Sostengono che la casa sia del figlio minorenne: per il giudizio non serve l’autorizzazione del giudice tutelare

L’intervento del magistrato è necessario soltanto per promuovere giudizi relativi ad atti di straordinaria amministrazione e non per quelli diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già del patrimonio del minore.

L’autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria soltanto per promuovere giudizi relativi ad atti di straordinaria amministrazione – che possono, cioè, arrecare pregiudizio e diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già del patrimonio del minore. Questo l’importante principio espresso dalla Seconda sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 743/12 depositata il 13 gennaio scorso, confermando, sul punto, la soluzione adottata in precedenti decisioni. Un immobile conteso. All’origine della sentenza in commento, vi è l’azione giudiziaria avviata per ottenere il riconoscimento, con ogni conseguenza di legge, anche relativamente alla trascrizione, della validità di una scrittura privata con la quale era stata disposta la vendita di un appartamento. La peculiarità della vicenda risiedeva nel fatto che, nel corso di causa, spiegavano intervento volontario i genitori di un minore, i quali rivendicavano, in capo al figlio, la titolarità dell’immobile contestato in forza di successione ereditaria e la contestuale invalidità della scrittura privata alla base dell’avviata azione. Rigettata la domanda in primo grado, ma accolta in secondo, la Cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla validità e l’efficacia dell’intervento spiegato, nel giudizio davanti al Tribunale, dai genitori del minore e sui riflessi di tale intervento nell’economia e nello svolgimento del giudizio. Ruolo e funzioni del Giudice tutelare. Il Giudice tutelare è quel magistrato al quale sono affidate diverse funzioni in materia di tutela delle persone, con particolare riferimenti ai soggetti più deboli come i minori e gli incapaci, con riguardo agli aspetti sia patrimoniali che non patrimoniali. Il Giudice tutelare sovrintende alla maggior parte di quelle attività definite di volontaria giurisdizione , ossia caratterizzate dal fatto che non vi sono due o più parti contrapposte ma soltanto delle persone incapaci, o non del tutto capaci, di provvedere da sole ai propri interessi, a cui favore è previsto l'intervento di un giudice con funzioni di tutela e di garanzia, su autonoma iniziativa o su richiesta di parenti o soggetti che agiscono con la stessa finalità di protezione. Secondo quanto previsto dall’art. 320 c.c., i genitori non possono compiere atti di straordinaria amministrazione nell’interesse del figlio, se non con l’autorizzazione del giudice tutelare, il quale valuta la necessità o l’utilità del figlio minore o nascituro. In particolare, deve essere richiesta tale autorizzazione per vendere o ipotecare beni del figlio, accettare o rinunziare ad eredità, accettare donazioni, stipulare mutui, effettuare transazioni e compromessi, riscuotere capitali, ecc. L’autorizzazione è necessaria soltanto per promuovere giudizi relativi ad atti di straordinaria amministrazione. In merito alla necessità o meno dell’autorizzazione del Giudice tutelare nell’ipotesi di azione avviata dai genitori nell’interesse del minore, la Corte conferma il proprio indirizzo, ormai consolidato, che poggia sul dato testuale dell’art. 320 c.c., per il quale l’autorizzazione è necessaria soltanto per promuovere giudizi relativi ad atti di straordinaria amministrazione – ossia ad atti che possono arrecare pregiudizio o diminuzione del patrimonio – e non per quegli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del minore cfr. Cass. 1999/8484 . Nel caso di specie, secondo la Corte, l’azione promossa dai genitori del minore si è concretizzata in un’azione di rivendica dell’immobile oggetto di controversia, a partire dal presupposto che, nelle prospettazione dei genitori, l’immobile fosse già – e così, quindi, rivendicato – di proprietà del minore. Tale circostanza è altresì confermata, nell’interpretazione della Cassazione, dalla costituzione in giudizio del minore, una volta maggiorenne, che ha ripreso le medesime posizioni ad argomentazioni all’epoca proposte dai genitori. Per l’avvio di un giudizio l’autorizzazione è necessaria solo quando il minore assume la veste di attore in primo grado. La questione così illustrata consente altresì alla Corte, in un’ottica generale, di chiarire i casi in cui non è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per l’avvio di giudizi in particolare, secondo il