Sanzione disciplinare per il notaio che prima partecipa ad un preliminare, poi roga l’atto di vendita

Viola il divieto previsto dall'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, il notaio che, dopo aver concluso, nella veste formale di promissario acquirente, un contratto preliminare di compravendita immobiliare, versando altresì al promittente venditore la pattuita caparra confirmatoria, a mezzo di assegni bancari tratti su conto corrente a lui cointestato, riceva il conseguente atto definitivo di vendita, seppure in quest'ultimo risulti quale parte compratrice un terzo, costituendo tale atto adempimento dell'obbligazione di concludere il negozio traslativo della proprietà, assunta dal notaio stesso nei confronti del venditore in sede di scrittura preliminare, ovvero vicenda estintiva della situazione giuridica obbligatoria scaturente dal contratto preliminare, con conseguente sussistenza di un interesse diretto del notaio alle disposizioni negoziate nel rogito.

La Seconda sezione Civile della Cassazione, con la sentenza n. 25547 depositata 18 dicembre 2015, ha confermato il provvedimento con il quale un notaio era stato disciplinarmente sanzionato con la sospensione di mesi nove per aver rogato un atto di vendita inerente un immobile già oggetto di un preliminare al quale il notaio stesso aveva preso parte. Il caso. Un notaio veniva ritenuto disciplinarmente responsabile, dalla competente Commissione amministrativa regionale di disciplina, per essere intervenuto in un atto di compravendita, oltre che nella veste di notaio rogante, pure quale parte sostanziale del contratto, come dimostrato dal pagamento di gran parte del prezzo di vendita mediante assegni tratti su conto corrente con egli cointestato, figurando quale parte acquirente nell'atto la compagna del notaio, a lui legata in rapporto di coppia genitoriale di due figli. La Commissione ha ritenuto sussistente la violazione del divieto posto dall'articolo 28, n. 3, l. n. 89/1913, applicandogli la sanzione disciplinare della sospensione di mesi nove. Il notaio proponeva reclamo avanti alla Corte d’appello, che però confermava la decisione della Commissione regionale di disciplina. Risultava infatti accertato che il notaio avesse dapprima stipulato in proprio un contratto preliminare di acquisto di un immobile, versando somme a titolo di caparra confirmatoria, e poi rogato l'atto di vendita dello stesso immobile in favore di persona individuata quale sua convivente, nonché madre delle sue due figlie, rimanendo gran parte del corrispettivo pagata dal medesimo notaio rogante con assegni da lui emessi su canto corrente cointestato. Inoltre, risultavano altresì comprovati vari rapporti di natura economico/patrimoniale intrattenuti dal notaio con lo stesso venditore. Seguiva il ricorso per cassazione. La norma di legge assunta come violata l’articolo 28, n. 3, l. n. 89/1913. Il testo della norma di legge ritenuta violata è il seguente Il notaro non può ricevere o autenticare atti se contengano disposizioni che interessino lui stesso, la moglie sua, o alcuno de' suoi parenti od affini nei gradi anzidetti, o persone delle quali egli sia procuratore per l'atto, da stipularsi, salvo che la disposizione si trovi in testamento segreto non scritto dal notaro, o da persona in questo numero menzionata, ed a lui consegnato sigillato dal testatore . Lo scopo della norma tutelare l’imparzialità e la trasparenza dell’attività del notaio. Secondo la Cassazione, l'articolo 28 citato, fa divieto al notaio di ricevere o autenticare atti che contengano disposizioni che interessino lui stesso, la moglie o alcuno dei suoi parenti od affini suoi parenti od affini in linea retta, in qualunque grado, ed in linea collaterale fino al terzo grado, o persone delle quali egli sia procuratore. Tale disposizione è posta a presidio della terzietà del notaio, garantendo la tutela anticipata dell'imparzialità e della trasparenza della sua attività, sicché la valutazione dell'esistenza di un interesse personale del rogante, o degli altri soggetti che sono indicati