Quando la giustizia penale è ospite fisso in prima serata

Il diritto all'informazione e i suoi limiti non è raro imbattersi in programmi televisivi concepiti per affrontare con vari livelli di approfondimento le vicende giudiziarie che occupano i primi posti della cronaca.

Si tratta di veri e propri salotti” a tema, dedicati quasi esclusivamente alla rassegna dei fatti che costituiscono oggetto d'indagine nel corso delle trasmissioni – ma il discorso potrebbe estendersi anche alla trattazione degli stessi argomenti sulla carta stampata o sul web – possiamo osservare che vengono mandati in onda, o in altro modo resi pubblici, ampi stralci di intercettazioni telefoniche e ambientali, si intervistano soggetti a conoscenza dei fatti o che si presume li conoscano talvolta si operano ricostruzioni della scena del crimine, secondo le esigenze del momento e della scaletta” della puntata. Naturalmente, tutto questo non è affatto illecito. Anzi. La televisione, così come i mass media di qualsiasi altro genere, assolvono al loro compito di informare, oltre che di intrattenere, il pubblico. La libertà di esercitare il diritto o dovere, a seconda delle prospettive di informare le persone su fatti e circostanze di interesse generale costituisce senza dubbio l'indice rivelatore del grado di civiltà e della maturità democratica di un Paese. Soltanto un regime totalitario può pretendere di comprimere il diritto all'informazione, alla cronaca e alla critica fino ad annullarli o a ridurli a simulacri di se stessi. Ma a questo diritto/dovere fanno da contraltari alcuni interessi di quantomeno uguale rilevanza che devono essere tenuti in debito conto. Uno di essi è quello alla segretezza – a certe condizioni, come vedremo – del materiale investigativo riguardante una vicenda giudiziaria. Lo statuto del segreto” una breve sintesi. L'ordinamento processuale penale e il diritto penale sostanziale prevedono un'articolata disciplina posta a presidio del segreto investigativo o, più in generale, della riservatezza degli atti processuali. Vediamo di tracciarne una sinossi il più possibile esaustiva l'art. 114 c.p.p. pone il divieto di pubblicazione di atti e di immagini che costituiscono il patrimonio del procedimento penale. La regola generale è quella che dispone il divieto di pubblicare tutto ciò che è coperto da segreto. Non sono pubblicabili nemmeno gli atti che non siano più segreti fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell'udienza preliminare. Per gli atti del dibattimento vige una regola simile, che fissa il divieto di pubblicazione dei documenti che compongono il relativo fascicolo fino alla pronuncia della sentenza di primo grado. Gli atti di indagine, invece, possono essere resi noti soltanto dopo la sentenza d'appello. Lasciando stare i dettagli più minuti della disciplina, che si articola in incisi e subordinate per individuare molte ipotesi specifiche nelle quali la pubblicazione è comunque vietata, o che mira a tutelare particolarmente le generalità dei soggetti processuali minorenni, il criterio generale della norma è abbastanza lineare e mira a preservare – tra le altre cose – la riservatezza della documentazione processuale. Una distinzione, però, riguarda l'ampiezza della tutela nel caso degli atti coperti dal segreto quest'ultima si estende anche solo [al] loro contenuto”. Gli atti non coperti da segreto, benchè non pubblicabili se non alle condizioni che abbiamo ricordato, possono essere quindi raccontati”. Il divieto, quindi, è in questi casi poco più che un'etichetta formale di fatto aggirabile con molta facilità. L'art. 329 c.p.p., inoltre, ci permette di individuare l'arbitro della segretezza nella persona del Pubblico Ministero che può, a certe condizioni, estendere il segreto oltre il suo naturale confine temporale, o derogarvi per specifiche esigenze investigative. Fin qui, la disciplina processuale. Ci si aspetterebbe una tutela penale di questo interesse proporzionata alla importanza della