S.C., l’autorizzazione è necessaria solo quando il minore assume la veste di attore in primo grado, con la conseguenza che, quando il minore stesso sia stato convenuto, essa non è richiesta per la proposizione dell’appello o del ricorso per Cassazione, quali atti diretti a resistere all’azione avversaria Cass. SS.UU., 1983/4573 . Nel fare applicazione, in concreto, di tale principio, i Giudici di legittimità hanno rilevato che i genitori del minore, pur avendo promosso un atto di intervento volontario, hanno comunque assunto una posizione analoga a quella dell’originario convenuto, avendo avanzato difese ed eccezioni – in sostanza, il diritto di proprietà in capo al minore per successione ereditaria e contestuale invalidità della scrittura privata alla base della domanda di parte attrice – dirette a contrastare, se non a paralizzare, la domanda tesa all’ottenimento del riconoscimento del suo diritto di proprietà sull’immobile controverso in forza della già citata scrittura privata.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 14 dicembre 2011 – 18 gennaio 2012, n. 743 Presidente Schettino – Relatore Carrato Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 21 giugno 1983 la signora Ra.Ge. evocava in giudizio, dinanzi al Tribunale di Salerno, i sigg. R.A. e Ra.An. per sentir dichiarare che l'immobile ubicato in omissis int. 10 , era di proprietà di essa attrice per effetto del contratto di vendita dell'8 settembre 1982, con l'adozione delle conseguenti declaratorie in punto trascrizione e spese giudiziali. Il convenuto R.A. rimaneva contumace mentre per il Ra.An. , dichiarato fallito, si costituiva in giudizio il curatore della procedura fallimentare. Spiegavano intervento volontario in giudizio A.A. e Ra.An. , quali genitori del figlio minore G. , deducendo che l'atto di vendita oggetto della controversia si sarebbe dovuto considerare nullo perché frutto di errore, violenza e dolo perpetrati in danno della venditrice R.E. . Al compimento della maggiore età si costituiva, intervenendo nel giudizio, il predetto R.G. , il quale, previa dichiarazione della nullità della costituzione in giudizio effettuata dai suoi genitori siccome difettante della necessaria autorizzazione del giudice tutelare, sosteneva la falsità della indicata scrittura privata di vendita vantando di essere l'unico proprietario dell'immobile che ne aveva costituito l'oggetto in virtù di titolo testamentario e dell'acquisto per usucapione. Il Tribunale adito, con sentenza n. 2066 del 2003, rigettava la domanda principale di Ra.Ge. per difetto di legittimazione passiva dei convenuti respingeva, altresì, la domanda riconvenzionale spiegata dal curatore del Fallimento di Ra.An. dichiarava l'inammissibilità dell'intervento operato dai coniugi A.A. e Ra.An. , nella qualità di genitori dell'allora figlio minore G. rigettava le ulteriori domande proposte e compensava le spese giudiziali. Interposto appello da parte di Ra.Ge. , nella resistenza dei soli A.A. e R.G. , la Corte di appello di Salerno, con sentenza n. 758 del 2006 depositata il 20 ottobre 2006 , accoglieva il gravame e, per l'effetto, dichiarava che l'immobile dedotto in giudizio era di proprietà dell'appellante Ra.Ge. , autorizzando il competente Conservatore alla trascrizione della sentenza e regolando le spese del grado, con la conferma della compensazione integrale tra le parti delle spese di primo grado, come statuita dal Tribunale, sul presupposto che non era stata formulata alcuna specifica impugnazione sul relativo capo della sentenza di prima istanza. A sostegno dell'adottata sentenza, la Corte territoriale rilevava, innanzitutto, la fondatezza del motivo con cui si deduceva l'erroneità della dichiarazione del difetto di legittimazione passiva dei convenuti non risultando necessaria l'autorizzazione del giudice tutelare trattandosi di azione che non implicava un'attività di straordinaria amministrazione nel merito, ravvisava come fondato anche il motivo inerente l'erroneo rigetto della domanda di trasferimento immobiliare basata sulla dedotta scrittura privata, da ritenersi valida ed efficace anche in virtù della sentenza penale di proscioglimento intervenuta nei confronti di Ra.Ge. e R.A. in ordine ai reati di truffa e falso , respingendo ogni ulteriore contestazione od eccezione. Avverso la sentenza di appello notificata il 28 novembre 2006 ha proposto ricorso per cassazione R.G. basato, essenzialmente, su quattro complessi motivi, al quale ha resistito con controricorso la Ra.Ge. , che ha formulato, a sua volta, ricorso incidentale riferito ad un unico motivo. I difensori di entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell'art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. In primo luogo deve esser disposta la riunione dei due ricorsi perché attinenti all'impugnazione della stessa sentenza art. 335 c.p.c. . 