nella norma, va effettuata ex ante , in termini di mera potenzialità o pericolosità, senza che rilevi se le parti abbiano in concreto ricevuto o meno un danno dall'atto rogato. L’obbligo di imparzialità e le norme deontologiche. La Suprema Corte precisa altresì che l'obbligo di imparzialità del notaio, tale da imporgli di mantenere una posizione di equidistanza rispetto ai diversi interessi delle parti e di ricercarne una regolamentazione equilibrata e non equivoca, viene esplicitato anche nei principi di deontologia professionale emanati dal Consiglio Nazionale del Notariato, ma non si esaurisce, evidentemente, in mero criterio di esercizio della professione notarile, essendo posto dalla legge, piuttosto, quale limite estero della medesima funzione. Il principio di diritto affermato nel caso di specie. Gli Ermellini hanno quindi affermato il principio per cui viola il divieto previsto dall'articolo 28, n. 3, della l. n. 89/13, il notaio che, dopo aver concluso, nella veste formale di promissario acquirente, un contratto preliminare di compravendita immobiliare, versando altresì al promittente venditore la pattuita caparra confirmatoria, a mezzo di assegni bancari tratti su conto corrente a lui cointestato, riceva il conseguente atto definitivo di vendita, seppure in quest'ultimo risulti quale parte compratrice un terzo, costituendo tale atto adempimento dell'obbligazione di concludere il negozio traslativo della proprietà, assunta dal notaio stesso nei confronti del venditore in sede di scrittura preliminare, ovvero vicenda estintiva della situazione giuridica obbligatoria scaturente dal contratto preliminare, con conseguente sussistenza di un interesse diretto del notaio alle disposizioni negoziate nel rogito. La Corte d'appello doveva disporre il mutamento del rito? Risposta negativa della Cassazione. Alle controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai si applica il rito sommario di cognizione. Il notaio aveva chiesto un'istruzione non sommaria nella causa ai fini dell'escussione di alcuni testimoni, la cui ammissione era stata inutilmente richiesta nella memoria depositata nel procedimento amministrativo e rinnovata nel reclamo proposto alla Corte d’appello. Quindi, secondo il notaio ricorrente, la Corte d'appello avrebbe dovuto disporre il mutamento della rito, fissando una apposita udienza ex articolo 183 c.p.c Ma la Corte d' appello sosteneva che il sistema delineato dall'articolo 702- ter c.p.c. impone di reputare che il giudice possa ammettere le sole prove già dedotte dalle parti negli atti introduttivi, mentre, nel caso in esame, risultava difettare la benché minima indicazione ad opera della parte ricorrente di specifiche fonti di prova, sicché neppure astrattamente sarebbe stata ipotizzabile la facoltà di disporre l’acquisizione d'ufficio nell'esercizio dei poteri istruttori concessi al giudice dall'articolo 702- ter , comma 5, c.p.c Secondo la Cassazione l’opzione interpretativa fatta propria dalla Corte d’appello merita condivisione. Infatti, in questa materia, la scelta del rito sommario non è affidata all'iniziativa dell'attore, né sussiste il potere del giudice, biunivocamente correlato a quello di scelta dell'attore, di trasformare il rito ove le difese svolte dalle parti non richiedano un'istruzione sommaria. In definitiva è esclusa per tutti i procedimenti disciplinati dal Capo III del d.lgs. n. 150/2001, la possibilità di conversione del rito sommario di cognizione nel rito ordinario. La peculiarità del rito di impugnazione in materia. Il giudizio della Corte d'appello in sede di reclamo avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina, pur avendo indubbi connotati impugnatori, non è assimilabile all'appello, disciplinato dal codice di procedura civile, sicché non è ad esso applicabile il disposto dell'articolo 345 c.p.c., dovendosi escludere che nella fase amministrativa davanti alla Commissione possano determinarsi preclusioni istruttorie destinate a perpetuarsi nella fase giurisdizionale.