Errore del giudice sull’accertamento dello stato di insolvenza: nessun risarcimento per il soggetto dichiarato fallito

Nell’ambito della procedura fallimentare, non è suscettibile di dar luogo a fattispecie di responsabilità civile del magistrato ai sensi della legge n. 117/1988, nel testo in vigore prima della novella di cui alla legge n. 18/2015, l’erronea valutazione della consistenza dello stato di insolvenza da cui è scaturita una dichiarazione di fallimento successivamente revocata.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella pronuncia n. 6810 del 7 aprile 2016. Il caso. Il giudizio trae origine dalla domanda risarcitoria proposta da una società e dal suo legale rappresentante nei confronti dello Stato italiano per i danni asseritamente patiti in conseguenza delle condotte poste in essere, nell’ambito di una procedura fallimentare, dai magistrati coinvolti nonché dalla curatrice fallimentare. Dichiarata inammissibile la domanda da parte del Tribunale adito, la pronuncia veniva confermata anche al termine della successiva fase di reclamo. Gli attori si rivolgevano, quindi, alla Corte di Cassazione. Termine di decadenza dall’azione risarcitoria. I numerosi motivi di censura sollevati dai ricorrenti consentono alla Suprema Corte di soffermarsi su diversi aspetti della disciplina relativa alla responsabilità civile dei magistrati di cui alla legge n. 117/1988, in particolare nel testo previgente alla riforma del 2015. Un profilo di particolare interesse attiene all’individuazione del termine di decadenza dell’azione. Nella specie, la Corte territoriale aveva dichiarato inammissibile l’azione risarcitoria proposta in relazione alla presunta illegittima ammissione al passivo di un credito in quanto la stessa era stata esercitata oltre il termine biennale, decorrente dalla data di esecutorietà dello stato passivo. Invero, a giudizio dei ricorrenti, a tale data non poteva ritenersi consolidato alcun danno nei loro confronti e quindi l’eventuale azione di responsabilità intentata sarebbe stata dichiarata infondata. Ebbene, nel respingere la censura, la Suprema Corte osserva che la prospettazione dei ricorrenti muove da una lettura fuorviante della norma di cui al secondo comma dell’art. 4, l. n. 117/1988, e in particolare del presupposto dell’azione rappresentato dall’esaurimento del grado in cui si è verificato il danno. Provvedimenti per i quali non siano previsti rimedi. Invero, detta norma, rispetto ad ipotesi in cui non siano contemplati rimedi avverso l’atto o il provvedimento che si assume pregiudizievole come nel caso di specie, in cui il decreto di esecutorietà non era impugnabile dagli attori , àncora il termine decadenziale non già al momento in cui si è esaurito il procedimento nel cui ambito si è verificato il danno, bensì al procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno”, avendo dunque riguardo al c.d. fatto dannoso frutto della condotta lesiva e non alle sue conseguenze pregiudizievoli. Del resto, la Cassazione ha già evidenziato che il verificarsi del danno, per effetto di un atto del magistrato in tesi affetto da dolo o colpa grave, non è incluso tra i presupposti fissati dagli artt. 2, 3 e 4, legge n. 117/1988, e richiamati tra i requisiti di ammissibilità della domanda risarcitoria dall’art. 5 della legga stessa. La disciplina in parola – a giudizio degli Ermellini – non risulta lesiva del principio di effettività della tutela giurisdizionale dal momento che il termine biennale di decadenza consente agli interessati di disporre di elementi sufficienti per valutare l’operato dei magistrati e quindi attivare, nei termini legali, l’eventuale azione risarcitoria. La responsabilità derivante dall’interpretazione di norme. Sotto altro profilo, i ricorrenti reiterano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, legge n. 117/1988, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 28 e 97 Cost., per l’esclusione – a differenza dei casi di violazione del diritto comunitario – della responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli dalle violazioni del diritto nazionale compiute da un organo giurisdizionale in conseguenza di interpretazione di norme di diritto, valutazioni di fatti e prove. Invero, a giudizio dei ricorrenti, la Corte territoriale, nel dichiarare infondata la questione, avrebbe errato a ritenere la diversa valenza, ai fini applicativi della legge n. 117/1988, delle violazioni di diritto interno rispetto alle violazioni del diritto comunitario, in quanto vi sarebbe una disparità di trattamento, tra gli stessi cittadini dell’Unione, di situazioni sostanzialmente identiche. Di contro, la Suprema Corte, nel confermare l’infondatezza della questione in parola, chiarisce che l’art. 2 della legge n. 117/1988 nella formulazione applicabile ratione temporis al caso di specie , là dove esclude che l’attività di interpretazione di norme di diritto ovvero di valutazione del fatto e della prova possa dar luogo a responsabilità del magistrato è sì in contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia dell’UE del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, ma solo con riferimento alle violazioni manifeste del diritto europeo imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado cfr. in tal senso Cass. n. 2560/2012 . Responsabilità diretta dello Stato ex lege n. 117/1988. Tale principio è stato ribadito anche da Cass. n. 41/2014, ove si è posto in risalto, per un verso, che non merita censura una disciplina della responsabilità civile del magistrato caratterizzata da una serie di misure volte