2. Con il primo complesso motivo il ricorrente ha inteso dedurre la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 320 - 322 c.c., 112 e 345 c.p.c., formulando, al riguardo, i seguenti tre quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. a dica la Corte se - a fronte di una domanda formulata dall'attore in citazione contro determinati soggetti e mantenuta ferma soltanto nei loro confronti per tutto il corso del giudizio di primo grado, anche nelle conclusioni definitive, senza mai dichiarare di volerla estendere nei confronti di altro soggetto intervenuto, autonomamente e non per chiamata in causa o su ordine del giudice quale litisconsorte necessario - il giudice di appello, qualora accolga la domanda di esso attore, formulata in tale sede, anche contro l'interventore - sull'assunto che il giudice di primo grado avrebbe dovuto ritenerla automaticamente estesa al terzo interveniente pur in mancanza di espressa istanza - invece di dichiarare inammissibile il relativo motivo di gravame abbia violato e/o falsamente applicato - prima - il disposto dell'art. 345 c.p.c. e - poi - quello dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., ed in specie allorché il terzo interveniente autonomo , costituitosi anche in appello abbia ribadito di non voler accettare il contraddittorio così come ritiene la difesa dell'odierno ricorrente o, piuttosto, tanto sia ammissibile e consentito come erroneamente deciso dalla Corte salernitana ? b dica la Corte se l'intervento volontario autonomo dei genitori esercenti la patria potestà sul minore, in un giudizio pendente tra altri soggetti, in assenza di chiamata in causa ad istanza di parte e/o per ordine del giudice, deve ritenersi equiparato a quella dell'attore, per cui occorre, ai sensi dell'art. 320 c.c., l'autorizzazione del giudice tutelare da emanarsi, previa valutazione degli atti, onde accertare se l'intervento sia favorevole o meno agli interessi del minore come ha sostenuto e sostiene il ricorrente , o, piuttosto, non v'è bisogno di alcuna autorizzazione? c dica la Corte se l'intervento autonomo principale dei genitori, per il figlio minore, rispetto alle parti preesistenti in giudizio come verificatosi nel presente caso , rientri negli atti di straordinaria amministrazione che necessitano dell'autorizzazione del giudice tutelare ai sensi dell'art. 320 c.c., pena l'annullabilità su istanza del minore divenuto maggiorenne se la stessa debba sussistere al momento dell'intervento senza poter essere supplita da un'autorizzazione successiva se allorché venga opposta un'eccezione preliminare e/o si eccepisca di non volere accettare il contraddittorio e, nel contempo, ma subordinatamente, vengano formulate anche difese di merito come verificatosi nella fattispecie , rimanga pur sempre ferma la volontà di non voler rinunciare a tali pregiudiziali eccezioni come ritiene il ricorrente , oppure tanto possa comportare implicita rinuncia alle stesse e/o accettazione del contraddittorio? . 2.1. Il motivo, così come complessivamente prospettato e che può ritenersi assistito da quesiti di diritto sufficientemente formulati, è infondato e deve, pertanto, essere rigettato. Con tale doglianza il ricorrente principale ha, in sostanza, inteso dedurre la supposta violazione dei richiamati artt. 320, 322 c.c., nonché degli artt. 112 e 345 c.p.c., oltre che il relativo vizio di motivazione, con riferimento all'impugnata sentenza della Corte territoriale, prospettando l'erroneità di detta sentenza sotto un duplice profilo, ovvero - nella parte in cui aveva ritenuto valido ed efficace l'intervento dei coniugi Ra.An. ed A.A. compiuto, in primo grado, nell'interesse dell'allora figlio minore R.G. , ancorché non fosse stato autorizzato, ai sensi dell'art. 320 c.c., dal giudice tutelare, poiché l'intervento aveva finalità di conservazione del patrimonio del minore - nella parte in cui aveva ritenuto che il contraddittorio si era venuto, poi, ad incardinare estendendosi legittimamente anche nei confronti dello stesso R.G. , che si era successivamente costituito in proprio nel giudizio, mediante la proposizione di un autonomo intervento volontario. Contrariamente a quanto dedotto nell'interesse del ricorrente principale, la sentenza della Corte salernitana non è affatto incorsa nelle riportate violazioni di legge e risulta fondata su una più che adeguata e logica motivazione, sia con riguardo alle risultanze di fatto che in ordine alla corretta applicazione dei principi di diritto ritenuti conferenti nella fattispecie. 