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 3 – 18 dicembre 2015, n. 25547 Presidente Oddo – Relatore Scarpa Svolgimento del processo Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa in data 12 febbraio 2013 ha assunto l'iniziativa del procedimento disciplinare nei confronti del notaio T.R. di , in riferimento alla violazione del divieto posto dall'art. 28, n. 2 e n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, essendo il medesimo intervenuto in un atto di compravendita, oltre che nella veste di notaio rogante, pure quale parte sostanziale del contratto, come dimostrato dal pagamento di gran parte del prezzo di vendita, per l'importo di Euro 470.000,00, mediante tre assegni tratti su conto corrente cointestato anche al Notaio T. , figurando quale parte acquirente nell'atto la compagna del notaio, a lui legata in rapporto di coppia genitoriale di due figli. La commissione amministrativa regionale di disciplina della liguria, con decisione dell'8/16 ottobre 2013, ha assolto il Notaio T. dall'addebito di cui all'art. 28, n. 2, legge n. 89/1913, e lo ha invece dichiarato colpevole del fatto addebitatogli riconducibile al divieto di cui all'art. 28, n. 3, legge n. 89/1913, applicandogli la sanzione disciplinare della sospensione di mesi nove ai sensi dell'art. 138, comma 2, della stessa legge n. 89/1913. Contro tale provvedimento il Notaio T. proponeva reclamo ex art. 158, legge 16 febbraio 1913, n. 89, nelle forme previste dall'art. 26, d. lgs. 1 settembre 2011, n. 150, davanti alla Corte d'appello di Genova. In sede di reclamo, il ricorrente assumeva di non aver mai pattuito né tanto meno versato somme proprie per l'operazione negoziale di acquisto a titolo di caparra confirmatoria, richiamando all'uopo le memorie depositate dinanzi alla Commissione Regionale di Disciplina di non essere convivente con la signora acquirente al momento della stipula del rogito, richiamando all'uopo le stesse memorie e le certificazioni anagrafiche prodotte che la menzione nell'atto degli assegni, mediante i quali era stata versata la caparra confirmatoria, derivava soltanto da un obbligo di legge e non influenzava gli interessi delle parti stipulanti che si trattava, comunque, di denaro proprio dell'acquirente che i verbali relativi al procedimento penale non ancora concluso, concernente i rapporti tra lo stesso notaio ed il venditore, non avevano alcuna rilevanza né efficacia probatoria che la sanzione irrogata presupponeva la prova rigorosa degli elementi costitutivi della violazione contestata, mentre il provvedimento impugnato si fondava su illazioni e assunti in parte storicamente errati, e comunque superabili se si fosse dato luogo alla prove dedotte davanti alla Commissione. Con l'impugnata ordinanza n. 535/2015, in data 11 marzo 2015, la Corte d'appello di Genova rigettava il ricorso proposto dal Notaio T. e confermava la decisione resa dalla Commissione Regionale di Disciplina. Osservava la Corte genovese che, in fatto, risultava riscontrato nel procedimento svolto dalla Commissione che il Notaio T. avesse dapprima stipulato in proprio un contratto preliminare di acquisto di un immobile sito in omissis , versando somme a titolo di caparra confirmatoria, e poi rogato l'atto di vendita dello stesso immobile in favore di persona individuata quale sua convivente, nonché madre delle sue due figlie, rimanendo gran parte del corrispettivo pagata dal medesimo notaio rogante con assegni da lui emessi su canto corrente cointestato. Tra gli elementi che la Corte d'appello dava per acclarati dalla Commissione vi erano altresì i vari rapporti di natura economico/patrimoniale intrattenuti dal notaio con lo stesso venditore, rapporti evincibili dai verbali allegati alla richiesta di procedimento promossa dalla Procura della Repubblica. In tal senso, ad avviso della Corte di Genova, la decisione della Commissione Regionale di Disciplina appariva conforme alla corretta esegesi del contestato art. 28, n. 3, legge n. 89/1913. In particolare, nell'ordinanza dell'11 marzo 2015, la Corte ligure ravvisava la comprovata sussistenza dell'interesse del notaio T. all'atto