Nessun rimborso delle spese legali da parte della PA se il dipendente assolto ha agito per fini privati

L’amministrazione è legittimata a contribuire ex art. 18 d.l. n. 67/1997 alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale, sempreché sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse deve individuarsi qualora l’oggetto dell’imputazione sia in diretta connessione con i fini della pubblica amministrazione.

La Cassazione, con la sentenza n. 24480/2013, depositata il 30 ottobre scorso, affronta il tema del rimborso, ex art. 18 d.l. n. 67/1997, delle spese legali sostenute in relazione ad un procedimento penale da parte di un dipendente pubblico per fatti connessi all’espletamento del servizio. Rimborso delle spese di patrocinio legale. L’art. 18, del citato decreto, rubricato Rimborso delle spese di patrocinio legale , dispone che Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità . Secondo la giurisprudenza amministrativa T.A.R. Sicilia, n. 128/2005 , la ratio della norma in esame risiede nel principio generale per cui il dipendente pubblico, ingiustamente sottoposto a giudizio per fatti commessi nell’adempimento dei doveri di servizio, deve andare esente dalle conseguenze economiche del proprio operato, purché non sussista un conflitto di interessi con la P.A. locupletatio cum aliena iactura . Cosicché, il diritto al rimborso costituisce l’estrinsecazione del diritto di difesa, ed è volto a tutelare, non solo l’interesse personale del dipendente pubblico andato assolto, ma anche l’immagine della P.A. di appartenenza e per la quale questi ha agito T.A.R. Sicilia Palermo, I, n. 2141/2004 . A dire il vero, come evidenziato dal Consiglio di Stato, con la sentenza 11 aprile 2007, n. 2007, anche prima dell'entrata in vigore della suddetta disposizione esisteva un principio generale di rimborsabilità delle spese legali sopportate dal dipendente assolto da un giudizio di responsabilità occorsogli per ragioni di servizio. La fonte normativa era rintracciata dalla dottrina nella regola civilistica di cui all'art. 1720, comma 2, c.c., dettata in tema di rapporti fra mandante e mandatario, secondo la quale il mandatario ha diritto ad esigere dal mandante il risarcimento dei danni subiti a causa dell'incarico. Il caso. Un dipendente pubblico conveniva in giudizio il Ministero della Pubblica Istruzione chiedendo il rimborso ex art. 18 d.l. n. 67/1997 delle spese legali sostenute per difendersi in un processo penale svoltosi nei suoi confronti. I capi di imputazione per cui era andato assolto erano reati di falso e peculato quest’ultimo poi modificato in abuso d’ufficio patrimoniale . Il Ministero convenuto si era difeso eccependo l’insussistenza di uno dei presupposti per l’applicazione dell’art. 18 del citato decreto, ritenendo i fatti contestati nel procedimento penale non connessi con l’espletamento del servizio o l’assolvimento di obblighi istituzionali da parte dell’attore. Questi, infatti, avrebbe costretto, in orario di ufficio, alcuni dipendenti della P.A. di appartenenza ad effettuare un trasloco dei mobili dalla sua abitazione, falsificando il registro delle presenze del personale. Deduceva, altresì, come parte attrice non avesse mai provato alcun pagamento di spese legali, oltre a non aver mai sottoposto la parcella del proprio difensore al prescritto parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato. Il Tribunale respingeva la domanda. Anche in secondo grado la Corte d’Appello riteneva infondate le richieste formulate dal pubblico dipendente che ricorreva così in Cassazione. Violazione dei doveri di buona fede e correttezza? Il ricorrente deduce, innanzi tutto, l’errata interpretazione da parte del giudice di seconde cure dell’art. 18 d.l. n. 67/1997, per aver il Ministero ammesso l’ an debeatur con comportamenti concludenti antecedenti alla costituzione in giudizio. Comportamento poi modificato nel corso del processo con violazione dei doveri di buona fede e correttezza. Si lamenta altresì per non aver la Corte d’Appello valorizzato la circostanza che l’imputazione avesse ad oggetto reati propri falso materiale e abuso d’ufficio , ossia riferibili esclusivamente ad un pubblico amministratore ed al suo rapporto di servizio con la P.A I fatti sono riconducibili alla sfera privata del ricorrente e non ad un rapporto di servizio. Gli Ermellini rigettano