2.2. Con riferimento alla prima doglianza di questo motivo che appare logicamente preliminare rispetto all'altra , osserva il collegio che la Corte di appello, avuto riguardo alla specifica natura dell'intervento spiegato dai genitori dell'allora minorenne R.G. e al contenuto della concreta pretesa fatta valere, non abbisognasse della preventiva autorizzazione del giudice tutelare per i casi prescritti dall'art. 320 c.c La Corte territoriale, infatti, ha - con un percorso argomentativo del tutto congruo e scevro da vizi logici - correttamente valutato che il Ra.An. e l'A.A. , mediante il loro intervento, avevano inteso far valere, con riferimento all'immobile oggetto della domanda principale formulata dalla Ra.Ge. , una vera e propria azione di revindica in favore del figlio G. , in tal senso contrapponendola alla domanda di accertamento dell'intervenuto trasferimento immobiliare fondata su titolo contrattuale come avanzata dalla suddetta attrice principale. Sulla scorta di tale esatto inquadramento delle azioni dedotte in giudizio rispetto ai titoli assunti come vantati , il giudice di secondo grado ha, perciò, legittimamente considerato che l'intervento spiegato dai genitori del minore R.G. non necessitasse dell'autorizzazione prevista dall'art. 320 c.c. poiché la relativa iniziativa giudiziale configurava l'esercizio di un atto di ordinaria amministrazione in favore del predetto minore. Così pronunciandosi, la Corte campana si è conformata al condivisibile pregresso indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, alla stregua del quale l'autorizzazione del giudice tutelare ex art. 320 c.c. è necessaria per promuovere giudizi relativi ad atti di amministrazione straordinaria, che possono cioè arrecare pregiudizio e diminuzione del patrimonio e non anche per gli atti diretti al miglioramento e alla conservazione dei beni che fanno già parte del patrimonio del minore cfr., ad es., Cass. n. 1954 del 1966 e Cass. n. 8484 del 1999 , precisandosi, sulla scorta di tale premessa, che anche la proposizione dell'azione di rivendica produce l'instaurazione di un giudizio relativo ad un atto di ordinaria amministrazione proprio perché preordinata all'accrescimento del patrimonio del minore o, comunque, alla sua tutela in senso positivo e migliorativo e non ad arrecargli un nocumento e, quindi, un pregiudizio v., in senso specifico, Cass. n. 1546 del 1974 . Oltretutto, la stessa giurisprudenza di questa Corte come ancora correttamente evidenziato dalla Corte salernitana ha statuito che, in tema di rappresentanza processuale del minore, l'autorizzazione del giudice tutelare di cui all'ari 320 c.c. è necessaria solo quando il minore assume la veste di attore in primo grado, con la conseguenza che, quando il minore stesso sia stato convenuto, essa non è richiesta per la proposizione dell'appello o del ricorso per cassazione, quali atti diretti a resistere all'azione avversaria cfr. Cass., SU., n. 4573 del 1983 e Cass. n. 2199 del 1984 . Anche in virtù di quest'ultimo argomento la Corte di appello ha legittimamente chiarito che i genitori del minore, pur avendo proposto un intervento volontario in giudizio, diretto a far valere - nei precisati termini - le loro domande nei confronti di tutte le altre parti e, specificamente, dell'attrice originaria Ra.Ge. , hanno, in effetti, assunto una posizione processuale assimilabile a quella di un convenuto, avendo frapposto difese ed eccezioni dirette a contrastare se non a paralizzare la domanda dell'attrice principale tesa all'ottenimento del riconoscimento del suo diritto di proprietà sull'immobile controverso sulla scorta della scrittura privata conclusa con l'alienante l'8 settembre 1982. Del resto, la Corte territoriale, in base ad una complessiva valutazione delle risultanze processuale basata su una motivazione adeguatamente sviluppata, ha accertato che la conformità delle richieste formulate in giudizio dai genitori del minore e nell'interesse dello stesso era rimasta asseverata dalla stessa posizione dialettica assunta sul piano processuale dal medesimo minore, il quale, una volta raggiunta la maggiore età, era anch'egli intervenuto nel giudizio di primo grado, proponendo eccezioni e rassegnando conclusioni essenzialmente in sintonia con quelle già precedentemente interposte dai suoi genitori in sua rappresentanza processuale, accettando, con la sua condotta concludente, il contraddittorio sulle domande avanzate dalla Ra.Ge. ed esplicando pienamente e senza pregiudizio alcuno le sue difese ed eccezioni. 