di vendita rogato nella preventiva stipulazione da parte sua del contratto preliminare e nell'emissione degli assegni, avversando le considerazioni del reclamante, il quale aveva affermato di non aver mai pattuito in proprio né tantomeno versato somme proprie a titolo di caparra confirmatoria per il contratto preliminare nelle memorie depositate nel procedimento disciplinare e nelle prove ivi dedotte. Secondo la Corte genovese, piuttosto, il materiale probatorio esaminato dalla Commissione di Disciplina, consistente in evidenze di natura documentale, risultava compiutamente idoneo a dimostrare il fondamento della responsabilità disciplinare del notaio in ordine alla violazione del divieto previsto dall'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89. Viepiù, l'ordinanza della Corte d'appello evidenziava come incombesse al notaio ricorrente l'onere probatorio relativo ai fatti impeditivi dallo stesso affermati per contrastare la realtà documentale, laddove egli si era limitato ad invocare il contenuto di memorie difensive, genericamente indicate come depositate nel procedimento svoltosi dinanzi alla Commissione, a richiamare i documenti ad esse asseritamente allegati alle predette memorie e a richiedere l'espletamento di prove, verosimilmente costituende, ivi dedotte, senza, peraltro, effettuare produzioni in una al ricorso. Siffatta inerzia assertiva della parte reclamante veniva intesa dalla Corte d'Appello di Genova come preclusiva di qualsiasi integrazione o rimessione in termini. Tanto essendo le controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai regolate dal rito sommario di cognizione agli effetti dell'art. 702 bis c.p.c., il quale, nell'elencare i requisisti necessari del ricorso, richiama espressamente l'art. 163, comma 3, n. 5 c.p.c., disposizione che richiede l'indicazione specifica dei mezzi di prova come contenuto dell'atto di citazione. Affermava la Corte genovese che, a differenza di quanto avvenga nel giudizio ordinario di cognizione e nel rito del lavoro, nel procedimento di cognizione sommaria ciò segna una preclusione perentoria, pur non essendo richiesta dalla legge l'indicazione dei mezzi istruttori a pena di decadenza. L'ordinanza della Corte d'appello sosteneva che il sistema delineato dall'art. 702 ter c.p.c. impone di reputare che il giudice possa ammettere le sole prove già dedotte dalle parti negli atti introduttivi, mentre, nel caso in esame, risultava difettare la benché minima indicazione ad opera della parte ricorrente di specifiche fonti di prova, sicché neppure astrattamente sarebbe stata ipotizzabile la facoltà di disporne l'acquisizione d'ufficio nell'esercizio dei poteri istruttori concessi al giudice dall'art. 702 ter, comma 5, c.p.c Avverso l'ordinanza della Corte d'appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione T.R. , articolato su tre motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. Il ricorrente ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 702 ter, commi 3 e 5, c.p.c In particolare, stante l'estensione del rito sommario di cognizione alle controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai, operata dall'art. 26 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, si imporrebbe, ad avviso dello stesso ricorrente, un coordinamento della normativa del codice di rito con la natura disciplinare del procedimento ex art. 26 d. lgs. 150/2011, mentre la Corte d'appello di Genova avrebbe operato in base al comma 5 dell'art. 702 ter in luogo del comma 3 di tale norma ciò perché le difese del ricorrente avrebbero richiesto un'istruzione non sommaria della causa ai fini dell'escussione dei testimoni Direttore della Banca Popolare di Vicenza, S.S. e B.D. , la cui ammissione era stata inutilmente richiesta nella memoria depositata nel procedimento amministrativo e rinnovata nel reclamo proposto alla Corte d'Appello di Genova. In questo modo, deduce il ricorrente, gli sarebbe stato impedito di dimostrare l'insussistenza della presunta violazione e l'inesistenza dell'illecito disciplinare a lui contestato, non