il ricorso, bollando come oscuri e palesemente infondati i motivi dello stesso. L’attività svolta dal ricorrente, per cui è stato processato in sede penale e poi prosciolto, infatti, non può essere assolutamente imputata alla P.A Si è trattato, a bene vedere, di fatti riconducibili alla sua sfera privata e non già ad un rapporto di servizio. Come detto, l’amministrazione può rimborsare le spese legali ex art. 18 d.l. n. 67/1997 sempreché sussista un suo interesse specifico a tal riguardo. Tale interesse sussiste solo quando il capo di imputazione del pubblico dipendente sia in diretta connessione con l’attività ed i fini istituzionali della P.A. presso cui è assunto. Concludendo. Nel caso di specie, invece, questo presupposto oggettivo è totalmente carente, avendo perseguito il ricorrente un utile privato, dove anzi sussiste, almeno in astratto, addirittura un interesse contrario della P.A. a sanzionare siffatte condotte abusive. Ne consegue, in definitiva che, perseguendo il dipendente un interesse proprio ed egoistico, viene a mancare uno dei presupposti previsti dalla vigente normativa per la corresponsione al medesimo degli oneri legali sostenuti in un eventuale giudizio di responsabilità. Trattasi, pertanto, di una sentenza meramente confermativa dell'orientamento interpretativo già emerso e consolidato sulla precipua questione e ricognitiva del relativo principio generale.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 4 luglio – 30 ottobre 2013, n. 24480 Presidente Carnevale – Relatore Bisogni Fatto e diritto Rilevato che 1. A O. ha chiesto con citazione davanti al Tribunale di Cagliari la condanna del Ministero della Pubblica Istruzione al rimborso ex art. 18 del D.L. n. 67/1997 delle spese legali sostenute per difendersi nel processo penale celebrato nei suoi confronti, per i reati di falso e peculato, che si era concluso con assoluzione in primo grado dall'imputazione di falso e assoluzione in cassazione per il reato di abuso di ufficio non patrimoniale, cosi modificata l'originaria imputazione di peculato, perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato. 2. Si è costituito il Ministero e ha chiesto il rigetto della domanda perché i fatti contestati nel procedimento penale non erano connessi con l'espletamento del servizio o l'assolvimento di obblighi istituzionali da parte dell'O. responsabile amministrativo presso l'Istituto professionale per l'industria e l'artigianato di Alghero che avrebbe costretto, in orario di ufficio, alcuni dipendenti dell'Istituto a effettuare il trasloco dei mobili della sua abitazione falsificando il registro delle presenze del personale , non era mai intervenuta una sentenza che escludesse la commissione dei fatti, l'O. non aveva provato il pagamento delle spese legali né la sottoposizione della parcella al parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato. 3. Il Tribunale di Cagliari ha respinto la domanda e la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado. 4. Ricorre per cassazione A O. affidandosi a nove motivi di impugnazione. 5. Si difende con controricorso il Ministero. Ritenuto che 6. Con il primo motivo di ricorso si deduce la mancata assunzione di una prova decisiva la nota dell'Avvocatura Generale dello Stato n. 113889 del 7 novembre 2011 sull'erroneo presupposto della sua tardiva produzione in giudizio. 7. Il motivo è infondato perché la Corte di appello ha preso in considerazione il contenuto del documento e non lo ha ritenuto qualificabile come parere di congruità ai fini dell'applicabilità dell'art. 18 del D.L. n. 67/1997 convertito in L. n. 135/1997. 8. Con il secondo motivo di ricorso si deduce extrapetizione riconducibile all'art. 112 c.p.c. in quanto sulla base della posizione assunta dall'Avvocatura si doveva ritenere pacificamente riconosciuto l' an debeatur e quindi non chiamata la Corte di appello a pronunciarsi sull'applicabilità della normativa indicata. 9. Il motivo, oltre ad essere stato formulato in modo ambiguo e non autosufficiente quanto al contenuto del parere dell'Avvocatura e alla indicazione della sede processuale in cui esso sarebbe stato prodotto, è palesemente infondato, non potendo il parere vincolare in alcun modo il contenuto della decisione dei giudici di merito sulla questione, peraltro costituente motivo di impugnazione, della applicabilità del citato art. 18 alla fattispecie in esame. 