Uso distorto od incauto della richiesta di equa riparazione? Il conto da pagare va da euro 1.000 a 10.000

Gli Ermellini confermano la generale legittimità delle sanzioni stabilite dal legislatore volte a reprimere l’uso colposo del mezzo processuale la scelta garantisce l’effettività della tutela giurisdizionale.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione con sentenza n. 6865/17 depositata il 16 marzo. Vicenda giudiziaria particolarmente sfortunata. Qualcuno, ironicamente, ricorderebbe il famoso proverbio andata francese, ritirata spagnola” che, ironicamente, fa riferimento alla caratteristica dell’esercito francese di gettarsi con impeto in battaglia senza, tuttavia, riuscire a raggiungere il termine dell’azione ed a quella dell’esercito spagnolo particolarmente abile, in caso di difficoltà, nella ritirata. Tutto parte da una istanza per equa riparazione. In I° grado il Tribunale respingeva la domanda ed, altresì, condannava il ricorrente a pagare la somma di € 3.400,00 alla Cassa delle Ammende ai sensi dell'art. 5 quater della l. n. 89/2001. Si rammenta che la norma testè richiamata dispone che con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro10.000 . Ebbene, anche in Corte d’appello l’impugnazione del cittadino subiva la stessa sorte. A base della decisione della Corte territoriale vi era la circostanza che la domanda non era stata preceduta dalla presentazione della istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, ex art. 54 d.l. n. 112/2008 e successive modifiche e che, infatti, già da tempo prima rispetto alla proposizione del ricorso de quo non vi erano più incertezze sula necessità di questo adempimento e sulla sua infungibilità rispetto all’istanza di fissazione dell'udienza. Al cittadino non rimaneva che proporre ricorso in Cassazione affidando la propria difesa ad un unico motivo di denuncia, costituito dalla violazione o falsa applicazione proprio dell'art. 5 quater della l. n. 89/2001 attesa anche la esorbitanza della somma liquidata. Più nello specifico, però, il ricorrente eccepiva l'illegittimità costituzionale di tale norma perché, a proprio dire, introduceva una sanzione che finisce per incidere negativamente sulla effettiva tutela giurisdizionale nonché per svuotare la relativa gratuità, prevista per i procedimenti di equa riparazione ex art. 10, comma 1, del d.p.r. n. 115/2002. L’effettività della tutela giurisdizionale. Tuttavia, anche gli Ermellini rigettano le istanze di difesa del ricorrente. Viene evidenziato dalla pronuncia in esame che con la sentenza n. 7326/2015 e con il provvedimento n. 5433/2016 già i Giudici di piazza Cavour avevano avuto il modo di affrontare la questione della legittimità costituzionale del medesimo articolo risolvendolo in senso negativo. Infatti, la Corte osserva che la norma non prevede alcun automatismo tra la declaratoria di inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza ed applicazione della sanzione. Circostanza che, invece, rientra nella discrezionalità valutativa del giudice di merito. Ciò chiarito, gli Ermellini asseriscono che è indiscutibile che la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l'uso distorto oppure incauto della istanza indennitaria. Ma tale effetto dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. L'uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, anche se azzardata oppure priva di qualunque possibilità di accoglimento, non è né può essere priva di costi sociali perché si traduce, in effetti, in un aggravio della funzione giurisdizionale a danno di chi, con prospettive maggiori di fondatezza, ne ha realmente bisogno. Né tantomeno la parte può opporre una visione ‘atomizzata’ del proprio interesse particolare, separata dal dovere di solidarietà sociale che, pure, la Costituzione pone al servizio del vivere comune ex art. 2 Cost Considera la Suprema Corte, infatti, che il costo della funzione giurisdizionale è sostenuto in buona misura dalla collettività ed è ripartito -al suo interno anche a carico di chi non vi ricorra. Sicché, in definitiva, proprio la garanzia di effettività della tutela ben può richiedere, in un contesto socio politico che è compito del solo legislatore apprezzare, misure volte a ridurre il rischio dell'abuso del processo. Con un ragionamento a contrario, osserva la Cassazione, anche una pronuncia della Corte Costituzionale del 2000 conferma tale ricostruzione ermeneutica la pronuncia suddetta, nell'affrontare l'analogo strumento sanzionatorio deflattivo previsto dall'art 616 c.p.p., ne dichiarava la illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedeva che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, potesse non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che avesse proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. Con il che, per contro, resta confermata la generale legittimità di sanzioni volte a reprimere l’uso colposo del mezzo processuale. La Suprema Corte, dunque, con tale pronuncia intende assicurare continuità a questo indirizzo, verso il quale le argomentazioni del cittadino ricorrente non contenevano sostanziali elementi di novità idonei ad indurre ad una soluzione di segno diverso. Quanto, poi, alla lamentata esorbitanza della sanzione pari ad € 3.400,00 la Corte rileva che la liquidazione è inclusa nel campo di variazione previsto dalla norma stessa, nonché motivata espressamente sia nell' an che nel quantum debeatur e non è, pertanto, sindacabile.