2.3. Proprio partendo da quest'ultimo dato di fatto congruamente motivato dalla Corte salernitana si deve pervenire alla reiezione anche dell'altra doglianza come precedentemente sintetizzata attinente al primo complesso motivo in esame. La suddetta Corte, prendendo in considerazione la condotta processuale del R.G. nella sua portata complessiva, ha attestato - con motivazione assolutamente adeguata - che egli si era difeso, senza limiti, sia sul piano delle eccezioni processuali che di merito, deducendo la titolarità di una sua legittimazione autonoma già prospettata, in rappresentanza dello stesso, dai suoi genitori, quando era ancora minorenne a far valere propri diritti per assunto titolo ereditario o per asserita intervenuta usucapione sul bene per cui era stata instaurata la controversia, oltre a contestare la pretesa avversa anche prospettando la nullità dell'atto di alienazione dedotto dall'attrice, insistendo, previa formale richiesta di plurimi mezzi istruttori, per il rigetto della domanda della Ra.Ge. e, in ogni caso, in via gradata, per la declaratoria di nullità e/o annullabilità della compravendita, congiuntamente alla condanna della suddetta attrice al pagamento delle spese giudiziali in suo favore. Sulla scorta di questa globale e, nel contempo, articolata posizione processuale assunta dal R.G. in relazione ai suoi supposti autonomi diritti fatti valere , la Corte territoriale ha, del tutto legittimamente, rilevato che indipendentemente dall'esplicazione di una formale volontà di non accettare il contraddittorio, da intendersi come inefficace perché superata dalla condotta in concreto osservata ed, anzi, con tale dichiarazione chiaramente incompatibile , il predetto era venuto a ricoprire indiscutibilmente la veste di parte nell'ambito del processo, avendo egli assunto, a tutti gli effetti, la qualità di interventore volontario autonomo proprio in virtù della natura delle specificate pretese e dei relativi titoli dedotti, con la piena esplicazione del contraddittorio nei suoi confronti. Anche a questo proposito la Corte territoriale ha richiamato coerentemente la congrua giurisprudenza di questa Corte i cui principi devono in questa sede essere riaffermati , alla stregua della quale l'intervento di cui all'art. 105 c.p.c. concerne non la causa, ma il processo ed è tale che il terzo, una volta intervenuto nel processo ed una volta spiegata domanda nei confronti delle altre parti o anche di una sola di esse, diventa parte egli stesso nel processo medesimo, al pari di tutte le altre parti e nei confronti delle stesse cfr. Cass. n. 3212 del 1971 . Del resto la precedente e condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo, ulteriormente, di sottolineare che, qualora il terzo spieghi volontariamente intervento litisconsortile, assumendo essere lui o anche lui - e non gli altri convenuti ovvero non solo le altre parti chiamate originariamente in giudizio - il soggetto nei cui riguardi si rivolge la pretesa dell'attore, la domanda iniziale, anche in difetto di espressa istanza, si intende automaticamente estesa al terzo, nei confronti del quale, perciò, il giudice è legittimato ad assumere le conseguenti statuizioni cfr. Cass. n. 1948 del 1983 e, da ultimo, Cass. n. 17954 del 2008 . E tale situazione - come ha ritenuto correttamente la Corte territoriale - si era venuta certamente a configurare nel caso di specie, posto che il R.G. , intervenendo in giudizio, aveva affermato la sua qualità di erede universale di R.E. indicata in citazione come alienante dell'immobile in favore dell'attrice , in tal senso intendendo escludere anche la legittimazione passiva degli altri convenuti nel giudizio proposto da Ra.Ge. , rivendicando di essere l'unico titolare del diritto di proprietà sul bene dedotto in controversia. 3. Con il secondo complessivo motivo il ricorrente R.G. ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 345-112 e 214 e segg. c.p.c., in relazione all'art. 360, nn. 3 e 4, c.p.c., articolando, in proposito, il seguente quesito di diritto dica la Corte se - a fronte di una scrittura privata non autenticata avente ad oggetto la vendita di un benne immobile - l'acquirente può chiedere al giudice, ai sensi del combinato disposto degli artt. 214 c.p.c. e 2652 n. 3 c.c., soltanto l'accertamento giudiziale della scrittura detta, per consentire la trascrizione come si sostiene dal ricorrente e non la decisione sul contenuto e la rilevanza giuridica del negozio in essa incorporata come la erronea richiesta della Ra.Ge. ed accolta dalla Corte in violazione delle su citate norme di diritto , dovendosi considerare tale sola e/o congiunta istanza inammissibile e non consentita? . In sostanza, con questo motivo, il ricorrente ha inteso dedurre le richiamate violazioni sul presupposto della prospettata erroneità della sentenza della Corte territoriale nella parte in cui, anziché limitarsi a dichiarare l'intervenuto accertamento giudiziale dell'autenticità della sottoscrizione dell'alienante nella scrittura privata posta a fondamento della domanda dell'attrice in funzione della inerente trascrizione, aveva statuito che l'immobile oggetto della convenzione era di proprietà della Ra.Ge. , in tal senso pronunciandosi anche sul contenuto e sulla rilevanza giuridica del negozio incorporato nel documento medesimo. 3.1. Anche questo motivo è destituito di fondamento e deve, quindi, essere respinto. Al di là dell'inconferenza del riferimento giurisprudenziale richiamato dal ricorrente Cass. n. 2235 del 1990, riguardante, invero, un aspetto relativo all'autorizzazione ex art. 320 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione conclusi nell'interesse del minore , il collegio evidenzia che la Corte territoriale non ha affatto violato il principio sancito dall'art. 112 c.p.c Invero, a fronte dell'inequivoca domanda dell'attrice proposta, in tali termini, fin dalla citazione introduttiva del giudizio di primo grado e mantenuta inalterata con Tatto di appello v., rispettivamente, pagg. 3 e 6 della sentenza di secondo grado di essere dichiarata proprietaria dell'immobile sito in omissis piano II, int. 10 per effetto della scrittura privata dell’8 settembre 1982 intercorsa con la venditrice R.E. e, quindi, prima della redazione del testamento olografo di quest'ultima intervenuta il 13 aprile 1983, con il quale era stato istituito erede universale proprio il R.G. , ed anteriormente al decesso della stessa R.E. , sopravvenuto il omissis , si è pronunciata consequenzialmente senza, perciò, che si fosse venuta a configurare alcuna violazione dell'art. 345 c.p.c. , riconoscendo la fondatezza di questa domanda in virtù dell'accertata validità e piena efficacia della suddetta scrittura, la cui autenticità della sottoscrizione dell'alienante costituiva un accertamento necessario a tale scopo. In tal modo, perciò, il giudice di appello si è pronunciato proprio sulla immutata domanda di accertamento di avvenuto trasferimento del diritto di proprietà in favore dell'originaria attrice, in forza di un contratto di compravendita concluso tra le parti in virtù della richiamata scrittura privata, riconosciuta e qualificata come pienamente valida ed idonea a produrre l'effetto traslativo del diritto di proprietà, impartendo le correlate disposizioni per la conseguente autorizzazione alla trascrizione della inerente sentenza per opportuni riferimenti ad ipotesi - attinenti a controversie in simile materia - in cui, invece, è stato ritenuto configurabile un possibile vizio di extrapetizione o un caso di novità della domanda in appello, v. Cass., S.U., n. 1731 del 1993 Cass. n. 13420 del 2003 e, da ultimo, Cass. n. 2723 del 2010 . 4. Con il terzo, subordinato motivo, il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per assunta violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c. prospettando, in merito, il seguente quesito di diritto dica la Corte se l'omessa pronuncia su una domanda ovvero su una specifica eccezione fatta valere dalla parte, integra, ove posta in essere dal giudice di appello, una violazione dell'art. 112 c.p.c., da farsi valere a norma dell'art. 360 n. 4 c.p.c. come appunto richiesto dal ricorrente e se il mancato esame di istanze istruttorie e documenti, decisivi, che avrebbero potuto indurre ad una decisione diversa da quella adottata, possa essere fatta valere ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c. ? - come pur richiesto dal ricorrente! 5. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione - in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c. - degli artt. 101-102 e 156 e segg. c.p.c., evidenziando a corredo dello stesso il seguente quesito di diritto dica la Corte se il contraddittorio delle parti, iniziali ed intervenute, debba permanere in tutto il corso del procedimento e, se la mancata notifica di un atto processuale reso fuori udienza al procuratore di una delle parti costituite, comporti o meno la nullità di tutti i conseguenti atti, travolgendo anche le rese sentenze e se, nel caso in cui trattasi di atto riassuntivo non notificato comporti, addirittura, l'estinzione del giudizio, ove venga eccepita come qui sostenuto dal ricorrente ed, inoltre, se tanto può essere rilevato anche in sede di legittimità? . 