Responsabilità processuale nelle esecuzioni forzate, quando può essere proposta l’istanza risarcitoria

Il compito di decidere sulla responsabilità processuale aggravata, di cui al comma 2 dell’art. 96 c.p.c., spetta solo al giudice chiamato a decidere sul merito della causa pertanto, nel caso d’instaurazione o prosecuzione dell’esecuzione forzata, esso spetta allo stesso giudice chiamato ad accertare l’inesistenza del diritto su cui essa si fonda. In tali giudizi, quindi, alla domanda di accertamento dell’inesistenza del diritto, si affianca quella volta all’accertamento della sussistenza della condotta colposa ed imprudente, ed alla liquidazione dei danni.

Questo principio è stato affermato dalla Corte Suprema di Cassazione, III sezione Civile, con l’ordinanza n. 21944/17 depositata il 21 settembre 2017. Il fatto. La vicenda nasce da un’opposizione ad esecuzione proposta da una debitrice che, dopo l’instaurazione, nei suoi confronti, di una procedura di esecuzione immobiliare, aveva stipulato, con la società creditrice, un accordo di ripianamento del debito. Nonostante il versamento dell’intero importo dovuto, la società creditrice aveva proseguito l’esecuzione, giungendo fino alla vendita e all’aggiudicazione dell’immobile. La debitrice aveva però proposto opposizione all’esecuzione, innanzi al Tribunale di Catanzaro, ottenendo la dichiarazione dell’inesistenza del diritto a procedere, da parte della creditrice e la nullità dell’aggiudicazione. Partendo da questa statuizione, la debitrice, con un autonomo e separato giudizio, aveva richiesto la condanna della creditrice al risarcimento dei danni, scaturiti dalla sua condotta imprudente. Il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato la domanda, con sentenza successivamente confermata anche dalla Corte d’Appello. Avverso la decisione di secondo grado, veniva proposto ricorso per Cassazione. La proposizione della domanda risarcitoria. La motivazione delle sentenze di merito poggiava sulla considerazione che la fattispecie dell’illegittima continuazione della procedura esecutiva immobiliare, da cui scaturiva la pretesa risarcitoria, rientrava fra quelle previste dal secondo comma dell’art. 96 c.p.c Tale norma dispone che, se la parte danneggiata ne fa richiesta, il giudice che ha accertato l'inesistenza del diritto, in forza del quale è stato eseguito un provvedimento cautelare, trascritta una domanda giudiziale o iscritta un’ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione, condanna l'attore o il creditore procedente a risarcire i danni. Secondo la Corte d’Appello, in questi casi, il debitore danneggiato, può presentare le proprie istanze risarcitorie, solo ed esclusivamente al giudice al quale si è rivolto per far accertare l’inesistenza del diritto posto a fondamento della procedura esecutiva la domanda, quindi, dev’essere proposta nello stesso giudizio di merito in cui si è formato il titolo esecutivo, oppure nel giudizio di opposizione all’esecuzione e non in un giudizio autonomo. Il giudice chiamato a decidere sulla richiesta di risarcimento. Tale assunto è stato confermato dalla Suprema Corte che, secondo il proprio consolidato orientamento sentenze nn. 14653/15 e 1590/13 , ha ribadito che il compito di decidere in ordine alla responsabilità processuale aggravata, di cui al secondo comma dell’art. 96 c.p.c., spetta, sia per l’ an che per il quantum , esclusivamente al giudice chiamato a decidere sul merito della causa ovvero, sia nel caso di instaurazione che di prosecuzione dell’esecuzione forzata, quello stesso giudice chiamato a dichiarare l’inesistenza del diritto su cui essa si fonda. Quando dev’essere proposta la richiesta di risarcimento. Secondo la Corte di Cassazione, pertanto, la richiesta di risarcimento dei danni derivanti dall’instaurazione o compimento dell’esecuzione forzata illegittima, può essere proposta solo all’interno dei giudizi di merito in cui si è formato il titolo esecutivo, oppure nel giudizio di opposizione all’esecuzione qui, alla domanda di accertamento dell’inesistenza del diritto a procedere all’esecuzione, si affianca quella volta ad accertare la sussistenza di una condotta colposa ed imprudente ed