sua funzione, che è perlomeno duplice garantire l'efficacia dell'azione investigativa e preservare il giudice dai condizionamenti della pubblica opinione su un determinato accadimento storico. L'attesa è destinata a rimanere delusa l'art. 379- bis c.p. e l'art. 684 c.p. costituiscono le due norme generali” poste a presidio del segreto processuale. La prima punisce con la reclusione fino ad un anno colui che partecipa ad un atto del procedimento e ne riveli notizie segrete”, ovvero chi, sentito dall'autorità giudiziaria, riveli indebitamente quanto ad essa riferito. Se la norma incriminatrice appena descritta costituisce un'arma di piccolo calibro per difendere l'interesse dalla stessa rappresentato, la seconda fattispecie – l'art. 684 c.p. - è praticamente un'arma giocattolo si sanziona con la pena alternativa dell'arresto fino a un mese o con l'ammenda fino a 258 euro chiunque pubblica anche parzialmente, per riassunto o a guisa di informazione” atti processuali segreti. Di fronte ad uno scenario del genere possiamo senz'altro dire che l'efficacia deterrente è pari sostanzialmente a zero e che il rispetto della tutela del segreto risulta affidato quasi esclusivamente allo scrupolo e alla coscienza del giornalista o del conduttore televisivo che decida spontaneamente di sacrificare il sensazionalismo alla luce del superiore interesse che quelle armi normative spuntate vorrebbero tutelare. Intervistare il possibile testimone è una tentazione alla quale si può resistere? Illustrare il contenuto di un verbale di perquisizione riguardante un'indagine aperta? Trascrivere o mandare in onda interi brani oggetto di captazione? Con tutti i distinguo che questa contorta e allo stesso tempo inefficace disciplina obbliga a fare, praticamente ci siamo ormai assuefatti a non fare quasi più caso al fenomeno in sé della pubblicizzazione” del contenuto dei fascicoli processuali. Rimane un ultimo profilo per coloro che esercitano la professione di avvocato, e incappassero nella violazione di uno dei divieti di pubblicazione, quali conseguenze ulteriori potrebbero presentarsi sul fronte disciplinare? La responsabilità disciplinare dell'avvocato per la pubblicazione degli atti processuali coperti da segreto. Gli avvocati sono spesso protagonisti nelle occasioni televisive – o comunque nei servizi giornalistici di ogni genere – che riguardano fatti di cronaca. Se ciò da un lato testimonia ulteriormente, se mai ce ne fosse bisogno, la rilevanza centrale che la figura del difensore assume nel processo penale, dall'altro lato ne limita o meglio ne dovrebbe limitare particolarmente l'ampiezza della libertà espressiva proprio perchè la disciplina del segreto impone all'avvocato di osservare alcune precise regole di condotta. Gli articoli 13 e 18 del codice deontologico forense stabiliscono, lette unitamente, il principio secondo cui il difensore deve osservare rigorosamente il segreto professionale, e nei rapporti con gli organi di informazione non può fornire notizie coperte dal segreto di indagine. Questo concetto è ribadito dagli artt. 28 e 57 del predetto Codice, che puniscono la violazione del riserbo professionale o i canoni di condotta che attengono ai rapporti con il mondo del giornalismo con la sospensione dall'esercizio dell'attività per un periodo variabile a seconda della gravità e della consistenza della condotta illecita. A conti fatti, il sistema di tutela disciplinare riveste un grado di severità maggiore rispetto a quello penale per le conseguenze concretamente sanzionatorie che dalla sua violazione possono derivare. Anche in questo caso, a fornire la bussola per un corretto comportamento non può che essere la capacità del singolo di saper trovare l'equilibrio tra la tutela degli interessi presidiati dalla normativa sul segreto e la voglia di offrire il proprio contributo sul fronte dell'informazione pubblica o di soddisfare, perchè no è comprensibile e in un certo senso persino naturale, la propria vanità professionale” .