a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati nonché l’autonomia e la pienezza dell’esercizio della loro funzione e, per altro verso, che una tale prospettiva non ha perso di vigore a causa dell’impatto del diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia UE, sulla legge n. 117/1988, là dove i principi di autonomia e di indipendenza del giudice non sono messi affatto in discussione, venendo tuttavia collocati su un piano differente rispetto a quello su cui si poggia la responsabilità dello Stato per l’illecito comunitario, che non attiene a quella personale del giudice. In definitiva, quindi, nel contesto ordinamentale della legge n. 117/1988, nel testo previgente alla novella di cui alla legge n. 18/2015, è proprio la fonte – nazionale o comunitaria – della responsabilità per l’attività giudiziaria a fungere da ragionevole discrimine, essendo distinti gli ambiti della responsabilità civile disciplinata dalla predetta legge n. 117 in cui alla responsabilità diretta dello Stato segue l’azione di rivalsa di quest’ultimo nei confronti del magistrato e quella dello Stato per l’illecito comunitario. Esclusa la responsabilità per l’attività valutativa del giudice. Sottoposta a censura è poi la decisione della Corte territoriale di confermare, in sede di reclamo, l’inammissibilità dell’azione risarcitoria in riferimento alla declaratoria di fallimento della società ricorrente. Nella specie, i Giudici di secondo grado aderivano alle argomentazioni del primo giudice che, dopo aver esaminato i vari provvedimenti emessi nel corso della procedura, e in particolare la decisione della Corte di cassazione di revoca della dichiarazione di fallimento, aveva concluso che l’errore in cui era incorso il Tribunale nel dichiarare il fallimento non verteva sul collegamento del diritto al fatto, ma proprio sull’accertamento dello stato di insolvenza cioè sulla situazione di fatto che, a norma dell’art. 5 l. fall., è condizione della dichiarazione di fallimento , con conseguente esonero da responsabilità ai sensi dell’art. 2, legge n. 117/1988. Ebbene, nel confermare la statuizione, la Suprema Corte osserva che l’errore del giudice di merito è riconducibile non già ad ipotesi di interpretazione delle norme della legge fallimentare sulla dichiarazione di fallimento in presenza dello stato di insolvenza, né ad un vizio di sussunzione del fatto nelle norme medesime, bensì – correttamente operata l’esegesi e la sussunzione – ad un errore sul fatto accertato”, ossia sulla consistenza dello stato di insolvenza, ciò risolvendosi in una valutazione probatoria non suscettibile di dar luogo a fattispecie di responsabilità risarcitoria ai sensi della citata legge n. 117.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 22 dicembre 2015 – 7 aprile 2016, numero 6810 Presidente Salmé – Relatore Vincenti Ritenuto in fatto 1. - Con decreto reso pubblico il 25 marzo 2014, la Corte di appello di Salerno ha rigettato il reclamo proposto, ai sensi dell’art. 5 della legge numero 117 del 1988, dalla Euro Italia s.r.l. e da D.F. avverso il decreto in data 25 ottobre 2013 del Tribunale di Salerno, che aveva dichiarato inammissibile la domanda di condanna dello Stato italiano al risarcimento dei danni asseritamente patiti dai reclamanti in conseguenza delle condotte, dolose e colpose, dei magistrati G.G. , M.A. , D.P.V. e G.F. , nonché della curatrice fallimentare B.A. , poste in essere nell’ambito della procedura fallimentare instaurata con sentenza numero 9 del 18 febbraio 2009, dichiarativa del fallimento della Eurofin S.p.A 1.1. - Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale, in relazione al motivo di reclamo sull’inammissibilità dell’azione risarcitoria ex lege numero 117 del 1988 concernente l’ammissione a passivo del credito contestato della società SMA, osservava che era trascorso il termine biennale di decadenza a decorrere dal 31 maggio 2010, ossia dalla data di esecutorietà dello stato passivo e non dalla chiusura del fallimento, avuto riferimento al compimento dell’atto sebbene non impugnabile ex art. 98 l. fall. dagli attori, non essendo essi curatore o creditori ovvero, al più, dall’avvenuto esperimento del mezzo di impugnazione con il consolidamento dello stato passivo. Peraltro, era da ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge numero 117 del 1988 per asserito contrasto con gli artt. 3, 24, 111 Cost., potendo il legislatore ragionevolmente differenziare i modi della tutela giurisdizionale, comunque garantita dal contraddittorio e dalla congruità del termine decadenziale previsto. 1.2. - Quanto al motivo di reclamo sull’inammissibilità dell’azione risarcitoria riguardante il provvedimento cautelare, emesso il 31 maggio 2012 inaudita altera parte, di sospensione del D. dalla carica di amministratore e legale rappresentante della Eurofin S.p.A. con nomina di amministratore provvisorio, la Corte di appello rilevava che l’atto rientrava tra i provvedimenti cautelari ex art. 15, comma ottavo, l. fall. e, dunque, aveva efficacia limitata alla fase prefallimentare, essendo da confermare o revocare dalla sentenza dichiarativa di fallimento e dal decreto di rigetto del ricorso di fallimento. Ne conseguiva l’inammissibilità, ai sensi dell’art. 4, comma 2, della legge numero 117 del 1988, dell’azione risarcitoria, giacché proponibile soltanto dopo la definizione della procedura prefallimentare nel cui corso l’atto, non direttamente impugnabile, era stato compiuto, là dove, peraltro, alcuna ulteriore doglianza era stata proposta avverso il decreto impugnato. 