essendogli stato concesso, né in sede amministrativa né nell'impugnazione giurisdizionale, di sviluppare le proprie difese e di provare i fatti decisivi ai fini del giudizio. Si sostiene nel primo motivo di gravame che i canoni della logica e del buon senso avrebbero imposto la fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c., ai sensi dell'art. 702 ter comma 3, c.p.c., ed il mutamento di rito al fine di escutere i testi indicati. Inoltre, i giudici genovesi avrebbero illegittimamente ed immotivatamente respinto la richiesta del ricorrente di acquisizione d'ufficio ed esame delle memorie depositate in fase amministrativa ed espressamente richiamate del reclamo. D'altro canto, continua il ricorrente, l'onere della prova della violazione disciplinare deve incombere sull'accusa, mentre la Corte d'appello avrebbe ritenuto sussistere i fatti costitutivi del presunto illecito soltanto richiamando la documentazione prodotta dalla Procura della Repubblica di Massa nel procedimento amministrativo, senza aver nemmeno acquisito, né perciò visionato, il relativo fascicolo d'ufficio. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Costituzione, avendo l'impugnato provvedimento della Corte genovese respinto immotivatamente le richieste istruttorie del reclamante. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta ancora la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 28, n. 3, legge n. 89/1913, essendo il medesimo notaio rimasto terzo rispetto all'atto di compravendita rogato, in quanto il corrispettivo versato trarrebbe origine da un conto corrente su cui era confluito interamente denaro proveniente dall'alienazione di un bene di proprietà esclusiva dell'effettiva acquirente B. , e non esistendo al momento del rogito alcun suo vincolo di coniugio né di convivenza con quest'ultima, né alcun conflitto d'interessi che potesse rendere irricevibile l'atto. Neppure rileverebbe ai fini della contestata violazione disciplinare un interesse del notaio morale ed affettivo quale, nella specie, il legame genitoriale corrente con la B. , astratto ed ideale, occorrendo per contro un interesse economico e negoziale. Il primo motivo di ricorso è infondato. Com'è noto, ai sensi dell'art. 26 del d. lgs. n. 150/2011, le controversie in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari e quelle in materia di impugnazione delle misure cautelari, rispettivamente previste dagli articoli 158 e 158-novies della legge 16 febbraio 1913, n. 89, sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dallo stesso articolo. L'art. 158 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come modificato dallo stesso d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, stabilisce, infatti, che le decisioni della Commissione amministrativa regionale di disciplina possono essere impugnate in sede giurisdizionale, anche dalle parti intervenute ai sensi dell'articolo 156-bis, comma 5, della legge n. 89 del 1913, e, in ogni caso, dal Procuratore della Repubblica competente per l'esercizio dell'azione disciplinare. Sul reclamo è chiamata a pronunciarsi la corte di appello del distretto nel quale ha sede la Commissione amministrativa regionale di disciplina che ha pronunciato il provvedimento impugnato. Il ricorso avverso il provvedimento disciplinare va proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla notificazione della decisione, a cura della parte interessata o, in difetto, nel termine di sei mesi dal suo deposito e va notificato, con il decreto di fissazione dell'udienza, alle parti intervenute e al procuratore della Repubblica competente e non anche alla Commissione Regionale di Disciplina . Si tratta, quindi, di un giudizio di impugnazione regolato, però, dagli artt. 702 bis e segg. c.p.c., dettati di regola per il procedimento sommario di primo grado. Si è così già spiegato da questa Corte che il giudizio della corte d'appello in sede di reclamo avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina, pur avendo indubbi connotati impugnatori, non è assimilabile all'appello, disciplinato dal codice