alla liquidazione dei danni. La regola generale prevista dalla norma sulla responsabilità processuale. Secondo la Corte di Cassazione, la regola prevista dal secondo comma dall’art. 96 c.p.c., in realtà, si applica anche a quelle enunciate nel primo comma. L’impossibilità di proporre l’istanza risarcitoria con procedimento autonomo e separato si fonda proprio su questa regola generale, che riserva solo al giudice chiamato a decidere sul merito, il compito di valutare il carattere colposo della condotta processuale e di decidere sull’istanza risarcitoria avanzata dalla parte danneggiata. In tal modo si evita il pericolo di un contrasto di giudicati, cui altrimenti si andrebbe inevitabilmente incontro. La Suprema Corte, infine, chiarisce che il potere di formulare l’istanza risarcitoria, è generato proprio dalla condotta processuale, manifestatasi all’interno di un dato giudizio sarà quindi in quello stesso giudizio e non in un altro separato ed autonomo, che tale potere si dovrà esercitare, fatti salvi i soli casi particolari in cui ciò sia precluso dalla specifica evoluzione del singolo processo.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 19 luglio – 21 settembre 2017, n. 18010 Presidente Spirito – Relatore Spaziani Fatti di causa Con atto notificato il giorno 8 novembre 2004, D.M. convenne in giudizio dinanzi al tribunale di Catanzaro Intesa Gestione Crediti s.p.a., deducendo che - nel febbraio 2000, dopo che era stata iniziata nei suoi confronti una procedura di esecuzione immobiliare da parte di Intesa Gestione Crediti s.p.a., aveva stipulato con quest’ultima un accordo per il ripianamento del debito - non ostante la conclusione dell’accordo e il versamento dell’intero importo con esso stabilito, la creditrice aveva indebitamente proseguito la procedura esecutiva sino alla vendita e all’aggiudicazione dell’immobile, avvenuta nel maggio successivo - con ricorso del 19 giugno 2000 essa aveva quindi proposto opposizione all’esecuzione, in accoglimento della quale il tribunale aveva dichiarato l’inesistenza del diritto della creditrice di procedere ad esecuzione forzata nonché la nullità dell’aggiudicazione. Sulla base di queste deduzioni D.M. domandò la condanna della convenuta al risarcimento dei danni materiali e morali derivatile dall’illegittima prosecuzione della procedura esecutiva. La convenuta, costituitasi in giudizio, resisté alla domanda, che fu dichiarata improponibile dal tribunale adito con sentenza confermata dalla Corte di appello di Catanzaro, sul rilievo che la fattispecie rientrava tra quelle disciplinate dall’art. 96, capoverso, c.p.c., secondo cui la condanna al risarcimento del danno del creditore procedente che abbia iniziato o compiuto l’esecuzione forzata agendo senza la normale prudenza, può essere chiesta soltanto al giudice che accerta - nel medesimo giudizio di merito in cui si è formato il titolo esecutivo oppure nel giudizio di opposizione all’esecuzione - l’inesistenza del diritto per cui la procedura esecutiva è stata introdotta. Avverso la decisione della Corte di Appello di Catanzaro propone ricorso per cassazione D.M. affidandosi ad un unico, composito motivo. Risponde con controricorso Intesa Sanpaolo s.p.a., successore di Intesa Gestione Crediti s.p.a. Ragioni della decisione 1. Con l’unico, articolato motivo, la ricorrente deduce sia sotto il profilo della violazione di norme di diritto richiamando gli artt. 96 c.p.c. e 2043 c.c., nonché l’art. 25 Cost. sia sotto il profilo del difetto di motivazione evocando erroneità, manifesta ingiustizia, omessa pronunzia, mancato apprezzamento di punti decisivi della controversia e di tutti gli elementi in fatto di diritto svolti nel giudizio di primo e secondo grado l’erroneità della statuizione della Corte territoriale fondata sul rilievo che la responsabilità del creditore per avere iniziato o compiuto l’esecuzione forzata in relazione ad un diritto inesistente può essere fatta valere solo nello stesso giudizio in cui viene accertata l’inesistenza del diritto, coincidente o con il giudizio di merito in cui il titolo esecutivo si è formato oppure con il giudizio di opposizione all’esecuzione. Lamenta che tale statuizione non