1.3. - Quanto al motivo di reclamo sull’inammissibilità dell’azione risarcitoria avverso l’operato complessivo di uno o più magistrati e non già soltanto con riferimento ad atti singoli, con delibazione altresì investente il merito della domanda, il secondo giudice osservava che il Tribunale non aveva debordato dai limiti della delibazione di ammissibilità, riferendo invece dei singoli atti ascritti al dr. Greco e non già al complesso degli stessi e non escludendo l’ammissibilità dell’azione in base al negativo riscontro del dolo denunciato dagli attori. La Corte territoriale negava, altresì, che la dedotta esorbitanza dai limiti del giudizio di ammissibilità potesse riscontrarsi in riferimento all’unico provvedimento che aveva superato il vaglio decadenziale di cui all’art. 4, comma 2, della legge numero 117 del 1988, ossia la sentenza dichiarativa di fallimento della Eurofin S.p.A. del 18 febbraio 2009, rispetto alla quale la declaratoria di inammissibilità non aveva avuto riguardo al dolo del magistrato. 1.4. - La Corte di appello riteneva, poi, manifestamente infondata la dedotta con ulteriore motivo dai reclamanti questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge numero 117 del 1988, in riferimento agli artt. 3, 24, 28 e 97 Cost., per l’esclusione - a differenza dei casi di violazione del diritto comunitario, come stabilito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia - di responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli dalle violazioni del diritto nazionale compiute da organo giurisdizionale in conseguenza di interpretazione di norme di diritto, valutazioni di fatti e prove, limitandola solo ai comportamenti, atti e provvedimenti dei magistrati posti in essere con dolo e colpa grave. 1.5. Quanto poi al motivo di reclamo sull’inammissibilità dell’azione risarcitoria in riferimento al decreto di rigetto di restituzione del compendio fallimentare emesso dal giudice delegato del 30 marzo 2012, per non esser stato investito da alcun addebito di grave ed inescusabile violazione di legge , la Corte territoriale, in accoglimento dell’eccezione della dr.ssa G. , riteneva, anzitutto, che non trovasse riscontro nel motivo di reclamo - e, dunque, non potesse essere presa in considerazione - la doglianza relativa alla mancata rilevazione del giudicato della sentenza della Corte di appello di Catanzaro che aveva revocato la dichiarazione di fallimento della Eurofin S.p.A. pronunciata con la sentenza numero 9/2009 ad opera della sentenza della Corte di Cassazione del 15 marzo 2013, con effetto di rendere addirittura inammissibile la domanda di revocazione della suddetta sentenza della Corte d’Appello . Inoltre, il secondo giudice osservava che gli attori avevano dedotto che l’istanza di restituzione del compendio immobiliare fu proposta e rigettata dalla dr. G. nelle more del passaggio in giudicato della sentenza numero 229/2012, con la quale la Corte d’Appello di Catanzaro aveva rigettato la domanda di revocazione proposta avverso la sentenza di revoca della dichiarazione di fallimento passaggio in giudicato che sarebbe avvenuto, secondo la deduzione degli attori, il 3.5.2012 , ma non avevano dedotto, né tanto meno argomentato, le ragioni per cui il provvedimento sarebbe stato reso con dolo o colpa grave . La Corte territoriale soggiungeva che dette ragioni erano state allegate soltanto in sede di reclamo ex art. 739 cod. proc. civ. e, dunque, erano inammissibili per non esser state sottoposte all’esame del primo giudice . 1.6. - Quanto al motivo di reclamo sull’inammissibilità dell’azione risarcitoria in riferimento alla declaratoria di fallimento della Eurofin S.p.A., la Corte di appello aderiva alle argomentazioni del primo giudice che aveva concluso dopo aver esaminato il provvedimento del Tribunale di Cosenza e le sentenze della Corte di appello e della Corte di cassazione sulla revoca della dichiarazione di fallimento, nonché messo in evidenza che il primo giudice aveva analizzato gli indici sintomatici dello stato di insolvenza che l’errore in cui lo stesso Tribunale di Cosenza era incorso aveva riguardo all’ accertamento dello stato di insolvenza cioè della situazione di fatto che, a norma dell’art. 5 l. fall., è condizione della dichiarazione di fallimento , non nell’applicazione dell’art. 5 l. fall. allo stato di fatto accertato . Sicché, l’errore non verteva sul collegamento del diritto al fatto, ma proprio sul fatto accertato , il quale, ai sensi dell’art. 2 della legge numero 117 del 1988, poteva rilevare solo come svista di percezione , con esclusione dell’attività valutativa del fatto e delle prove, cui era da ricondurre la valutazione dello stato economico che attiene all’insolvenza. 2. - Per la cassazione di tale decreto ricorrono D.F. e la Euro Italia s.r.l Resistono lo Stato italiano, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri - che ha anche proposto ricorso incidentale condizionato - e G.F. , mentre non ha svolto attività difensiva in questa sede B.A. . Considerato in diritto 1. - Preliminarmente, è infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla resistente G. sul presupposto della notifica di detto atto allo Stato italiano, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, presso all’Avvocatura distrettuale di Salerno e non già presso l’Avvocatura generale dello Stato, posto che il vizio della notificazione è stato sanato, con effetti ex tunc, dalla costituzione in giudizio del destinatario del ricorso tra le altre, Cass., 12 marzo 2015, numero 4977 , da cui si può desumere che l’atto ha effettivamente raggiunto il suo scopo, come, del resto, è confortato dal fatto che lo stesso destinatario non ha sollevato alcuna eccezione al riguardo. 