di procedura civile, sicché non è ad esso applicabile il disposto dell'art. 345 c.p.c., dovendosi escludere che nella fase amministrativa davanti alla Commissione possano determinarsi preclusioni istruttorie destinate a perpetuarsi nella fase giurisdizionale Cass. 23 gennaio 2014, n. 1437 . In particolare, l'art. 3 del d.lgs. n. 150/2011, afferma esplicitamente che, nelle controversie disciplinate dal Capo III di tale Decreto legislativo tra le quali rientrano, appunto, pure quelle di impugnazione dei provvedimenti disciplinari a carico dei notai non si applicano i commi secondo e terzo dell'articolo 702-ter del codice di procedura civile, pur restando il procedimento, al di là di tale deroga espressa, ove sia competente la corte di appello in primo grado, regolato dagli articoli 702-bis e 702-ter del codice di procedura civile. In tali ipotesi, la scelta del rito sommario non è, dunque, come nel modello base introdotto col capo III-bis del codice di procedura civile dall'art. 51 della legge 18 giugno 2009, n. 69, affidata all'iniziativa dell'attore, né sussiste il potere del giudice, biunivocamente correlato a quello di scelta dell'attore, di trasformare il rito ove le difese svolte dalle parti non richiedano un'istruzione sommaria, fissando il prosieguo con l'udienza ex art. 183 c.p.c E esclusa, in ossequio al criterio di delega previsto dall'art. 54, comma 4, lett. b , n. 2 , l. n. 69/2009, per tutti i procedimenti disciplinati dal Capo III del d.lgs. n. 150/2001, la possibilità di conversione del rito sommario di cognizione nel rito ordinario solo laddove sia promossa nella forma del procedimento sommario una controversia diversa da quelle elencate sub artt. 14 e segg. del decreto delegato, trova riscontro l'art. 4 di esso sul mutamento del rito. Questa opzione legislativa in favore del procedimento sommario, in luogo del previgente rito camerale, non sembra, tuttavia, comprimere le facoltà difensive delle parti. Stante l'impossibilità normativa di procedere alla conversione del rito da sommario in ordinario, il giudice dovrà provvedere comunque allo svolgimento dell'istruttoria, anche se sia non sommaria , nelle forme libere previste dall'art. 702-ter, comma 5, c.p.c. Ma è da ritenere - ed in ciò va corretta la motivazione della Corte d'appello di Genova, ai sensi dell'art. 384, comma 4, c.p.c. - che tali forme, proprie del procedimento sommario, ed in particolare i commi 1 e 4 dell'art. 702 bis c.p.c., i quali prescrivono, rispettivamente, che il ricorso e la comparsa di risposta contengano, fra l'altro, l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali attore e convenuto intendano avvalersi, come dei documenti offerti in comunicazione, non valgono a segnare alcuna preclusione istruttoria, e quindi non comportano, in caso di omissione, alcuna decadenza. Al pari che nel rito ordinario, ove non è prevista nessuna immediata decadenza per la mancata indicazione dei mezzi di prova negli atti introduttivi del giudizio, stante le ulteriori facoltà di deduzioni istruttorie consentite nella fase della trattazione Cass. 15 luglio 2011, n. 15691 Cass. 10 gennaio 2012, n. 81 , nemmeno l'art. 702 bis c.p.c. sancisce, infatti, alcuna preclusione istruttoria, dovendosi al più argomentare sul piano logico che una compiuta articolazione probatoria, operata già in sede di ricorso e di comparsa di risposta, occorra perché il giudice possa consapevolmente adoperare in udienza l'eventuale potere di conversione del rito e di fissazione dell'udienza ex art. 183 c.p.c Questa scansione, collegata alla ponderazione dell'eventuale non sommarietà dell'istruzione, ai fini dell'art. 702 ter, comma 3, c.p.c., porta ad individuare in maniera da non accedere alla tesi estrema, secondo cui attore e convenuto sono liberi di svolgere nuove attività, istanze e produzioni per l'intero corso del procedimento e sino a che la causa non passi in decisione proprio nella pronuncia della relativa ordinanza la barriera processuale che impedisce alle parti la formulazione di nuove richieste istruttorie. Ancor meno agevolmente