Giudice di primo grado non ammette una prova: la parte soccombente non può ricorrere in Cassazione

Avverso la sentenza di appello che non abbia ammesso la prova o esaminato il documento, la parte soccombente nel merito non può dolersi, con il ricorso per cassazione, della violazione dell’art. 115 c.p.c. da parte del Giudice d’appello, il quale, legittimamente, si è disinteressato e doveva disinteressarsi dell’istanza probatoria e del documento in mancanza di appello sul punto dell’omessa ammissione e dell’omesso esame da parte del primo Giudice.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la pronuncia n. 18742/16, depositata il 23 settembre. Il caso. Una S.n.c. ha proposto ricorso per cassazione contro la convenuta avverso la sentenza della Corte d’appello di Perugia che ha riformato parzialmente la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Perugia. Quella sentenza aveva rigettato la domanda proposta dalla società nella qualità di proprietaria di un immobile sito in Perugia ed intesa ad ottenere la condanna della convenuta alla restituzione dello stesso, che era stato concesso in comodato alla medesima e al marito, socio dell’attrice, ed adibito originariamente dai coniugi a casa familiare e, quindi, a seguito della loro separazione per effetto della sentenza dello stesso Tribunale assegnata alla convenuta, quale affidataria dei figli che però, successivamente, divenuti maggiorenni – secondo l’attrice – avevano lasciato l’abitazione ed erano andati a vivere con il padre. Domanda di restituzione dell’immobile. La Corte territoriale ha rigettato l’appello della società riguardo alla domanda di restituzione dell’immobile, ma scrutinando il motivo di appello con cui era stata denunciata l’omessa pronuncia da parte del Tribunale sulla domanda di risarcimento dei danni pure proposta dalla società, dopo aver escluso che l’omissione di pronuncia vi fosse stata quanto alla richiesta del danno sofferto per l’occupazione dell’immobile, dovendosi tale richiesta reputarsi rigettata implicitamente dal Tribunale in via consequenziale al rigetto della domanda risarcitoria, l’ha ritenuta invece esistente riguardo alla richiesta di refusione degli oneri condominiali e decidendo su di essa ha poi rigettato il relativo capo di domanda per difetto di prova . Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la società. Due distinte censure. Il motivo addotto dalla ricorrente – violazione e falsa applicazione degli artt. 1803 c.c., 1809, primo e secondo comma c.c., 1810 c.c., nonché mancata ammissione di prova decisiva ex art. 360, comma 1, n. 5 – si articola in due distinte censure. Quella in iure addebita alla sentenza impugnata di aver erroneamente ritenuto applicabile al comodato oggetto di giudizio la norma dell’art. 1809, secondo comma, c.c La Corte territoriale avrebbe, infatti, richiamato asetticamente la sentenza della Cass. n. 13603/2004, senza considerare la particolarità del caso concreto. La seconda censura è invece nel senso che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere di non procedere all’ammissione delle prove dichiarative richieste dalla parte ricorrente sin dal giudizio dinanzi al Tribunale, volte a provare che i figli della coppia dei coniugi vivevano con il padre sin dal 1999. Il Giudice di primo grado non ammette una prova costituenda. La prima censura è inammissibile, in particolare alla stregua della sentenza della Cass. n. 20448/2014. Ma, a detta della Suprema Corte, anche la seconda. Se infatti quest’ultima si apprezzasse come un sostanziale vizio di violazione di norma del procedimento e dell’art. 115 c.p.c., si tratterebbe comunque di deduzione di un vizio che la ricorrente non può imputare alla sentenza impugnata, in quanto essa potrebbe averlo commesso solo se la ricorrente si fosse doluta nell’appello dell’omessa ammissione della prova e dell’omesso esame del documento con il suo appello . Essendo mancato l’appello, il Giudice di Perugia si è disinteressato, a ragione, dell’istanza di ammissione della prova riproposta e del documento. Il principio di diritto che giustifica la rilevazione della inammissibilità della censura contro la sentenza impugnata è il seguente quando il Giudice di primo grado non abbia ammesso una prova costituenda o non abbia esaminato una prova documentale, la parte