2. - Sempre in via preliminare, è infondata anche l’eccezione di improcedibilità del ricorso per mancato deposito, ai sensi dell’art. 369 cod. proc. civ., del relativo originale con la relata di notificazione, giacché detto originale risulta depositato presso la Corte di appello, non trovando applicazione la richiamata disposizione del codice di rito là dove impone il deposito presso questa Corte del ricorso in originale notificato, posto che l’art. 5 della legge numero 117 del 1988 prevede che sia la Corte di appello a trasmettere gli atti a questa Corte. E il predetto art. 5 è applicabile nella fattispecie ratione temporis , in quanto la sua abrogazione, per effetto dell’art. 3, comma 2, della legge numero 18 del 2015, non ha efficacia retroattiva, sicché la disposizione citata continua ad applicarsi alle domande avanzate con ricorso depositato prima del 19 marzo 2015 come nel caso in esame , data di entrata in vigore della legge numero 18 del 2015 cfr. Cass., 15 dicembre 2015, numero 25216 . 3. - Ancora in via preliminare, le argomentate conclusioni scritte depositate dal p.m. all’esito delle conclusioni rassegnate oralmente sono inammissibili, giacché la discussione in udienza dinanzi a questa Corte è contrassegnata, per l’appunto, dall’oralità - del resto espressamente imposta proprio al p.m. dall’art. 379 cod. proc. civ. -, con l’unica eccezione - ma consentanea all’anzidetta regola dell’oralità - delle brevi osservazioni per iscritto delle parti sulle conclusioni del pubblico ministero . A tal riguardo, infatti, non essendo ammesse repliche alla difese orali svolte nel corso della discussione, la previsione derogatoria da ultimo richiamata - sebbene si innesti in un contesto in cui la discussione ha una funzione semplicemente illustrativa delle posizioni già assunte negli atti precedenti - opera, comunque, un evidente bilanciamento del diritto di difesa, costituzionalmente garantito art. 24 Cost. , in ragione della peculiare modulazione degli interventi definita secondo tale assetto dai commi secondo e terzo del citato art. 379 cod. proc. civ. disposizione che, nella sua complessiva struttura, è stata ritenuta non lesiva dell’art. 24 Cost. cfr. Corte cost., sent. numero 403 del 1999 tra le tante, Cass., 15 novembre 2000, numero 14807 - che ha anche escluso il contrasto con la decisione della Corte EDU del 20 febbraio 1999 - e Cass., 20 novembre 2011, numero 14604 . Pertanto, data la conformazione attuale della richiamata norma codicistica di riferimento, non solo il principio dell’oralità, ma anche il predetto bilanciamento delle posizioni difensive in campo verrebbe ad essere messo in discussione proprio dalla possibilità del p.m. di depositare conclusioni scritte. 4. - Con il primo mezzo del ricorso principale del D. e della Euro Italia s.r.l. è denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., l’”omesso esame della sentenza della Corte di Appello di Catanzaro numero 3664/2013 . La Corte territoriale avrebbe pretermesso l’esame della sentenza numero 3664/2013 pronunciata dalla Corte di appello di Catanzaro in sede di revocazione, ex art. 395, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., avverso la sentenza della medesima Corte di appello che aveva respinto il reclamo, ai sensi dell’art. 18 l. fall., contro la sentenza del 26 luglio 2006 del Tribunale di Cosenza - di cui era giudice relatore il dr. Giuseppe Greco - con la quale era stato dichiarato il secondo fallimento della Eurofin s.r.l Con detta sentenza definitiva - prodotta all’udienza di discussione dinanzi al collegio del 27 febbraio 2014 sarebbe stata accertata la sussistenza di una grave inimicizia tra il dott. D. e il dott. G.G. e ciò, sebbene la stessa si riferisca al secondo fallimento della Eurofin, i fatti sui quali è stata rinvenuta la grave inimicizia risalgono al 2008, con ciò fornendo la chiave di lettura dell’intera vicenda , ossia della condotta tenuta dal dott. G. , quale giudice relatore della sentenza dichiarativa del primo fallimento Eurofin, giudice delegato a tale fallimento e giudice relatore sia del decreto conclusivo del giudizio di reclamo ex art. 26 l. fall. nel procedimento per la restituzione del compendio fallimentare, sia del decreto di nomina dell’amministratore provvisorio della Eurofin, con sospensione dalla carica, inaudita altera parte, del dott. D. . Sicché, il giudice di appello avrebbe omesso l’esame di un fatto storico, risultante agli atti ed oggetto di discussione, avente carattere decisivo in funzione di una pronuncia favorevole sulla ammissibilità dell’azione di responsabilità. 4.1. - Il motivo è inammissibile. La censura, infatti, così come prospettata in rapporto ad un vizio motivazionale che atterrebbe al decreto nel suo complesso, risulta del tutto sganciata dalle ragioni decisorie, che, articolandosi in funzione dei singoli e specifici motivi di gravame, si risolvono in una pluralità di soluzioni talune aggredite partitamente con gli ulteriori motivi di ricorso che - salvo per quanto asseritamente postulato dagli stessi ricorrenti con il settimo motivo di ricorso in ordine alla pronuncia della sentenza dichiarativa del primo fallimento Eurofin - non sono affatto attinte dalla dedotta incidenza retrospettiva di una sentenza che riguarda una vicenda quella del secondo fallimento della Eurofin di per sé estranea ai fatti su cui è fondata l’azione risarcitoria ex lege numero 117 del 1988 e la cui decisività, pertanto, è ben lungi dall’essere