10. Con il terzo motivo di ricorso si deduce omessa pronuncia riconducibile all'art. 112 c.p.c., relativamente alla correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione pecuniaria sub specie di contraddittorietà tra comportamenti antecedenti ammissione del debito e comportamento successivi resistenza in giudizio sul presupposto dell'insussistenza del debito . 11. Il motivo non specifica se e quando tale questione sia stata posta nel giudizio di merito. Si tratta in ogni caso di una questione del tutto infondata dato che l'Amministrazione era libera di assumere la posizione processuale ritenuta corrispondente a diritto in merito alla questione della sussistenza dei presupposti per l'applicazione dell'art. 18 in favore dell'odierno ricorrente. 12. Con il quarto motivo di ricorso si deduce la inidoneità del canone logico del giudizio fatto controverso per il giudizio e violazione di norma di diritto sostanziale. Il ricorrente ritiene che il giudizio richiesto alla Corte di appello era finalizzato a una valutazione complessiva del comportamento amministrativo e come tale rendeva insostenibile il rilievo della genericità della censura effettuato dalla Corte di appello peraltro a fronte di produzioni documentali tempestive e piena disponibilità dei fascicoli d'ufficio di primo grado. Ritiene inoltre che sia illogica la valutazione di genericità effettuata dalla Corte di appello delle difese dell'odierno ricorrente, quanto alla mancata prova del pagamento delle spese legali, difese che, secondo la Corte di appello, si sono limitate a richiamare genericamente l'art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 senza spiegare il significato di tale richiamo in relazione alla previsione dell'art. 18 del D.L. n. 67/1997. Secondo il ricorrente tale richiamo valeva e doveva essere interpretato come giustificativo della mancata produzione delle fatture in quanto rilasciabili in base alla disposizione normativa richiamata solo al saldo. 13. Il motivo oltre ad essere stato formulato in modo del tutto oscuro, relativa alla sua prima parte, non indica chiaramente quale violazione di legge né quale incongruenza logica della motivazione intenda censurare. Si ribadisce comunque che l'Amministrazione, sentita l'Avvocatura, ha assunto la posizione che ha ritenuto corrispondente a diritto e l'ha prospettata nel corso del giudizio. Non si vede quindi come possa censurarsi la decisione dei giudici di appello facendo genericamente riferimento a una prospettata richiesta di valutazione del comportamento complessivo dell'amministrazione. Quanto alla mancata prova del pagamento delle fatture la Corte di appello ha rilevato che sul punto l'appellante non ha censurato la decisione di primo grado. Il richiamo dell'art. 21 del D.P.R. n. 633/1972 deve ritenersi del tutto fuor di luogo a fronte di una disposizione quale l'art. 18 del D.L. n. 67/1997 che richiede la prova del pagamento delle somme di cui si chiede il rimborso. Prova che il giudice di primo ha riscontrato non essere stata fornita e che l'appellante non ha dedotto di aver dato. 14. Con il quinto motivo di ricorso si deduce genericamente la violazione di norme sostanziali e si trae la conclusione che, prevedendo l'art. 18 la possibilità per l'amministrazione di concedere anticipazione del rimborso, egli non fosse tenuto a dimostrare in giudizio con l'esibizione di fattura quietanzata l'avvenuto pagamento delle spese processuali rispetto alle quali ha chiesto l'accertamento del diritto al rimborso. 15. La tesi del ricorrente è palesemente infondata. Non può infatti dedursi da una possibilità di anticipazione riservata alla valutazione discrezionale della amministrazione la deroga generale al regime probatorio delle spese per le quali si agisce al fine di ottenerne il rimborso che è insito nella natura stessa di rimborso della previsione normativa. Alla dimostrazione del pagamento è del resto subordinata la valutazione dell'Avvocatura generale dello Stato che infatti non è stata resa nel caso in esame. 16. Con il sesto motivo si deduce vizio logico della decisione e motivazione dato che la Corte di appello nonostante avesse constatato l'assoluzione del ricorrente dal reato di falso perché il fatto non sussiste quanto ad alcuni dei fatti contestati e per non aver commesso il fatto quanto ad altri non ha accolto la domanda. 