terrebbe conto della circostanza che l’art. 96, secondo comma, c.p.c., nel prevedere la c.d. responsabilità processuale aggravata, configura una species del genus responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c., sicché l’azione risarcitoria dovrebbe ritenersi liberamente esperibile anche al di fuori del giudizio di opposizione all’esecuzione. Sostiene che il giudice dell’esecuzione sarebbe competente in relazione agli atti del processo esecutivo ma non sarebbe competente a conoscere delle domande di condanna al risarcimento del danno. Afferma che l’interpretazione seguita dalla Corte di appello costringerebbe il danneggiato a proporre la domanda risarcitoria in un momento in cui non è stata ancora accertata l’inesistenza del diritto del creditore procedente e l’illegittimità della sua condotta processuale, sicché la domanda, fondata su un titolo di responsabilità ancora incerto, sarebbe qualificabile come temeraria. Si duole infine che la predetta interpretazione sarebbe in contrasto con l’art. 25 Cost., privando il danneggiato del giudice naturale precostituito per legge, sicché l’esigenza di rispetto del paramentro costituzionale imporrebbe di ammettere - conformemente alle indicazioni di autorevole dottrina - la possibilità di esperire l’azione risarcitoria in un autonomo giudizio di cognizione. 2. Le illustrate censure sono in parte inammissibili in parte infondate. 2.1. Sono inammissibili nella parte in cui, dopo aver richiamato l’art. 360 n. 5 c.p.c., evocano genericamente le categorie dell’ erroneità , della manifesta ingiustizia , dell’ omessa pronunzia e si dolgono del mancato apprezzamento di punti decisivi della controversia e di tutti gli elementi in fatto di diritto svolti nel giudizio di primo e di secondo grado . Tali doglianze, infatti, per un verso, non tengono conto della circostanza che, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. - applicabile alla pronuncia impugnata, in quanto pubblicata dopo l’11 settembre 2012 - il controllo sulla motivazione può investire esclusivamente l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, la quale sussiste nelle sole ipotesi di mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , di motivazione apparente , di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , sicché il sindacato sulla motivazione è possibile solo con riferimento al parametro dell’esistenza e della coerenza, non anche con riferimento al parametro della sufficienza Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 08053 e 08054 v. anche Cass. 08/10/2014, n. 21257 per altro verso, omettono di considerare che il sindacato previsto dall’attuale formulazione della norma richiamata concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia. La ricorrente, invocando il predetto sindacato, avrebbe quindi dovuto rigorosamente indicare artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. i fatti storici il cui esame sarebbe stato omesso, il dato, testuale emergente dalla sentenza o extratestuale emergente dagli atti processuali , da cui essi fatti sarebbero emersi, il come e il quando nel quadro processuale tali fatti avrebbero formato oggetto di discussione tra le parti, nonché la loro decisività Cass. Sez. U. 7/04/2014, nn. 8053 e 8054 . La circostanza che la denuncia sia stata limitata ad evidenziare il generico mancato apprezzamento di punti decisivi della controversia e di tutti gli elementi in fatto di diritto svolti nel giudizio di primo e di secondo grado , rende dunque inammissibili le doglianze formulate dalla ricorrente mediante richiamo all’art. 360 n. 5 c.p.c 2.2. Le medesime censure sono invece infondate nella parte in cui deducono, mediante richiamo all’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 96 e 2043 c.c. nonché dell’art. 25 Cost. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte la decisione in ordine alla responsabilità processuale aggravata ex art. 96, secondo comma, c.p.c., è devoluta in via esclusiva, sia per l’an che per il quantum, al giudice cui spetta di conoscere il merito della causa, il quale, nell’ipotesi di inizio o compimento dell’esecuzione forzata in mancanza di titolo esecutivo, è il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stata iniziata o compiuta l’esecuzione medesima Cass. 14/07/2015, n. 14653 Cass. 23/01/2013, n. 1590 . Questo giudice può essere o il giudice del giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato ad es in ipotesi di esecuzione di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, l’istanza risarcitoria va proposta nel giudizio di opposizione ex artt. 645 c.p.c. in ipotesi di esecuzione della sentenza di primo grado, l’istanza risarcitoria va proposta nel giudizio di appello cfr., tra le altre, Cass. 20/11/2009, n. n. 24538/2009 e Cass. 17/03/2005, n. 5787 oppure il giudice dell’opposizione all’esecuzione, il quale, in ragione della minaccia o dell’avvio dell’azione esecutiva, sia stato chiamato a pronunciarsi sull’esistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata Cass. 06/05/ 2010, n. 10960 . Colui che intenda chiedere il risarcimento del danno derivante dall’illegittimo inizio o dall’illegittimo compimento dell’esecuzione forzata deve dunque proporre la relativa istanza all’interno di questi processi, nei quali all’accertamento della mancanza del diritto di procedere ad esecuzione forzata si aggiungerà, per effetto dell’istanza di parte, l’accertamento, da parte del medesimo giudice, della condotta colposa del creditore procedente, consistente nell’avere agito senza la normale prudenza . L’esclusione della possibilità di proporre l’istanza di risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata in un giudizio diverso da quello dal cui esito si deduce l’insorgenza di detta responsabilità è prevista dalla legge non solo nelle specifiche ipotesi previste dall’art. 96, secondo comma, c.p.c. che contempla anche le condotte connotate da colpa lieve in ragione del maggior pregiudizio potenzialmente derivante dagli atti di natura cautelare ed esecutiva , ma anche nell’ipotesi generale di cui al primo comma dello stesso articolo, che subordina la condanna al risarcimento alla sussistenza della mala fede o della colpa grave. Tale esclusione trova fondamento nello stretto collegamento esistente tra la valutazione del presupposto della responsabilità processuale e la decisione di merito e nella conseguente duplice esigenza di riservare il giudizio sul carattere colposo della condotta processuale della parte al medesimo giudice che decide sul merito della domanda che si assume essere stata colposamente proposta, nonché di scongiurare l’evenienza di un contrasto pratico di giudicati Cass. 23/12/2010, n. 26004 Cass. 04/06/2007, n. 12952 . Si consideri, inoltre, che la regola contenuta nell’art. 96 c.p.c., nell’affermare - per le ragioni sopra esposte - lo stretto collegamento tra l’accertamento di merito e la valutazione del presupposto della responsabilità processuale, non configura sul piano processuale una regola sulla competenza, ma disciplina un fenomeno endoprocessuale consistente nell’esercizio, da parte del litigante, del potere di formulare un’istanza collegata e connessa all’agire o al resistere in giudizio. Questa istanza non può essere considerata espressione di una potestas agendi esercitabile al di fuori del processo in cui la condotta generatrice della responsabilità aggravata si è manifestata e, quindi, in via autonoma, consequenziale e successiva, davanti ad altro giudice, salvo i casi in cui la possibilità di attivare il mezzo sia rimasta preclusa in forza dell’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine Cass. 06/08/2010, n. 18344 Cass. 18/04/2007, n. 9297 . Devono pertanto ritenersi prive di pregio le doglianze formulate dalla ricorrente, la quale indebitamente ha evocato, tra l’altro, l’asserito difetto di competenza del giudice dell’esecuzione e la lesione del principio del giudice naturale al contrario, la declaratoria di improponibilità della domanda risarcitoria, resa dalla Corte territoriale, appare pienamente conforme a diritto, essendo stata emessa sulla base di un’interpretazione dell’art. 96, secondo comma c.p.c. corretta e pienamente rispettosa del dettato costituzionale. Ne discende il rigetto del ricorso. 3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. 4. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13