tale. 5. - Con il secondo mezzo del ricorso principale è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge numero 117 del 1988 in punto di decadenza dell’azione di responsabilità derivante dall’illegittimità dei provvedimenti adottati nell’ambito della verifica dello stato passivo . La Corte territoriale - nel riferire il termine di decadenza dall’azione alla data 3 maggio 2010 del decreto di esecutorietà dello stato passivo concernente il credito contestato della società SMA, quale atto non impugnabile dagli attori in base all’art. 98 l. fall. - avrebbe erroneamente interpretato l’art. 4 della legge numero 117 del 1988, mancando di dare corretto rilievo al requisito dell’ esaurimento del grado in cui si è verificato il danno e, dunque, non considerando che gli attori non avrebbero potuto avviare l’azione di responsabilità perché, sino a quel momento, alcun danno avrebbe potuto considerarsi consolidato . Sicché, ove avessero agito in detto termine, l’azione sarebbe stata ammissibile, ma sicuramente rigettata per infondatezza, in assenza di danno risarcibile. Con ciò l’interpretazione seguita dalla Corte di merito limiterebbe il diritto irragionevolmente all’effettività della tutela giurisdizionale, in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost 5.1. - Il motivo è infondato. Esso muove da un errato presupposto interpretativo, suscitato da una lettura fuorviante della norma di riferimento di cui al secondo comma dell’art. 4 della legge numero 117 del 1988, la quale, rispetto ad ipotesi in cui non siano contemplati rimedi avverso l’atto o il provvedimento che si assume pregiudizievole, ancora il termine decadenziale non già al momento in cui si è esaurito il procedimento nel cui ambito di è verificato il danno come opinato dai ricorrenti , bensì al procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno , avendo, dunque, riguardo al cd. fatto dannoso cfr. anche Cass., 5 maggio 2011, numero 9910 , frutto della condotta commissiva od omissiva lesiva e non alle sue conseguenze pregiudizievoli c.d. danno conseguenza, che integra il danno risarcibile civile . Né conforta la tesi dei ricorrenti - contrastante con il chiaro dettato normativo la cui ratio appare evidentemente ispirata da una esigenza di certezza del decorso del termine decadenziale, altrimenti vulnerata ove si lasci il termine stesso all’insorgenza delle conseguenze dannose, a volte solo eventuale e, comunque, non sempre istantanea, né immediatamente percepibile dal danneggiato - il richiamo a talune pronunce di questa Corte segnatamente, Cass., 24 dicembre 2012, numero 18392 recte 18329 , in cui risulta ellittico l’utilizzo del solo termine danno , senza che sia smentita la portata stessa della norma come sopra evidenziata. Del resto, questa stessa Corte ha chiaramente evidenziato che il verificarsi del danno, per effetto di un atto del magistrato in tesi affetto da dolo o colpa grave, non è incluso tra i presupposti fissati dagli artt. 2, 3 e 4 della legge 13 aprile 1988, numero 117, richiamati, tra i requisiti di ammissibilità della domanda risarcitoria, dall’art. 5 della legge stessa Cass., 29 aprile 2003, numero 6697 . Dunque, anche la prospettata questione di legittimità costituzionale risulta del tutto fuori quadro, muovendo da una erronea premessa esegetica, là dove - come già questa Corte ha avuto modo di affermare Cass., 3 dicembre 1999, numero 13496 - la discrezionalità del legislatore nel modulare la tutela giurisdizionale, a fronte di situazioni diverse, è ragionevolmente esercitata, mentre la congruità del termine biennale di decadenza consente di rendere effettiva detta tutela, potendo gli interessati disporre di elementi sufficienti per valutare l’operato dei magistrati e quindi per attivare, nei termini legali, l’eventuale azione risarcitoria . 6. - Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., violazione falsa applicazione dell’art. 4 della legge numero 117 del 1988, in punto di inammissibilità dell’azione di responsabilità derivante dall’illegittimità del provvedimento di revoca del dott. D. dalla carica di amministratore . La Corte territoriale avrebbe errato a ritenere inammissibile l’azione risarcitoria in quanto il provvedimento adottato il 31 maggio 2012 nei confronti del dott. D. ha avuto immediata efficacia pregiudizievole e, poi, rispetto ad esso la sentenza dichiarativa di fallimento del 26 luglio 2012, in contrasto con l’art. 15, comma ottavo, l. fall., non ha assunto alcuna decisione. Peraltro, tale provvedimento non sarebbe impugnabile come affermato dalla sentenza numero 686/2013 della Corte di appello di Catanzaro sul reclamo avverso la seconda dichiarazione di fallimento e, dunque, rientrerebbe nel novero di quelli denunciabili ai sensi della legge numero 117 del 1988. 