17. Con il settimo motivo di ricorso si deduce un ulteriore vizio logico che colpisce la parte della motivazione con cui la Corte di appello afferma che obiettivamente l'imputazione e l'accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze di merito, esclude l'esistenza di qualsiasi collegamento tra l'espletamento del servizio da parte dell'O. e il fatto oggetto dell'imputazione senza tenere invece conto dei titoli dei reati per cui il ricorrente fu processato in particolare falso materiale e abuso di ufficio e che attribuiscono la qualificazione di reati propri del pubblico amministratore. 18. I due motivi, che possono essere esaminati unitariamente per la loro stretta connessione, si fondano su una erronea interpretazione dell'art. 18 del D.L. n. 67/1997. Va premesso che le imputazioni, come trascritte dalla Corte di appello nella motivazione, riguardavano il fatto dell'appropriazione delle energie lavorative di alcuni collaboratori, nel periodo in cui l'O. svolgeva l'incarico di coordinatore amministrativo dell'Istituto Professionale per l'Industria e l'Artigianato di Alghero, che vennero destinate dall'O. all'effettuazione durante l'orario di servizio di un suo trasloco privato. Venne altresì contestato all'O. di aver corretto, nell'esecuzione di un medesimo disegno criminoso, i registri di presenza del personale non docente alterando gli orari di entrata e uscita. Secondo la Corte di appello le imputazioni escludevano qualsiasi collegamento fra i fatti contestati e l'espletamento del servizio da parte dell'O. e individuavano un abuso della qualità di coordinatore amministrativo al fine di effettuare e utilizzare un'attività del tutto estranea al rapporto di servizio. Non essendo l'attività imputabile all'amministrazione essa non poteva dare luogo al rimborso delle spese legali in quanto esclusivamente attinente alla sfera privata del soggetto e estranea al rapporto di servizio. 19. L'interpretazione concorde dei giudici di merito è corretta in quanto è stato ritenuto che l'amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale sempreché sussista un interesse specifico dell'amministrazione al riguardo e tale interesse deve individuarsi qualora sussista imputabilità dell'attività che costituisce l'oggetto dell'imputazione all'amministrazione e una diretta connessione dell'attività stessa con i fini della pubblica amministrazione. Elementi palesemente mancanti nella fattispecie in esame in cui veniva contestata all'O. la violazione di doveri del suo ufficio al fine di perseguire un utile privato e indebito mediante lo sviamento a fini propri di risorse da destinare allo svolgimento delle attività istituzionali. Un'ipotesi in cui sussiste, al contrario, l'interesse dell'amministrazione a veder sanzionate le eventuali attività abusive compiute dal soggetto svolgente un servizio alle sue dipendenze. 20. Con l'ottavo motivo di ricorso si deduce un'ulteriore inidoneità del canone logico di giudizio rilevando che la Corte di appello ha ritenuto che il fatto materiale contestato in sede penale sia stato incontestabilmente accertato mentre li accertamento compiuto in sede penale e più pienamente in sede disciplinare ha portato ad affermare che il comportamento addebitato all'O. non aveva comportato alcuno sviamento di personale ma solo l'espletamento del diritto ad avvalersi di un orario flessibile consolidato nella prassi dell'ufficio. 21. Le deduzioni del ricorrente sono irrilevanti ai fini della decisione perché il fatto della assoluzione dell'O. è incontroverso ma non ha alcuna incidenza rispetto al giudizio di non attribuibilità all'amministrazione dell'attività in contestazione e di irriconducibilità ai suoi fini istituzionali. 22. Infine con il nono motivo di ricorso si contesta nuovamente l'inidoneità del canone logico di giudizio. Il ricorrente ritiene che in relazione alla complessità della fattispecie e alla criticabilità del comportamento dell'amministrazione dovesse pervenirsi perlomeno a una compensazione delle spese processuali. 23. Il motivo è inammissibile. La Corte di appello ha applicato il principio legale della soccombenza e una valutazione sulla possibilità e opportunità di una compensazione delle spese processuali di merito è del tutto preclusa in questa sede. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 4.000 oltre spese prenotate a debito.