Convalidazione del marchio, uso effettivo e quantificazione del danno: il punto della Cassazione

Con la sentenza n. 4048/2016, la Corte di Cassazione ribadisce alcuni punti fermi in tema di proprietà industriale con particolare riferimento all’istituto della convalidazione per uso del marchio in buonafede per oltre cinque anni, alla decadenza per non uso, nonché al profilo risarcitorio del danno subito dal legittimo titolare del diritto.

In questo senso Corte di Cassazione sentenza n. 4048/16, depositata il 1 marzo. La vicenda. Una s.r.l. conveniva in giudizio un società con denominazione molto simile alla propria per la dichiarazione della nullità del marchio usato da quest’ultima per mancanza del requisito della novità. Il Tribunale rigettava la domanda ritenendo fondata l’eccezione sollevata della convenuta relativa alla decadenza del marchio dell’attrice per non uso protrattosi per oltre cinque anni, nonché l’intervenuta convalida del proprio. In sede di giudizio d’appello la pronuncia veniva ribaltata con la dichiarazione di nullità del marchio della convenuta che veniva inoltre condannata al risarcimento del danno. La società soccombente impugna la pronuncia innanzi ai Giudici di legittimità con un articolato ricorso. La convalidazione del marchio impedita dalla malafede. Con i primi due motivi, la ricorrente lamenta l’erronea valutazione del comportamento di tolleranza dell’attrice circa l’esistenza e l’uso del proprio marchio per un periodo superiore a cinque anni. Posto il riconoscimento di tale circostanza, i giudici di merito hanno infatti negato una convalidazione dell’uso del segno distintivo della ricorrente a causa della sua malafede. Richiamando una precedente pronuncia a Sezioni Unite sent. n. 17927/2008 , il Collegio esclude la fondatezza della doglianza e ribadisce che la sussistenza della malafede al momento della registrazione del marchio comporta, come logica conseguenza, che anche l’uso successivo sia caratterizzato da malafede, salvo prova contraria. La ricorrente non ha fornito alcuna deduzione in merito e dunque si rivela corretta l’affermazione della Corte d’appello circa la prova della malafede che risulta fondata anche su altri fattori, quali la mancanza di affinità tra i prodotti registrati e la notorietà acquisita dal marchio dell’attrice, oltre alla quasi identità dei due segni distintivi sia nella denominazione che nell’aspetto grafico. Il concetto di uso effettivo del marchio. La sentenza impugnata viene censurata anche con riferimento all’affermazione della mancanza di decadenza del marchio dell’attrice per uso effettivo. Invocando la giurisprudenza comunitaria, la ricorrente afferma che non sussiste un uso effettivo del marchio idoneo ad evitarne la decadenza nell’apposizione dello stesso ad oggetti pubblicitari, trattandosi di un uso non conforme alla funzione essenziale dello stesso. Nonostante la correttezza dell’assunto, la S.C. conferma l’argomentazione con cui la Corte d’appello accertava, sulla base di precise risultanze contabili, la concessione a terzi dell’uso del marchio, comportamento pacificamente riconducibile ad uso effettivo del marchio nella sua tipica funzione di sfruttamento economico dell’opera dell’ingegno. La quantificazione del danno subito dal titolare. Infine, per quanto attiene alla quantificazione del danno subito dalla società attrice, i Giudici di legittimità ribadiscono che il danno derivante da illeciti in materia di proprietà intellettuale costituisce una specificazione della norma generale di cui all’art. 2043 c.c. e deve essere accertato secondo i criteri della responsabilità aquiliana. La sentenza impugnata ha dunque correttamente valutato il danno subito dalla società attrice facendo riferimento al criterio del lucro cessante, in correlazione al beneficio ottenuto dal danneggiante sfruttando a proprio favore illegittime occasioni di guadagno. In conclusione, la Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali. Fonte www.ilsocietario.it