soccombente nel merito se ne deve dolere con apposito motivo d’appello, nel quale deve dedurre e argomentare le ragioni dell’ error in procedendo imputabile al primo giudice per la mancata ammissione e per l’omesso esame, e non può limitarsi semplicemente alla riposizione dell’istanza di ammissione della prova costituenda o di esame del documento. Ne consegue che avverso la sentenza di appello che non abbia ammesso la prova o esaminato il documento quella stessa parte non può dolersi con il ricorso per cassazione della violazione dell’art. 115 c.p.c. da parte del Giudice d’appello, il quale legittimamente si è disinteressato e doveva disinteressarsi dell’istanza probatoria e del documento in mancanza di appello sul punto dell’omessa ammissione e dell’omesso esame da parte del primo giudice . La Corte dichiara quindi inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 aprile – 23 settembre 2016, n. 18742 Presidente Chiarini – Relatore Frasca Svolgimento del processo § 1. La s.n.c. F.lli L.E. e B. ha proposto ricorso per cassazione contro T.A.S. avverso la sentenza della Corte di Appello di Perugia del 20 novembre 2012 che ha parzialmente riformato la sentenza resa in primo grado inter partes dal Tribunale di Perugia il 18 maggio 2010. Quella sentenza aveva rigettato la domanda, proposta dalla società nella qualità di proprietaria di un immobile sito in Perugia ed intesa ad ottenere la condanna della T. alla restituzione dello stesso, che era stato concesso in comodato alla medesima ed al marito, L.F. , socio dell’attrice, ed adibito originariamente dai coniugi a casa familiare e, quindi, a seguito della loro separazione per effetto di sentenza dello stesso Tribunale del novembre del 1996, assegnata alla T. , quale affidataria dei figli, che, però successivamente, divenuti maggiorenni - secondo l’attrice - avevano lasciato nel 1999 l’abitazione ed erano andati a vivere con il padre. § 2. La Corte territoriale ha rigettato l’appello della società riguardo alla domanda di restituzione dell’immobile, ma, scrutinando il motivo di appello con cui era stata denunciata l’omessa pronuncia da parte del Tribunale sulla domanda di risarcimento dei danni pure proposta dalla società, dopo avere escluso che l’omissione di pronuncia vi fosse stata quanto alla richiesta del danno sofferto per l’occupazione dell’immobile, dovendosi tale richiesta reputarsi rigettata implicitamente dal Tribunale in via consequenziale al rigetto della domanda restitutoria, l’ha ritenuta invece esistente riguardo alla richiesta di rifusione degli oneri condominali e decidendo su di essa ha poi rigettato il relativo capo di domanda per difetto di prova. § 3. Al ricorso per cassazione della società, che prospetta due motivi, ha resistito con controricorso la T. . Motivi della decisione § 1. Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1803 c.c., 1809 primo e secondo comma c.c., 1810 c.c. ex art. 360 comma 1 n. 3 mancata ammissione e mancata valutazione di prova decisiva ex art. 360 comma 1 n. 5 . Il motivo, in realtà, come emerge dalla sua stessa intestazione, e poi trova corrispondenza nella sua illustrazione si articola in due distinte censure, che anzi assumono il valore di distinti motivi. § 1.1. Quella in iure addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto applicabile al comodato oggetto di giudizio la norma dell’art. 1809, secondo comma, c.c. La Corte territoriale avrebbe richiamato asetticamente Cass. sez. un. n. 13603 del 2004, senza considerare la particolarità del caso concreto. Non è chiaro, nella prospettazione dell’illustrazione della censura in che cosa consisterebbe la particolarità del caso concreto, ma parrebbe che la si individui pag. 15 del ricorso nella circostanza che la comodante sarebbe stata una società immobiliare, sicché - se ben si comprende - il rapporto contrattuale fra essa ed il marito della T. non sarebbe insorto in ragione delle relazioni familiari giustificative del conferimento del godimento in funzione delle esigenze della famiglia, bensì sarebbe stato espressione di una concessione al proprio socio nell’ambito ovviamente di rapporti commerciali , correlati appunto alla qualità di socio del marito della T. , L.F.M. . Il rapporto sarebbe, dunque, sorto come comodato senza determinazione di una durata. Tale originaria