3.1. - Il motivo è inammissibile. Esso non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale - invero, sulla stessa premessa condivisa dai ricorrenti, ossia la non impugnabilità ex se del provvedimento provvisorio cautelare emesso nella fase prefallimentare ai sensi dell’art. 15, comma ottavo, l. fall. - ha ritenuto che l’azione risarcitoria andasse esperita solo dopo l’esaurimento di detta fase, con la sentenza dichiarativa del fallimento o con il decreto di rigetto del ricorso, mentre gli attori, in contrasto con l’art. 4, comma 2, della legge numero 117 del 1988, avevano anticipato l’azione risarcitoria nel corso della fase prefallimentare. Pertanto, la Corte di appello non ha escluso che il provvedimento in data 31 maggio 2012 non fosse denunciabile ex lege numero 117 del 1988, ma ha evidenziato una ragione di inammissibilità dell’azione risarcitoria che i ricorrenti non hanno colto, mancando di farne oggetto di impugnazione in questa sede. 7. - Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., violazione falsa applicazione dell’art. 2, comma 1 e 2, della legge numero 117 del 1988, alla luce delle prescrizioni degli artt. 3, 24, 28 e 97 Cost. . La Corte territoriale, in modo distonico dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, avrebbe errato a ritenere che la diversa valenza, ai fini applicativi della legge numero 117 del 1988, delle violazioni di diritto interno rispetto alle violazioni del diritto comunitario , quale interpretazione che determinerebbe comunque una disparità di trattamento, tra gli stessi cittadini dell’Unione, di situazioni sostanzialmente identiche, salvo per la fonte - nazionale o comunitaria - della normativa applicabile al caso concreto dallo stesso giudice nazionale . Ne conseguirebbe che un fatto generatore di danno verrebbe trattato in maniera diversa nonostante l’identità della condotta dannosa esercizio delle funzioni giudiziarie . Inoltre, il giudice di appello, nel sostenere che l’illecito comunitario non è un illecito giudiziario in senso proprio, ma un illecito dello Stato , non considererebbe che, nella specie, l’illecito è per definizione, dello Stato Italiano che non ha garantito un processo equo ed imparziale, ponendosi il dolo del magistrato solo come azione mediata rispetto alla violazione dei diritti ex artt. 24 e 111 Cost. che la legge 117/1988 vorrebbe presidiare . Il decreto impugnato non terrebbe conto, poi, che tale responsabilità dello Stato assolve pur sempre alla funzione riparatoria del danno subito dal singolo cittadino, a prescindere dal fatto che ad errare sia lo Stato-Legislatore, piuttosto che lo Stato-Giudice . Né sarebbe rilevante il profilo di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, posto che la legge numero 117 del 1988 pone una questione di responsabilità dello Stato e non del magistrato la cui responsabilità diretta ricorre solo per fatti di rilevanza penale . Ed ancora sarebbe errata la parificazione tra violazione manifesta configurata dalla Corte di giustizia e la violazione evidente e grossolana che integrerebbe la negligenza inescusabile, quale tesi sconfessata dalla sentenza della Corte di giustizia in C379/2010. Sicché, se non fosse possibile una lettura costituzionalmente orientata in tal senso, si porrebbe questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1 e 4, della legge numero 117 del 1998, in riferimento agli artt. 3, 24, 28 e 97 Cost., nella parte in cui 1 esclude totalmente la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di violazione del diritto nazionale imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate da tale organo giurisdizionale 2 fuori dai casi sub 1, limita la responsabilità dello Stato italiano ai soli comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari posti in essere dal magistrato con dolo o colpa grave . 7.1. - Il motivo non può trovare accoglimento. Questa Corte ha già affermato che l’art. 2 della legge 13 aprile 1988, numero 117 nella formulazione originaria, applicabile ratione temporis nella presente controversia , là dove - nel fissare i presupposti della domanda risarcitoria contro lo Stato per atto commesso con dolo o colpa grave dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni - esclude che possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, ovvero di valutazione del fatto e della prova, è in contrasto con gli obblighi comunitari dello Stato italiano alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 24 novembre 2011, nella causa C-379/10, solo con riferimento alle violazioni manifeste del diritto dell’Unione Europea imputabili ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado. E ciò per l’assorbente ragione che l’arresto della Corte di Lussemburgo propriamente riguarda la responsabilità dello Stato italiano esclusivamente per violazioni manifeste, da parte dell’organo giurisdizionale di ultimo grado, del diritto dell’Unione Cass., 22 febbraio 2012, numero 2560 . Tale principio è stato ribadito e precisato anche successivamente cfr. Cass., 3 gennaio 2014, numero 41 , ponendosi in risalto, per un verso, che non merita censura una disciplina della responsabilità civile del magistrato quella recata dalla legge numero 117 del 1988 caratterizzata da una serie di misure e di cautele dirette a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati nonché l’autonomia e la pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria , garantite dall’art. 101 Cost. così Corte cost., sent. numero 18 del 1989 , e, per altro verso, che una tale prospettiva non ha perso di vigore a causa dell’impatto del diritto eurounitario, siccome interpretato dalla Corte di Giustizia U.E., sulla legge numero 117 del 1988 CG, 24 novembre 2011, in C-379/10 più in generale sulla responsabilità dello Stato per violazione del diritto eurounitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado CG del 30 settembre 2003, in C-224/01, Kobler CG, 13 giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo , là dove principi di autonomia e di indipendenza del giudice e la loro valenza costituzionale non sono messi affatto in discussione, venendo, tuttavia, collocati su un piano differente rispetto a quello su cui si poggia la responsabilità dello Stato per l’illecito comunitario, che non attiene a quella personale del giudice . Sicché, nel contesto ordinamentale della legge numero 117 del 1988, nel testo