5.1. Questi ultimi due motivi sono inammissibili per inidoneità e genericità dei riportati quesiti di diritto così come formulati ex art. 366 bis c.p.c. la cui disciplina è pacificamente applicabile nel caso di specie, poiché la sentenza impugnata risulta pubblicata posteriormente al 2 marzo 2006 ed anteriormente al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 , avendo la condivisa giurisprudenza di questa Corte v. Cass. n. 3429 del 2009, ord., e, più recentemente, Cass. n. 4146 del 2011 statuito che il motivo di ricorso con cui si denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c. e con entrambe le doglianze in questione il ricorrente ha posto riferimento a questo vizio, non potendosi ritenere configurabile il vizio di motivazione, per il quale, oltretutto, sarebbe occorsa necessariamente l'esposizione della sintesi del vizio e la specificazione del fatto controverso ai sensi del citato art. 366 bis c.p.c., seconda parte da parte del giudice di merito, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4 , cpc, deve essere concluso in ogni caso con la prospettazione di un quesito di diritto, che non può essere generica ovvero esaurendosi nell'enunciazione della regola della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e non può omettere di precisare su quale questione il giudice aveva omesso di pronunciare o aveva pronunciato oltre i limiti della domanda, risultando necessario, anche in relazione a tale vizio, evidenziare, ancorché sinteticamente ma pur sempre nell'ambito dello stesso quesito , le corrette premesse giuridiche sulla qualificazione dello specifico fatto sostanziale o processuale in ordine a cui si sarebbe venuto a configurare il difetto totale o parziale della pronuncia del giudice. Per come sono stati, in questo caso, impostati i due quesiti relativi al terzo e quarto motivo, appare evidente che essi non rispondono alle esplicitate esigenze imposte dalla giurisprudenza di questa Corte, sotto l'aspetto della inidoneità a svolgere la funzione loro attribuita dall'ordinamento processuale e sotto il profilo della mancata osservanza dell'imprescindibile requisito della specificità da rapportare alla concretezza delle questioni dalle quali evincere, eventualmente, la verificazione della suddetta violazione. 6. Con l'unico motivo di ricorso incidentale la difesa di Ra.Ge. ha prospettato il vizio di violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., formulando, al riguardo, il seguente quesito di diritto dica la Corte se, in base al principio fissato dall'art. 336, comma 1, c.p.c. secondo il quale la riforma della sentenza impugnata ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata per l'effetto espansivo interno , la riforma della sentenza di primo grado determina la caducazione del capo della pronunzia che ha statuito sulle spese e se il giudice di appello deve provvedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali di primo grado, quale conseguenza della decisione di merito adottata, in considerazione dell'esito finale della lite ed in applicazione del criterio unitario e globale . Con tale doglianza la ricorrente incidentale ha dedotto l'erroneità della sentenza di secondo grado nella parte in cui, in violazione della precisata norma, non aveva provveduto a riconoscere, in favore di essa appellante quale parte integralmente vittoriosa in appello dopo essere risultata soccombente in primo grado , anche il favore delle spese relative at giudizio di prima istanza, avendo instato, in senso complessivo, per la condanna degli appellati e, in particolare, del R.G. alla rifusione delle spese processuali, ivi compresi esborsi, diritti, onorari ed accessori, A tal riguardo la difesa della Ra.Ge. ha richiamato l'orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, ai fini del regolamento delle spese processuali, la soccombenza non si fraziona in conseguenza dell'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferita unitariamente all'esito finale della causa, a nulla rilevando che, in qualche fase o grado, la parte risultata soccombente alla fine, sia rimasta vittoriosa. Pertanto, sulla scorta di questo indirizzo giurisprudenziale, la ricorrente incidentale ha prospettato che si sarebbe dovuta considerare errata la statuizione della Corte di appello con la quale si era rilevata l’immodificabilità della disposta compensazione delle spese in primo grado perché non specificamente impugnata, dal momento che, così regolandosi, il giudice del gravame non aveva valutato che gli effetti della riforma della sentenza di primo grado da parte del giudice di appello, che definisce il giudizio con sentenza di diverso contenuto, si estendono al capo relativo alla spese del precedente grado, le quali, pertanto, devono essere riliquidate o, comunque, rivalutate secondo le norme che regolano la soccombenza. 