natura sarebbe rimasta immutata a seguito della separazione fra i coniugi, sicché, pur essendosi determinato il subentro della sola T. nel rapporto, il comodato sarebbe rimasto un comodato senza termine e, quindi, non riconducibile all’ipotesi individuata dal precedente delle Sezioni Unite. Questa tesi viene giustificata evocando Cass. n. 3179 del 2007. Si adduce, in particolare, che la considerazione della qualità della ricorrente e di quella di socio, del marito della T. , avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale all’applicazione dell’art. 1810 c.c. non potendosi sostenere che - per la natura giuridica del ricorrente - il bene era stato concesso in virtù di rapporti di natura familiare di sostegno morale ed economico , esistendo viceversa, esclusivi o, quantomeno, prevalenti rapporti di natura economica tra la società oggi ricorrente - comodante - ed il proprio socio - comodatario . Dopo tali enunciazioni segue, peraltro, l’affermazione che per vero, come sportivamente già rilevato, gli assunti e le statuizioni sopra esplicitate tra le più recenti Cass. Sez. III Civ. del 7 luglio 2010 n. 15986 si pongono in controtendenza con l’orientamento maggioritario di codesta Suprema Corte, ignorando la rilevanza del c.d. vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari impresso nel comodato del bene immobile adibito a residenza familiare si veda ex plurimis Cass. n. 3072/06 n. 13260/06, n. 13260 . A questa affermazione segue un’ampia riproduzione di brani di motivazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 13603 del 2004, che, tuttavia, è funzionale allo svolgimento della censura ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c § 1.1.1. Ebbene, la sopra riprodotta confessione della rilevazione sportiva degli assunti della prospettazione in iure sopra riferita, a fronte di Cass. n. 15986 del 2010, che si dice in contrasto con un orientamento maggioritario, mostrava al momento della redazione del ricorso l’intrinseca debolezza del motivo che si esamina e la sua palese inammissibilità alla stregua dell’art. 360-bis n. 1 c.p.c., atteso che ci si era astenuti dall’individuare quali sarebbero stati gli elementi per superare l’orientamento maggioritario, seguito dal giudice di merito. Sicché, il motivo, al momento in cui è stato proposto, era inammissibile ai sensi della norma suddetta e conseguentemente, alla stregua di Cass. sez. un. n. 19051 del 2010, privo di fondamento e da rigettare. Detta inammissibilità, peraltro, è ora confermata dai successivi sviluppi della giurisprudenza di questa Corte siccome consacrati da Cass. sez. un. n. 20448 del 2014, alla cui lettura è sufficiente rinviare, con l’avvertenza che essa, nel ribadire sostanzialmente l’arresto del 2004, ha rimarcato come Cass. n. 15986 del 2010 si fosse posta in contrasto del tutto inconsapevole con la sentenza del 2004 ed ha anche offerto la lettura giusta di Cass. n. 3179 del 2007, spiegando perché neppure essa, in realtà, si ponesse in contrasto con la sentenza del 2004. § 1.2. Venendo all’esame della seconda censura, essa, come s’è detto, inizia con un’ampia riproduzione di brani della motivazione della sentenza del 2004. Essa è funzionale ad evidenziare che detta sentenza aveva considerato il comodato concesso in funzione delle esigenze familiari come un comodato soggetto ad un termine indeterminato, ma correlato al permanere delle esigenze della destinazione alla famiglia, intese, però, come destinate a durare fino alla permanenza nell’immobile della presenza dei figli minori o dei figli maggiorenni, tuttavia, non indipendenti economicamente. Sulla base di tale prospettazione la censura articolata è nel senso che la Corte territoriale avrebbe errato adagiandosi sull’oscura posizione assunta dal giudicante di prima istanza , nel ritenere di non procedere all’ammissione delle prove dichiarative richieste dalla parte ricorrente sin dal giudizio dinanzi al Tribunale volte a provare che i figli della coppia dei coniugi T. -L. vivevano con il padre sin dal 1999 . La circostanza era stata, infatti, sostiene la ricorrente, oggetto di deduzione a prova nel ricorso ai sensi dell’art. 447-bis c.p.c. del 1 settembre 2008 nel quale si era chiesto in via istruttoria di ammettere prova testimoniale sulla circostanza, il cui capitolo viene riprodotto , nonché nuovamente nel ricorso introduttivo del giudizio di appello di cui viene riprodotto il relativo passo, del seguente tenore si insiste affinché l’adita Corte voglia ammettere le richieste istruttorie formulate in primo grado immotivatamente disattese dal giudice di prima istanza, formalizzate dalla società esponente nel ricorso introduttivo , e, quindi, all’udienza di discussione del 9 giugno 2011 di cui si riproduce il passo del verbale che è del seguente tenore . è presente l’Avv. Michele Morena il quale si riporta al proprio atto introduttivo ed alle richieste istruttorie in esso formulate, chiedendone l’accoglimento . Inoltre la Corte territoriale non avrebbe valutato nemmeno la prova documentale costituita dal certificato di residenza dei figli della coppia attestante che gli stessi vivevano - tranne uno, economicamente autosufficiente - presso l’abitazione del padre dal 1999. Sulla base di tali deduzioni si sostiene che la Corte perugina, pur nella cornice in iure della sentenza delle Sezioni Unite del 2004 avrebbe dovuto rilevare che era venuto meno il dato della destinazione della casa familiare all’esigenze dei componenti del nucleo e, dunque, considerare verificata la scadenza del termine indeterminato di durata del comodato. § 1.2.1. La censura in esame, come s’è detto, dovrebbe essere riconducibile - anche se non lo si dice espressamente nell’illustrazione - al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., che è applicabile al ricorso nel testo introdotto dalla riforma del 2012. Come tale si tratta di censura che, inerendo per un verso all’omessa ammissione di una prova per testi e per altro verso all’omessa considerazione di un documento, si pone del tutto al di fuori del detto paradigma, siccome ricostruito da Cass. sez. un. n. 8053 e 8054 del 2014. Peraltro, non è dato ipotizzare che l’illustrazione della censura sia stata anche funzionale alla deduzione del vizio in iure di erronea applicazione dell’art. 1809, secondo comma, c.c. nel senso che, pur ammessa la sua applicabilità, in concreto la fattispecie sarebbe stata erroneamente sussunta ai fini della sua applicazione, in quanto non si sarebbe considerata verificata la scadenza del termine del comodato invero, si censura non un vizio di sussunzione di una fattispecie fattuale correttamente ricostruita sotto l’indicata norma, bensì l’omessa ammissione di una prova testimoniale e l’omesso esame di un documento e, dunque, un preteso vizio di violazione della norma del procedimento di cui all’art. 115, primo comma, c.p.c. Tanto precisato, una volta rilevato che tale norma non è evocata nell’illustrazione, si potrebbe pensare che lo sia stata nella sostanza secondo quanto ammette Cass. sez. un. n. 17931 del 2013. § 1.2.2. Senonché, se anche si ritenessero i presupposti di chiarezza che secondo quella decisione consentono alla Corte di Cassazione di individuare il paradigma normativo della censura dando rilievo alla sostanza dell’esposizione del ricorrente, nella specie dovrebbe rilevarsi che, essendo avvenuta l’omessa ammissione della prova testimoniale e l’omesso esame del documento già in primo grado ed avendo ciò determinato necessariamente un vizio della sentenza resa dal primo giudice identico a quello che ora il ricorrente denuncia rispetto alla sentenza di appello, detto vizio avrebbe dovuto denunciarsi con apposito motivo di violazione dell’art. 115 c.p.c. con l’atto di appello, mentre la ricorrente dichiara solo di avere insistito nelle richieste istruttorie disattese dal giudice di primo grado, come se fosse bastata la mera loro riproposizione, e nulla dice sul se e come avesse appellato la sentenza di primo grado in ragione dell’omesso esame del certificato di residenza. Ne segue che, se anche la censura si apprezzasse come un sostanziale vizio di violazione di norma del procedimento e segnatamente dell’art. 115 c.p.c., si tratterebbe di deduzione di un vizio che la ricorrente non può imputare alla sentenza impugnata in quanto essa potrebbe averlo ipoteticamente commesso solo se la qui ricorrente nell’appello si fosse doluta dell’omessa ammissione della prova e dell’omesso esame del documento con il suo appello. Essendo mancato l’appello il giudice perugino si è a giusta ragione disinteressato dell’istanza di ammissione della prova