che soltanto rileva in questa sede previgente alla novella di cui alla legge numero 18 del 2015, è proprio la fonte - nazionale o comunitaria - della responsabilità per l’attività giudiziaria a fungere da ragionevole discrimine, essendo distinti gli ambiti della predetta legge numero dello Stato segue nei confronti del magistrato e quella dello Stato per l’illecito comunitario. Ne deriva che - come già ritenuto dalla Corte territoriale - la questione di legittimità costituzionale prospettata dai ricorrenti è manifestamente infondata sotto tutti i profili. Del pari, manifestamente infondata, e con evidenza ancor più netta, è la questione di costituzionalità - accennata dalla difesa dei ricorrenti in sede di discussione orale della legge numero 18 del 2015, nella parte in cui non contempla una norma transitoria che consenta l’applicazione del novellato art. 2, in punto di violazione manifesta della legge , anche a fatti illeciti commessi in precedenza come nella specie . Il che, invero, si tradurrebbe, piuttosto, in una norma retroattiva incidente su condotte, fonte di responsabilità, già esaurite, la quale, pertanto - al di là della stessa pertinenza, in sé, di un siffatto disporre per il passato all’ambito della più ampia discrezionalità legislativa porrebbe essa stessa seri problemi di compatibilità costituzionale sotto plurimi profili artt. 3, 24, 111 Cost., nonché artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU , posto che si verrebbero a sanzionare comportamenti che la legge non considerava illeciti al tempo in cui il soggetto ha agito cfr. anche Cass., 5 febbraio 2013, numero 2637 . 8. - Con il quinto mezzo del ricorso principale è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., violazione falsa applicazione dell’art. 739 cod. proc. civ., in relazione alla mancata attuazione della sentenza di revoca del fallimento . La Corte territoriale - nel ritenere che la doglianza sulla negata immediata esecutività della sentenza di revoca del fallimento e della definitività della stessa non trovasse riscontro nel motivo di reclamo e dunque non può essere presa in considerazione in questa sede - avrebbe, anzitutto, omesso di pronunciarsi sulla specifica censura dei reclamanti in contrasto con le caratteristiche proprie del reclamo ex art. 739 cod. proc. civ., che è mezzo di impugnazione a critica libera , tanto da imporre al secondo giudice di pronunciarsi su tutte le questioni poste innanzi al primo giudice, a prescindere dalla deduzione di specifici vizi di merito . o di rito . Inoltre, il giudice di appello - nell’affermare che solo nel giudizio di reclamo erano stati addotte le ragioni a fondamento dell’azione di responsabilità, non avendo in precedenza dedotto e argomentato le ragioni per cui il provvedimento sarebbe stato reso con dolo o colpa grave avrebbe errato a reputare inammissibili i profili di censura dei reclamanti, posto che il fatto costitutivo sul quale si fonda l’addebito mosso dagli esponenti alla dott.ssa G. è rimasto immutato , mentre la sua qualificazione giuridica spetta al giudice. Del resto, il fatto ossia la sentenza della Corte di cassazione numero 4173/2012 risultava incontrastabilmente dagli atti del procedimento , avendo il giudice avuto mancata conoscenza del contenuto dell’art. 398, comma 4, c.p.c. e ciò costituendo negligenza inescusabile. 8.1. - Il motivo è infondato. Contrariamente a quanto assunto dai ricorrenti, ove il procedimento camerale si concluda con un provvedimento di natura decisoria su contrapposte posizioni di diritto soggettivo e, quindi, suscettibile di acquistare autorità di giudicato come nel caso della fase di ammissibilità dell’azione risarcitoria ex lege numero 117 del 1988 , trovano applicazione i principi del processo di cognizione circa l’onere dell’impugnazione e la conseguente delimitazione dell’ambito del riesame, da parte del giudice di secondo grado, alle questioni a lui devolute con i motivi di gravame tra le altre, Cass., sez. unumero , 8 settembre 1983, numero 5521 Cass., 16 aprile 2003, numero 6011 . In tale ottica, il reclamo ex art. 739 cod. proc. civ., benché caratterizzato dalla speditezza e dall’informalità del rito, non può risolversi nella mera riproposizione delle questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, ma deve contenere specifiche critiche al provvedimento impugnato ed esporre le ragioni per le quali se ne chiede la riforma Cass., 25 febbraio 2008, numero 4719 . Non colgono, dunque, nel segno le doglianze mosse con il motivo in esame, che muovono da una erronea interpretazione della portata del giudizio di reclamo ex art. 739 cod. proc. civ. e non aggrediscono specificamente l’impianto argomentativo che sorregge la decisione assunta dalla Corte territoriale, insistendo su profili ad essa estranei e mancando, altresì, di evidenziare puntualmente il piano allegatorio originario che il giudice ha ritenuto carente in punto di deduzione dei fatti costituenti la responsabilità gravemente colposa o dolosa del magistrato carenza che, del resto, appare emergere proprio dai contenuti dell’atto di citazione riportati a p. 26 del ricorso . 