6.1. Il motivo dedotto dalla ricorrente incidentale è fondato e deve, perciò trovare accoglimento. Come esattamente prospettato con detta doglianza la Corte territoriale è andata di contrario avviso all'orientamento, da ritenersi consolidato, di questa Corte alla stregua del quale il giudice di appello, allorché riforma in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d'ufficio ad una nuova regolamentazione delle intere spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, poiché l'onere delle stesse deve essere attribuito e ripartito tenendo presente l'esito complessivo della controversia cfr, ex multis, Cass. n. 7846 del 2006 Cass. n. 12963 del 2007 Cass. n. 26985 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 27342 del 2011 . In altri termini, il criterio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c., al fine della determinazione dell'onere delle spese processuali, non si fraziona secondo l'esito delle varie fasi del giudizio, ma va riferito all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche fase o grado del giudizio la parte, poi risultata definitivamente soccombente, abbia conseguito un esito a lei favorevole cfr. Cass. n. 4778 del 2004 . Conseguentemente, in sintonia con quanto dedotto con il motivo in questione, si deve riconfermare che gli effetti della riforma della sentenza di primo grado da parte del giudice di appello che definisce il giudizio con sentenza di diverso contenuto come verificatosi nel caso di specie si estendono in virtù dell'operatività del c.d. effetto espansivo interno previsto dall'art. 336, comma 2, c.p.c. al capo relativo alla spese del precedente grado, che, pertanto, devono essere riliquidate o, comunque, nuovamente regolate in base alla norme sulla soccombenza da riferire all'esito finale della controversia v. Cass. n. 4229 del 2001 e Cass. n. 6145 del 2004 . Alla luce della condivisione degli esposti principi e non ricorrendo - in virtù della ravvisata infondatezza totale del ricorso principale - una ipotesi di cassazione con rinvio con derivante definizione della causa nel merito , si può v., ancora, Cass. n. 4229 del 2001, cit. , in accoglimento dell'unico motivo del ricorso incidentale, provvedere direttamente in questa sede ex art. 384, comma 1, seconda parte, c.p.c. alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado sulle quali non si è pronunciato il giudice di appello , in base, appunto, al principio della soccombenza come appena inquadrato, con la conseguente condanna al pagamento delle stesse nella misura quantificata come in dispositivo dei convenuti e degli interventori costituiti in primo grado, in via fra loro solidale essendo indubbio che tale principio si applichi, in generale, anche nei confronti dei soggetti intervenuti che abbiano assunto una posizione attiva di contrasto verso le altre parti, poi risultate vittoriose, come avvenuto nella presente fattispecie cfr, ad es., Cass. n. 4155 del 1989 e Cass. n. 6880 del 1997 , ferma restando la pronuncia condannatoria già disposta con la sentenza di appello con riferimento alla disciplina delle spese del giudizio di secondo grado. 7. In dipendenza dello stesso criterio della soccombenza il ricorrente principale deve essere, infine, condannato anche al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate, anch'esse, nella misura riportata nel dispositivo. P.Q.M. La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta i primi due motivi e dichiara inammissibili gli altri due motivi del ricorso principale accoglie il ricorso incidentale e, ferma restando la statuizione sulle spese del giudizio di appello, cassa, per quanto di ragione, la sentenza impugnata e, per l'effetto, decidendo sul punto nel merito, condanna i convenuti e gli interventori costituiti nel giudizio di primo grado al pagamento, in solido fra loro ed in favore dell'appellante Ra.Ge. , delle spese del giudizio di primo grado, liquidate in complessivi Euro 6000,00 seimila/00 , di cui Euro 500,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per diritti ed Euro 2.500,00 per onorari, oltre accessori sulle voci e nella misura come per legge. Condanna, altresì, il ricorrente principale R.G. alla rifusione, a vantaggio della ricorrente incidentale Ra.Ge. , delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.