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 27 gennaio 1 marzo 2016, n. 4048 Presidente Nappi Relatore Ragonesi Svolgimento del processo Con atto di citazione del 27 luglio 2001, la Campagnolo s.r.l. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Rovigo la Campagnola s.r.l. per veder dichiarata la nullità del marchio Campagnola per mancanza di novità e per l’inapplicabilità al caso di specie dell’istituto della convalidazione. Costituitasi l’odierna ricorrente eccepiva la decadenza parziale per non uso del marchio dell’attrice Campagnolo s.r.l. in quanto mai utilizzato per abbigliamento ed eccepiva, altresì, l’intervenuta convalida del marchio Campagnola a causa del comportamento dell’attrice che, per un periodo ben superiore a cinque anni, aveva tollerato, essendone a conoscenza, l’uso del segno Campagnola da parte della convenuta quale marchio e ragione sociale. Depositava, tra l’altro, copia delle fatture d’acquisto dalla Campagnolo s.p.a., ritenendola impresa collegata con la Campagnolo s.r.l Il Tribunale di Rovigo, in sede istruttoria, sentiva C.V. , presidente della Campagnolo s.r.l., il quale dichiarava di non aver alcun rapporto di parentela coi soci della F.lli Campagnolo s.p.a., né esservi altrimenti alcun collegamento societario con quest’impresa. Il Tribunale di Rovigo, con sentenza n. 952/04 del 21 dicembre 2004, rigettava le domande della attrice Campagnolo s.r.l., condannandola alla rifusione delle spese di giudizio. La decisione del Tribunale era fondata sulla constatazione della decadenza per non uso del marchio Campagnolo per abbigliamento essendo ben evidente che altro è il fenomeno della sponsorizzazione comunque effettuata al fine di rendere dapprima nota e consolidare in seguito la presenza della ditta in questione sul mercato dei componenti per biciclette ed altro il fenomeno della distribuzione a livello commerciale di capi d’abbigliamento . Nel corso del giudizio, infatti, Campagnola aveva messo in luce che l’attrice Campagnolo aveva apposto il marchio su capi d’abbigliamento non al fine di contraddistinguerne l’origine imprenditoriale, ma solo in finzione pubblicitaria e promozionale delle componenti meccaniche da essa prodotte. Il Tribunale quindi riteneva superflua ogni decisione circa l’intervenuta convalidazione. La Campagnolo s.r.l. interponeva appello notificato il 10 giugno 2005. All’atto della precisazione delle conclusioni il Procuratore generale chiedeva la conferma della sentenza di primo grado. Con sentenza non definitiva emessa in data 5 marzo 2007, pubblicata il 5 giugno 2007, la Corte d’Appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione proposta dalla società Campagnolo s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Rovigo dichiarava la nullità del marchio Campagnola n. concesso il 26 marzo 2002 a seguito della domanda di rinnovo n. del 12 marzo 1999 per le classi 25 e 28, costituente rinnovo del marchio del 9 novembre 1998 dichiarava la. società Campagnola s.r.l. responsabile della ipotesi di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n. 1 c.c. inibiva alla predetta società qualsivoglia utilizzo del marchio campagnola come marchio, insegna, ditta, ragione sociale, per contraddistinguere abbigliamento sportivo, biciclette o accessori per biciclette ordinava alla Campagnola s.r.l. il ritiro del materiale pubblicitario in cui compariva tale marchio nonché la distruzione di qualsiasi supporto materiale in cui compaia detto marchio ordinava, infine, la trasmissione della sentenza all’Ufficio Italiano-Brevetti e Marchi. Quindi, con separata ordinanza, disponeva la prosecuzione del giudizio per l’espletamento della ulteriore attività istruttoria necessaria in relazione alla domanda di risarcimento del danno formulata da Campagnolo s.r.l., sia con riferimento alla nullità del marchio, sia con riferimento alla concorrenza sleale. Contestualmente, ordinava alla appellata Campagnola s.r.l. l’esibizione per estratto delle scritture contabili relative alla vendita di prodotti contrassegnati con,il marchio campagnola a far data dal 1991, disponendo, all’esito della esibizione, una consulenza tecnica volta a determinare l’utile netto ricavato dalla società Campagnola s.r.l. dalla vendita dei prodotti di abbigliamento sportivo recanti il marchio Campagnola nel periodo . Espletata la CTU, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza 2188/10, condannava la Campagnola srl al pagamento in favore dell’appellante Campagnolo srl della somma di euro 340.448,38 oltre interessi dalla pronuncia al saldo. Provvedeva inoltre sulle spese di giudizio. Avverso la detta sentenza ricorre per cassazione sulla base di sei motivi la Campagnola srl. Resiste con controricorso la Campagnolo srl. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso la ricorrente, lamenta che erroneamente l’impugnata sentenza parziale riconosce senza esitazione che l’appellante Campagnolo s.r.l. aveva tollerato l’esistenza e l’attività della qui ricorrente Campagnola s.r.l. per un periodo superiore a cinque anni, pur essendone perfettamente a conoscenza, ne ha però negato la convalidazione in relazione all’uso del segno distintivo Campagnola a motivo della malafede dell’omonima società. Sostiene la ricorrente che la malafede nella registrazione non può trovare applicazione in una ipotesi di mancanza di novità nei confronti di un anteriore marchio registrato in Italia. Il motivo è infondato. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto che una interpretazione evolutiva dell’art. 48 della legge marchi, anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 45 del d.lgs. 480/92, alla luce anche della normativa comunitaria, dà luogo a ritenere che l’articolo in questione, là dove prevede la cosiddetta convalidazione del marchio successivo e confondibile, se usato in buona fede per cinque anni senza contestazioni, trova applicazione non soltanto nell’ipotesi di conflitto tra un marchio anteriore di fatto ed uno successivo registrato, ma anche nell’ipotesi di conflitto tra due marchi ambedue registrati. Ciò si desume tra l’altro dalla lettera della legge, che faceva riferimento ai marchi conosciuti , i quali non sono soltanto quelli di fatto. Cass. sez Un 17927/08 . In particolare le Sezioni Unite hanno chiarito che non è infatti sostenibile la mancanza di connessione tra le disposizioni dell’art. 47 e quelle dell’art. 48 che riguarderebbero ipotesi diverse ed inconciliabili, posto che la prima nell’enunciare la regola della nullità del brevetto, fa immediatamente ed esplicitamente salvo il disposto dell’articolo seguente perciò instaurando essa una specifica connessione con quest’ultimo, e preannunciandone il contenuto in una limitazione o in una diminuzione, ovvero se si vuole in una deroga, degli effetti normali Cass. sez Un 17927/08 . A tale proposito le Sezioni unite hanno precisato che le due norme, conclusivamente non regolano ipotesi diverse, ma la minore art. 48 riguarda un aspetto della maggiore art. 47 e tra di esse è semmai istituito dalla clausola, altrimenti priva di senso giuridico, un rapporto di genere a specie proprio nei termini evidenziati dall’interpretazione estensiva, che l’azione di nullità altrimenti assoluta - viene paralizzata per volontà dello stesso art. 47 in conseguenza dell’istituto della cd. dagli studiosi e dalla giurisprudenza convalidazione o consolidazione anche nella ipotesi in cui il suo titolare la faccia valere per la confondibilità da parte di soggetti esterni del secondo brevetto con quello proprio. Le Sezioni Unite devono, poi, rilevare che nell’art. 48 non vi è una sola parola che suggerisca o autorizzi la conclusione che la norma abbia inteso sanare o convalidare un marchio nullo, restituendogli ciò che gli è stato negato dall’art. 47, e perciò in aperta contraddizione con quest’ultima disposizione la stessa invece introduce una preclusione all’esercizio tardivo dell’azione di nullità o di contraffazione per il fatto che la stessa non sia stata esercitata nel termine di cui si è detto, lasciando impregiudicata ogni questione di validità o nullità del marchio posteriore nei confronti dei terzi e disponendo soltanto, come avvertito da attenta dottrina, che il suo titolare rimasto inerte è decaduto dal diritto di difendere l’uso monopolistico del marchio nei confronti di colui del quale ha tollerato l’abuso . Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione da parte della Corte d’appello di Venezia dell’art. 48 r.d. 21 giugno 1942, n. 929 perché, ai sensi dell’art. 89 d.lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, l’eventuale mala fede da parte di chi abbia registrato un marchio d’impresa prima del 31 dicembre 1992 non può essere ricondotta al momento della registrazione, ma valutata in relazione al successivo comportamento. Il motivo appare infondato e per certi versi inammissibile non rivestendo carattere rilevante. Anche a volere infatti ritenere applicabile la normativa anteriore alla entrata in vigore del d.lgs 480 del 1992, è agevole osservare che la sussistenza della malafede al momento della registrazione comporta come logica conseguenza che anche l’uso successivo del marchio sia in malafede salvo prova contraria che nel caso di specie competerebbe alla resistente che sul punto nulla ha dedotto con il motivo. Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta l’omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la prova della malafede nel deposito del marchio Campagnola perché, in particolare, non avrebbe preso in considerazione tutti i fattori pertinenti propri del caso di specie ed esistenti al momento del deposito della domanda di registrazione di un segno come marchio quali,ad esempio la mancanza di affinità tra i prodotti oggetto di registrazione il non uso del marchio da parte della Campagnolo nel settore dell’abbigliamento l’esistenza della Campagnolo spa, omonima della resistente Campagnolo srl, che vendeva i propri prodotti ad essa ricorrente e che ciò avrebbe indotto nella aspettativa di non ledere i diritti della Campagnolo srl. Il motivo è inammissibile. La Corte d’appello ha rilevato che, al di là della con divisibilità dell’assunto della appellata secondo cui la sola confondibilità del marchio non era idonea ad integrare la mala fede, vi erano ulteriori elementi idonei a dimostrare siffatta circostanza in primo luogo la notorietà acquisita dal marchio Campagnolo nel settore ciclistico in secondo luogo la quasi identità dei due marchi sia nella denominazione che nella grafica e nell’uso del corsivo. Tale motivazione appare del tutto adeguata in quanto basata sulle risultanze istruttorie emerse nel giudizio e del tutto coerente sotto il profilo logico giuridico. È appena il caso di rammentare che il denunziato vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803 . Tale vizio non consiste invero nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito v. Cass., 14/3/2006, n. 5443 Cass., 20/10/2005, n. 20322 . La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare salvo i casi tassativamente previsti dalla legge prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti v., da ultimo v. Cass., 7/3/2006, n. 4842 Cass., 20/10/2005, n. 20322 v. Cass., 27/4/2005, n. 8718 Cass., 25/2/2004, n. 3803 Cass., 21/3/2001, n. 4025 Cass., 8/8/2000, n. 10417 Cass., 8/8/2000, n. 10414 Cass., Sez. Un., 11/6/1998, n. 5802 Cass., 22/12/1997, n. 12960 . Nella specie, il ricorrente si limita invero a riproporre le censure avanzate con l’atto di appello in relazione alle quali si duole del mancato esame globale degli elementi probatori acquisiti al processo e dell’inadeguato esame di alcune testimonianze. Quanto al contenuto dell’onere motivazionale che grava sul giudice di appello, va ricordato che la sentenza di secondo grado deve esplicitare gli elementi imprescindibili a rendere chiaro il percorso argomentativo che fonda la decisione Cass. Sez. un. n. 10892 del 2001 , ma l’onere di adeguatezza della motivazione non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte, né che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da questa svolte. È, infatti, sufficiente che il giudice dell’impugnazione esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con esse e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi i quali, se pure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo svolto per affermarla Cass., n. 696 del 2002 n. 10569 del 2001 n. 13342 del 1999 è cioè sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, tenuto conto dei motivi esposti con l’atto di appello Cass. n. 9670 del 2003 n. 2078 del 1998 . Nel caso di specie pertanto, la Corte d’appello ha correttamente selezionato gli elementi ritenuti rilevanti ai fini del decidere ed in base ad essi ha argomentato la propria decisione. Le censure che il ricorrente propone a tale motivazione e che si basano - come già rilevato - sulla asserita mancanza di affinità dei prodotti, sul non uso per lungo tempo del marchio da parte della Campagnolo nel settore dell’abbigliamento, tendono in realtà a sollecitare, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi cfr. Cass. n, 12984 del 2006 Cass., 14/3/2006, n. 5443 . Con il quarto motivo la ricorrente assume che la Corte d’appello di Venezia ha motivato in modo del tutto erroneo la propria decisione n. 707/07 là ove non si è attenuta al principio dettato in sede comunitaria in base al quale non sussiste un uso effettivo del marchio, atto ad evitarne la decadenza, qualora sia apposto ad oggetti pubblicitari che mirano a favorire l’acquisto di altri prodotti o a promuovere la vendita di questi ultimi, non trattandosi di uso reale e concreto, conforme alla funzione essenziale del marchio, che consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine di un prodotto o di un servizio. Con quinto motivo lamenta che la sentenza impugnata ha motivato in modo del tutto erroneo la propria decisione n. 707/07 là ove ha ritenuto che l’apposizione del marchio su maglie indossate da squadre professionistiche lasciava