9. - Con il sesto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 2 e 5 della legge numero 117 del 1988, nonché, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3 e numero 4, cod. proc. civ., violazione falsa applicazione dell’art. 739 cod. proc. civ La Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato gli artt. 2 e 5 della legge numero 117 del 1988, non essendosi limitata ad una valutazione meramente prognostica del controllo dei requisiti di ammissibilità dell’azione di responsabilità, ma avendo anticipato il giudizio sul merito di detta azione. Inoltre, in violazione dell’art. 739 cod. proc. civ. e con conseguente nullità del decreto, non avrebbe pronunciato su tutte le questioni dedotte dagli esponenti con l’atto introduttivo del giudizio . Peraltro, avendo pretermesso l’esame della sentenza numero 3664/2013 della Corte di appello di Catanzaro, non si sarebbe avveduto che l’accertamento della colpa grave era oramai assorbito, ai fini della ammissibilità dell’azione, nell’intervenuto accertamento dei motivi di livore del dott. G. nei confronti del dott. D. . 9.1. - Il motivo non può trovare accoglimento. Privi di consistenze sono i profili di doglianza che fanno leva su una lettura erronea dell’art. 739 cod. proc. civ., alla stregua di quanto evidenziato con lo scrutinio del motivo che precede, non potendo il giudice del reclamo estendere, nella specie, la propria cognizione oltre il devolutum , né dare ingresso ad allegazioni fattuali supportate anche da documenti, come nel caso della sentenza di questa Corte numero 3664/2013 non dedotte in precedenza a prescindere, dunque, dalla pertinenza stessa dei fatti rispetto ai comportamenti e provvedimenti denunciati ai fini risarcitori . Inammissibile è poi la censura di violazione di legge, ai sensi del numero 3 del primo comma, cod. proc. civ., in riferimento all’art. 2 della legge numero 117 del 1988, posto che essa erroneamente aggredisce non già una affermazione in iure del decreto impugnato che, peraltro, quanto all’estensione del vaglio di ammissibilità ex art. 5 della legge numero 117 del 1998, non esprime affatto principi distonici a quelli enucleati dalla giurisprudenza di questa Corte ed evocati dagli stessi ricorrenti , bensì si rivolge ad una delibazione in facto del giudice del reclamo, investendo quella parte di motivazione la quale, sulla scorta dell’esame del provvedimento reclamato, ha escluso esservi stata, da parte del primo giudice, una valutazione di merito dei fatti quali indizi del dolo ascritto ad uno dei magistrati, che esorbiti i limiti del vaglio di rilevanza . 10. - Con il settimo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, numero 3 e numero 5, cod. proc. civ., violazione falsa applicazione dell’art. 2 della legge numero 117 del 1988, in relazione alla responsabilità derivante dall’illegittima dichiarazione di fallimento . La Corte territoriale, in violazione dell’art. 2 della legge numero 117 del 1988, avrebbe escluso la negligenza inescusabile circa l’erronea delibazione sullo stato di insolvenza da parte del Tribunale di Cosenza, adottata in palese violazione degli artt. 5, 6 e 7 l. fall., mancando di riesaminare il merito degli addebiti mossi in sede di reclamo, in contrasto con la portata dell’art. 739 cod. proc. civ Peraltro, la violazione commessa dal Tribunale, non rilevata dal decreto impugnato in questa sede, sarebbe ancor più grave in quanto le proporzioni manifeste e ingiustificabili dell’errore trovano oggi ragione e giustificazione nei sentimenti di livore e animosità del dotto. G. accertati dalla Corte di appello di Catanzaro . 10.1. - Il motivo non può trovare accoglimento. Esso, oltre a riproporre una lettura non congruente dell’art. 739 cod. proc. civ. come innanzi già messo in evidenza , non coglie neppure la ratio decidendi della sentenza impugnata, insistendo sulla esistenza di un error iuris nell’applicazione degli artt. 5, 6 e 7 l. fall. da parte del giudice che ha dichiarato il fallimento della Eurofin, che la Corte territoriale, con il decreto impugnato, non avrebbe riconosciuto, escludendo la ricorrenza di una negligenza inescusabile nella disapplicazione della anzidette norme. Diversamente, però, da quanto dedotto dai ricorrenti, il decreto impugnato in questa sede ha ricondotto l’errore del giudice del merito non già ad ipotesi di interpretazione delle norme della legge fallimentare sulla dichiarazione di fallimento in presenza dello stato di insolvenza, né ad un vizio di sussunzione del fatto nelle norme medesime quello che nel decreto si assume come collegamento del diritto al fatto accertato , bensì - correttamente operata l’esegesi e la sussunzione - ad un errore sul fatto accertato , ossia sulla consistenza dello stato di insolvenza, ciò risolvendosi in una valutazione probatoria e non all’errore di tipo revocatorio previsto dal comma 2 dell’art. 2 della legge numero 117 del 1988 - non suscettibile di dar luogo a fattispecie di responsabilità risarcitoria ai sensi della citata legge numero 117 tra le altre, Cass., 5 dicembre 2002, numero 17259 . 11. - Il ricorso va, dunque, rigettato, con consequenziale assorbimento del ricorso incidentale condizionato proposto dallo Stato italiano-Presidenza del Consiglio dei ministri. I ricorrenti devono essere condannati, ai sensi dell’art. 385, primo comma, cod. proc. civ., al pagamento, in favore delle parti resistenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri introdotti dal d.m. 10 marzo 2014, numero 55. Nulla è da disporsi in punto di regolamentazione di dette spese nei confronti della parte intimata che non ha svolto attività difensiva in questa sede. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 8.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge, in favore di G.F. , nonché in complessivi euro 8.000,00, oltre spese prenotate a debito, in favore dello Stato italiano-Presidenza del Consiglio dei Ministri. Trattandosi di causa esente, non si applica l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. numero 115 del 2002.