appare allora ravvisabile un momento preclusivo per le deduzioni probatorie con riguardo alle controversie trattate con il rito sommario elencate nel Capo III del d.lgs. n. 150/2011, in quanto ad esse neppure si applica il comma terzo dell'articolo 702-ter del codice di procedura civile. Nondimeno, l'infondatezza del primo motivo di ricorso deriva dal fatto che il ricorrente si sia con esso limitato a denunciare la mancata ammissione di prove testimoniali e il difetto di acquisizione del fascicolo d'ufficio della fase svolta davanti alla Commissione Regionale di Disciplina, ma non ha affatto indicato specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova che si assume negata, al fine di consentire anche a questa Corte il controllo della decisi vita dei fatti da provare, ovvero dell'astratta idoneità degli stessi a dimostrare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, elementi tali da invalidare l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito. Né d'altro canto risulta che tale necessaria specifica indicazione dei fatti su cui interrogare i testimoni fosse stata formulata nella domanda di reclamo ex art. 158 della legge 16 febbraio 1913, n. 89, come nel corso successivo del relativo procedimento, il quale comunque impone che debbano essere sommariamente esposte le circostanze sulle quali le parti intervenute intendono che i testimoni siano esaminati. Correttamente, pertanto, la Corte d'Appello di Genova ha ritenuto che la prova dell'addebito contestato al Notaio T. , posta a carico del Procuratore della Repubblica che aveva promosso il procedimento, risultasse supportata dall'allegata documentazione, mentre non era stata specificamente dedotta, e perciò data prova alcuna dall'incolpato delle sue difese volte a negare la circostanza di aver pattuito in proprio e di aver versato la caparra con riguardo al preliminare. Né è censurabile il mancato esercizio da parte della Corte genovese dei poteri istruttori concessi al giudice dall'art. 702 ter, comma 5, c.p.c. in quanto espressione di una ponderata valutazione discrezionale, insindacabile in questa sede giacché sorretta da motivazione esente da vizi di logica giuridica, tenuto conto che tale norma non depone affatto per un superamento o un'attenuazione, nell'ambito del procedimento sommario, dell'onere della prova, come del principio di disponibilità delle prove, in favore di potestà inquisitorie tali da sopperire pure alle lacune deduttive dei contendenti Cass. 25 febbraio 2014, n. 4485 . Le argomentazioni appena prescelte conclamano l'infondatezza anche del secondo motivo di ricorso, legato alla presunta violazione degli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Costituzione, sempre quanto al rigetto delle istanze istruttorie addebitato alla Corte genovese. Come detto, in difetto di una circostanziata deduzione probatoria ad opera dell'incolpato notaio reclamante, la Corte d'Appello ha deciso l'impugnazione sulla base delle prove documentali offerte dall'organo che ha promosso il procedimento disciplinare, senza alcun sacrificio del diritto di difesa e contraddittorio del ricorrente. Né induce a diversa considerazione, quanto alla lamentata violazione degli artt. 24, comma 2, e 111, comma 2, Cost., il fatto che, trattandosi di procedimento sottoposto al rito sommario agli effetti del d.lgs. n. 150/2011, per esso non opera affatto per legge la facoltà giudiziale di trasformazione del rito in ordinario ex art. 702-ter, comma 3, c.p.c., giacché, in concreto, l'attuale ricorrente non risulta avesse svolto alcuna difesa davanti alla Corte d'appello di Genova tale da richiedere un'istruzione non sommaria. Altresì infondato è il terzo motivo di ricorso. L'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, fa divieto al notaio di ricevere o autenticare atti che contengano disposizioni che interessino lui stesso, la moglie o alcuno dei suoi parenti od affini suoi parenti od affini in linea retta, in qualunque grado, ed in linea collaterale fino al terzo grado, o persone delle quali egli sia procuratore. Nell'elaborazione