semplicemente riproposta e del documento ed anzi doveva astenersi dal loro esame, in ossequio ai limiti della devoluzione del giudizio. D’altro canto, le allegazioni svolte dalla ricorrente nemmeno consentono, lo si osserva per completezza, di individuare che essa avesse nella sostanza proposto un appello. Il principio di diritto che giustificherebbe la rilevazione della inammissibilità della censura contro la sentenza impugnata su cui vedasi Cass. n. 4717 del 2014, a proposito del rito del lavoro , dunque, il seguente quando il giudice di primo grado non abbia ammesso una prova costituenda o non abbia esaminato una prova documentale, la parte soccombente nel merito se ne deve dolere con apposito motivo di appello, nel quale deve dedurre e argomentare le ragioni dell’ error in procedendo imputabile al primo giudice per la mancata ammissione e per l’omesso esame, e non può limitarsi semplicemente alla riposizione della istanza di ammissione della prova costituenda o di esame del documento. Ne consegue che avverso la sentenza di appello che non abbia ammesso la prova o esaminato il documento quella stessa parte non può dolersi con il ricorso per cassazione della violazione dell’art. 115 c.p.c. da parte del giudice d’appello, il quale legittimamente si è disinteressato e doveva disinteressarsi dell’istanza probatoria e del documento in mancanza di appello sul punto dell’omessa ammissione o dell’omesso esame da parte del primo giudice. . La seconda censura dev’essere reputata inammissibile sotto i vari gradati profili indicati. § 2. Con un secondo motivo - che concerne la statuizione di rigetto per carenza di prova della domanda relativa al riconoscimento degli oneri condominiali - ci si duole di difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia ex art. 360, n. 5 c.p.c. per avere omesso esame di specifici elementi probatori . § 2.1. L’indicazione del paradigma denunciato è erronea, in quanto non si evoca il n. 5 vigente e da applicabile, come si è detto, al ricorso. § 2.2. Peraltro, se si legge l’illustrazione e la si apprezza con riferimento al paradigma vigente, si evidenzia che a il motivo si fonda su una serie di bonifici, che vengono riprodotti, ma riguardo ai quali non si indica se e dove erano stati introdotti nel giudizio di merito e se e dove siano esaminabili in questo giudizio di legittimità, sicché è violato l’art. 366 n. 6 c.p.c., secondo i principi affermati in tema di onere di indicazione specifica prescritta da tale norma Cass. sez. un. nn. 28547 del 2008 e 7161 del 2010 b il motivo non sarebbe riconducibile al paradigma nuovo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., secondo l’esegesi fornita da Cass. sez. un. n. 8053 e 8054 già citate, che hanno affermato il seguente principio di diritto L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia . Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. . È palese che l’attività illustrativa del motivo non rispetta questi canoni, atteso che difetta ogni attività dimostrativa del come e del perché i detti bonifici fossero stati introdotti nel dibattito processuale con la funzione di individuare spese che sarebbero state di pertinenza della T. e del come del perché la qui ricorrente avesse chiarito la loro rilevanza. Chiarimenti che occorreva qui ribadire atteso che la Corte territoriale, non solo non fa riferimento ai bonifici, ma dice e motiva prima che la ricorrente ed appellante non aveva individuato se non genericamente gli oneri condominiali, non aveva individuato quanto riferibile all’immobile occupato dalla T. e nemmeno distinto le spese di competenza del proprietario e quelle - dice la sentenza - di chi utilizza l’immobile. Il motivo anzi, in relazione a quanto appena osservato sub b risulta anche privo di parametrazione alla motivazione della sentenza impugnata, atteso che postula del tutto assertoriamente che dai documenti prodotti risulterebbe che la domanda era precisa , ma si astiene dal dire come e perché dai documenti tale precisione dovesse evincersi. § 2.1. Il secondo motivo è conclusivamente inammissibile. § 3. Il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione alla parte resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro settemilaquattrocento, oltre spese generali ed accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.