presumere la diffusione di capi d’abbigliamento sul mercato, in difetto di ogni minimo principio di prova in tal senso. I due motivi, tra loro strettamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente e gli stessi si rivelano infondati. È certamente corretto, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’assunto della ricorrente secondo cui non costituisce uso effettivo del marchio conforme alla funzione essenziale del marchio l’apposizione su oggetti pubblicitari che mirano a favorire l’acquisto di altri prodotti o a promuovere la vendita di questi ultimi, ma nel caso di specie la Corte d’appello ha accertato sulla base di due documenti 40 e 41 nonché di cataloghi e fatture che la Campagnolo srl aveva concesso a terzi l’utilizzo del proprio marchio per la produzione di capi d’abbigliamento da ciclismo il che corrisponde certamente ad un uso del marchio, sia pure a seguito di concessione di licenza per contraddistinguere prodotti altrui e non propri a prescindere dall’ulteriore aspetto della apposizione sulle maglie dei ciclisti a fini pubblicitari nel corso delle competizioni. Trattasi dunque di una valutazione basata su accertamenti in fatto derivanti dall’esame della documentazione prodotta in giudizio, la cui contestazione da parte della ricorrente dà luogo ad una censura che investe inammissibilmente il merito della decisione. Con il sesto motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 125 c.p.i. laddove la Corte d’appello di Venezia, nella sentenza n. 2188/10, ha condannato la Campagnola s.r.l. al pagamento di un’ingente somma determinata esclusivamente in base all’art. 125.3 c.p.i. che invece non sarebbe stata applicabile nel caso di specie. Non è dubbio che è corretta l’affermazione contenuta nel motivo secondo cui che nel caso di specie non poteva trovare applicazione ratione temporis l’art. 125 c.p.i. bensì l’art. 66 della legge marchi n. 929/42. Nonostante ciò, la decisione è del tutto corretta anche se occorre apportare ad essa le dovute correzioni. Va rammentato che questa Corte ha già affermato in relazione alla previdente normativa che il danno derivante da illeciti in materia di proprietà intellettuale, così come disciplinato dalle diverse norme in relazione ai diversi diritti in materia, costituisce una specificazione della norma generale dell’art. 2043 c.c. per cui la concreta sussistenza di un danno risarcibile va dunque accertata secondo i criteri che governano la responsabilità aquiliana e, quindi, con l’impiego anche di presunzioni ed il ricorso, in ordine alla quantificazione del danno, alla valutazione equitativa, qualora di essa si ravvisino i presupposti. v. Cass. 7971/99 in tema di diritto d’autore . In tale contesto, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, questa Corte, ha già avuto occasione di affermare che, in tema di valutazione del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera dell’ingegno, non è precluso al giudice il potere-dovere di commisurare quest’ultimo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, assumendolo come utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo. Cass. 6251/83 Cass. 3390/03 Cass. 8730/11 v. anche Cass. 12433/08 e Cass. 11353/10 . Non è pertanto dubbio che l’applicazione del criterio in esame da parte della Corte d’appello sia del tutto corretta, ancorché i fatti oggetto del giudizio siano avvenuti in epoca anteriore alla riforma operata dal codice di proprietà intellettuale del 2005, che ha espressamente introdotto al livello normativo la possibilità di liquidare il danno per la violazione delle disposizioni in materia di proprietà industriale sulla base degli utili percepiti dal contraffattore. Ciò è dimostrato anche dal fatto che l’art. 66, comma 2, della legge marchi, applicabile alla fattispecie, prevede anche la possibilità che la sentenza liquidi su istanza di parte il danno sulla base di una somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano. Il che sta anche a significare che il giudice possa liquidare, se ciò risulta dagli atti di causa, il lucro cessante sulla base dei profitti ottenuti dal contraffattore sulla base della presunzione che, se la contraffazione non si fosse verificata, quei profitti sarebbero stati fatti dal titolare del marchio. Il ricorso va in conclusione respinto. La società ricorrente va di conseguenza condannata al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 12.000,00 oltre euro 200,00 per esborsi ed oltre spese forfettarie ed accessori di legge.