di questa Corte si è affermato come tale disposizione sia posta a presidio della terzietà del notaio, garantendo la tutela anticipata dell'imparzialità e della trasparenza della sua attività, sicché la valutazione dell'esistenza di un interesse personale del rogante, o degli altri soggetti che sono indicati nella norma, va effettuata ex ante , in termini di mera potenzialità o pericolosità, senza che rilevi se le parti abbiano in concreto ricevuto o meno un danno dall'atto rogato Cass. 29 novembre 2013, n. 26848 Cass. 23 maggio 2001, n. 7028 Cass. 1 settembre 2000, n. 11497 . La difficoltà di interpretazione dell'art. 28, n. 3, della Legge notarile è evidentemente collegata proprio alla portata della nozione di interesse” che leghi il notaio alle disposizioni contenute nell'atto da stipularsi a suo ministero. L'obbligo di imparzialità del notaio, tale da imporgli di mantenere una posizione di equidistanza rispetto ai diversi interessi delle parti e di ricercarne una regolamentazione equilibrata e non equivoca, viene esplicitato anche nei Principi di deontologia professionale emanati dal Consiglio Nazionale del Notariato, ma non si esaurisce, evidentemente, in mero criterio di esercizio della professione notarile, essendo posto dalla legge, piuttosto, quale limite esterno della medesima funzione. Le elaborazioni dottrinali hanno per lo più prescelto un'ampia accezione del concetto di interesse”, al punto da comprendervi l'interesse materiale, l'interesse soltanto morale, l'interesse diretto negoziato nell'atto come quello indiretto, l'interesse anche potenziale all'atto, il collegamento con situazioni esterne allo stesso, l'inerenza al notaio delle disposizioni da stipulare pure non in termini di necessario vantaggio per il professionista. Deve, in ogni caso, trattarsi di interesse sussistente, e perciò da verificare, al momento dell'atto, traducendosi in motivo di irricevibilità dello stesso e deve altresì essere interesse risultante dall'atto, sicché l'art. 28, n. 3, Legge notarile, può dirsi violato quando le disposizioni negoziali recate dal rogito coinvolgano il notaio o i suoi parenti e affini nei gradi contemplati. Ora, è per questo da ritenere che viola il divieto previsto dall'art. 28, n. 3, della legge 16 febbraio 1913, n. 89, il notaio che, dopo aver concluso, nella veste formale di promissario acquirente, un contratto preliminare di compravendita immobiliare, versando altresì al promittente venditore la pattuita caparra confirmatoria, a mezzo di assegni bancari tratti su conto corrente a lui cointestato, riceva il conseguente atto definitivo di vendita, seppure in quest'ultimo risulti quale parte compratrice un terzo, costituendo tale atto adempimento dell'obbligazione di concludere il negozio traslativo della proprietà, assunta dal notaio stesso nei confronti del venditore in sede di scrittura preliminare, ovvero vicenda estintiva della situazione giuridica obbligatoria scaturente dal contratto preliminare, con conseguente sussistenza di un interesse diretto del notaio alle disposizioni negoziate nel rogito. In tal senso, è irrilevante accertare, in base ai rapporti interni esistenti tra i due correntisti del conto corrente cointestato, se la somma versata al promittente venditore a titolo di caparra dal notaio, promissario acquirente, con assegni da lui emessi, fosse di pertinenza soltanto dell'altro correntista, poi costituitosi come compratore nel contratto definitivo di vendita. Così come irrilevante è stabilire se esistesse, al momento del rogito, rapporto di convivenza tra il medesimo notaio, promissario acquirente, e la parte compratrice nell'atto di vendita. Consegue in definitiva il rigetto del ricorso. Non deve adottarsi alcun provvedimento sulle spese processuali, in considerazione del mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati. Essendo l'impugnazione respinta integralmente, sussistono i presupposti dell'obbligo di versamento per il ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato a norma dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.