/2008 , è ravvisabile anche nelle situazioni in cui lo Stato non sia in grado di offrire una protezione effettiva e non temporanea [che] consiste nell'adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l'altro di un sistema giuridico effettivo art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 251/2007 dall'altro, nel caso in cui taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, il giudice di merito deve valutare se il richiedente la protezione abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e se abbia prodotto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e abbia fornito una idonea motivazione dell'eventuale mancanza di altri elementi significativi art. 3, comma 5, D.Lgs. n. 251/2007 . Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286/1998 e 32, comma 3, D.Lgs. n. 25/2008, per avere negato anche la protezione umanitaria permesso di soggiorno per motivi umanitari , erroneamente ancorandola ai presupposti previsti per le misure di maggiore tutela concernenti lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria e senza valutare le gravi conseguenze di un suo forzato rientro in patria, in considerazione della sua condizione di estrema vulnerabilità, a causa della minaccia di denuncia da parte del datore di lavoro per un reato punito dalla legge pakistana con la pena di morte e della probabilità di rimanere sprovvista di tutela dei diritti da parte delle autorità istituzionali a ciò preposte. Il motivo è fondato. La Corte di merito ha fatto implicito ed erroneo riferimento ai medesimi presupposti ritenuti insussistenti della protezione internazionale, in tal modo falsamente applicando i parametri normativi propri della protezione umanitaria, non avendo la Corte di merito esaminato in concreto l'esistenza di gravi motivi di carattere umanitario art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 25/2008 . Nella giurisprudenza di legittimità la protezione umanitaria ha carattere atipico e residuale, nel senso che copre tutta una serie di situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica status di rifugiato o protezione sussidiaria , tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba perciò provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in una condizione di vulnerabilità Cass. 15466/2014, n. 26566/2013 . Il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata rinvia alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, anche per le spese. Roma, 7 luglio 2017.