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile, sentenza 5 dicembre 2016 – 16 marzo 2017, n. 6865 Presidente Petitti – Relatore Manna In fatto Con decreto del 21.7.2015 la Corte d’appello di Bari rigettava l’opposizione ex art. 5-ter legge n. 89/01 proposta insieme con altri da M.F. contro il decreto monocratico che, respingendo la domanda di equa riparazione, aveva condannato il predetto ricorrente a pagare alla cassa delle ammende la somma di Euro 3.400,00 ai sensi dell’art. 5-quater stessa legge. A base della decisione la circostanza che la domanda non era stata preceduta dalla presentazione dell’istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, ai sensi dell’art. 54 D.L. n. 112/08 e successive modificazioni, e che al tempo della proposizione del ricorso non vi era più alcuna incertezza su tale adempimento e sulla sua non fungibilità rispetto all’istanza di fissazione dell’udienza. Per la cassazione di tale decreto M.F. propone ricorso, affidato ad un motivo, successivamente illustrato da memoria. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze resiste con controricorso. Il Collegio ha disposto che la motivazione della presente sentenza sia redatta in forma semplificata. Motivi della decisione 1. - L’unico motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 5-quater legge n. 89/01, l’esorbitanza della somma liquidata ed eccepisce l’illegittimità costituzionale di tale norma per violazione degli artt. 3, 24, 111, 2 comma e 117 Cost., in relazione agli artt. 6, par. 1, e 13 CEDU, poiché introduce una sanzione che finisce per incidere negativamente sull’effettività della tutela giurisdizionale e per svuotare la relativa gratuità, prevista per i procedimenti d’equa riparazione dall’art. 10, comma 1, D.P.R. n. 115/02. 2. - Il motivo e la sottesa questione d’illegittimità costituzionale sono manifestamente infondati. Sia con sentenza Cass. n. 7326/15, non massimata, che con sentenza n. 5433/16 questa Corte ha avuto modo di affrontare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-quater legge n. 89/01, risolvendola in senso negativo, per le considerazioni che tratte da Cass. n. 5433/16 vale riprodurre come segue o ccorre premettere che detta norma non prevede alcun automatismo tra declaratoria d’inammissibilità o rigetto della domanda per manifesta infondatezza ed applicazione della sanzione, che rientra invece nella discrezionalità valutativa del giudice di merito, come dimostra l’uso del verbo servile può nel testo della disposizione. Ciò chiarito, è indiscutibile che la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l’uso distorto o incauto dell’istanza indennitaria. Ma tale effetto dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. L’uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, quantunque azzardata o altrimenti priva di chance di accoglimento, non è priva di costi sociali, poiché si traduce in un aggravio della funzione giurisdizionale a danno di chi, con maggiori prospettive di fondatezza, ne ha realmente bisogno. Né la parte può opporre una visione atomizzata del proprio interesse particolare, scissa dai doveri di solidarietà sociale che, pure, la Costituzione pone al centro del vivere comune art. 2 Cost. . Si consideri, infatti, che il costo della funzione giurisdizionale è sostenuto in buona misura dalla collettività e ripartito al suo interno anche a carico di chi non vi ricorra sicché, in definitiva, proprio la garanzia di effettività della tutela ben può richiedere, in un contesto socio-politico che è compito del solo legislatore apprezzare, misure volte a ridurre il rischio dell’abuso del processo. Se ne trae conferma proprio dal precedente di Corte cost. n. 186/00, invocato da parte ricorrente, che nel pronunciarsi sull’analogo strumento sanzionatorio e deflattivo previsto dall’art. 616 c.p.p., ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. Con il che, per contro, resta confermata la generale legittimità di sanzioni volte a reprimere l’uso colposo del mezzo processuale . Ritiene il Collegio di assicurare continuità a tale indirizzo, verso il quale le argomentazioni di parte ricorrente non contengono sostanziali elementi di novità idonei a indurre una soluzione di segno diverso. Quanto, poi, alla lamentata esorbitanza della sanzione, non può che rilevarsi che la liquidazione operata Euro 3.400,00 è inclusa nel campo di variazione previsto dalla norma, è motivata espressamente nell’an e nel quantum debeatur un terzo della pretesa avanzata e non è, pertanto, sindacabile ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c 3. - Il ricorso va dunque respinto. 4. - Seguono le spese, liquidate come in dispositivo. 5. - Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica l’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 800,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.