Partigiani: volontari della libertà e forza armata italiana

L’Autore e l’Editore hanno deciso di celebrare il 76° anniversario della Festa della Liberazione con la pubblicazione della sentenza del Tribunale di Torino dell’11 luglio 1947 mediante la quale è stato stabilito che le formazioni partigiane, inquadrate nel corpo dei volontari della libertà, facevano parte delle forze armate dello Stato italiano ed erano parificate all’organizzazione militare del Governo legittimo.

Nell’applicazione delle norme generali del diritto di guerra, tenuto conto della particolarità della guerra partigiana, è stato ritenuto pertanto legittimo l’esercizio, da parte di un comando partigiano, del potere di imporre contribuzioni di guerra, di compiere rappresaglie e di prelevare ostaggi. Essere partigiano . Ricorda Paolo Greco che ha commentato magistralmente la sentenza in esame edita in Foro it., 1948, I, 44, con nota dal titolo Diritto di guerra e guerra partigiana che la parola partigiano ― usata per designare un metodo di lotta armata e le persone che vi prendono parte attiva ― aveva assunto già prima degli eventi bellici mondiali un significato più ampio di quello etimologico perché comprendente anche i casi in cui non vi è un contrasto tra partiti o fazioni interne, ma esclusivamente una lotta contro il nemico esterno. Lotta questa avente una caratteristica essenziale e comune di tutte le sue manifestazioni si svolge e si prosegue nelle retrovie di un esercito occupante . Lotta contraddistinta da una tecnica, come avverte l’autore, meno compatta o rigidamente unitaria di quella di un esercito regolare e da una azione a carattere frammentario, intermittente, rapida, per lo più di sorpresa, con obiettivi limitati . Della lotta partigiana non è invece carattere costante ed essenziale quello della clandestinità. Viene, al riguardo, segnalato nella nota suddetta che molti reparti partigiani che occupavano e controllavano in Italia, specialmente in Piemonte, determinate e spesso ampie zone, non erano affatto clandestini notissimi anzi al nemico, col quale talvolta intercedevano comunicazioni per mezzo di parlamentari, si facevano scambi di prigionieri, ecc. . La clandestinità attiene, difatti, all’azione cospirativa e non va confusa col segreto su intenzioni, situazioni, sedi di comandi e movimenti di truppe, esigenza questa comune anche agli eserciti regolari . Come si apprende dagli attuali vocabolari cfr. l’Etimologico LeMonnier Devoto Oli Sabatini Coletti da un significato carico di connotazione negativa di sostenitore armato di una fazione il lemma partigiano attraversa l’Europa con la guerra dei Trent’anni fino ad approdare in Russia dove acquisisce il significato positivo di patriota combattente durante la resistenza contro Napoleone di qui rientra infine in Italia durante la seconda guerra mondiale per definire l’appartenente a formazione armata che svolge azione di guerriglia nel territorio nazionale invaso dal nemico per resistere contro i nazisti e i loro alleati. Il caso dedotto in lite. Si evince dalla decisione del Tribunale di Torino e dalla sopra menzionata nota a suo corredo che, nella fattispecie, era stato emesso un ordine di pagamento da un comando partigiano a carico di un cittadino coinvolto in un caso di spionaggio. L’ordine di pagamento poteva giustificarsi alternativamente per un triplice titolo contribuzione di guerra, rappresaglia, penalità. Nel caso in esame la prestazione fu stata imposta a titolo di rappresaglia in seguito all’avviso pervenuto alle forze nazi-fasciste, da parte di elementi di uno stabilimento industriale, circa la presenza in quest’ultimo di una pattuglia partigiana. A seguito del rifiuto opposto, in un primo tempo, dal proprietario dello stabilimento al pagamento della somma richiesta, il comando partigiano adottò un ulteriore provvedimento la cattura della figlia del debitore. La cattura veniva intesa quale mezzo preventivo di coazione psicologica sull’avversario per l’osservanza delle norme e degli usi di guerra o per l’adempimento di determinati patti od obbligazioni, a condizione di trattare l’ostaggio come prigioniero di guerra, senza renderlo responsabile con la propria vita delle azioni di terzi. Si trattava, nel caso concreto, di una ipotesi di Geldgeiselschaft tanto che, eseguito il pagamento, l’ostaggio, fu liberato senza offesa ai sentimenti di umanità. Il Tribunale di Torino si interroga nella pronuncia in discorso sulla liceità di tale operato e, ancor prima, sulla natura e sui poteri delle formazioni partigiane. Il Comando partigiano è parificato a quello dell’esercito italiano. A detta del Tribunale i comandi partigiani devono essere considerati esattamente come comandi organici dell’esercito italiano. In particolare, viene precisato che nel nostro ordinamento giuridico l’art. 1 del decreto 28 febbraio 1945 n. 73, delegando al C.L.N.A.I. la rappresentanza del Governo nella lotta contro il nemico è venuto a parificare il C.V.L., organizzazione militare del C.L.N.A.I. all’esercito regolare, organizzazione militare del Governo legittimo. Vengono poi ripercorsi, a supporto di questo approdo, tutti i provvedimenti che hanno equiparato i partigiani combattenti ai militari volontari i quali hanno operato con le unità regolari delle forze armate nella guerra di liberazione. I poteri del Comandante in guerra e l’operato del Comando partigiano. Osserva il Tribunale che il diritto di guerra, tanto internazionale che interno è dominato dal principio della necessità e ragione di guerra, per il quale al di fuori e anche contro le norme più comuni di tutte le legislazioni e i principi generali del diritto, i poteri di un comandante sono infinitamente più estesi e discrezionali di quelli di qualunque altro funzionario della pubblica amministrazione e degli stessi organi militari in tempo di pace e fuori della zona delle operazioni. Viene poi osservato che, in considerazione della situazione particolarissima dell’Italia settentrionale durante il periodo dell’occupazione tedesca, delle formazioni partigiane e della guerra partigiana, non avrebbero potuto applicarsi così semplicemente le disposizioni dettate per una condotta di guerra tradizionale, per formazioni di un esercito regolare e per situazioni prevedibili dal legislatore, dovendo ricorrere, in mancanza di norme particolarmente dettate allo scopo, al criterio dell’analogia applicabile nel diritto di guerra come nel diritto internazionale. In questa prospettiva, viene precisato che nel caso concreto, se in luogo delle formazioni partigiane ci fosse stata un’unità dell’esercito regolare, e se i fatti si fossero verificati in una zona di operazioni a carattere normale, mentre diversa sarebbe stata la sorte della figlia soggetto coinvolto nel caso di spionaggio, che invece di essere prelevata” come ostaggio, sarebbe stata deferita a un tribunale militare di guerra sotto l’imputazione di aiuto al nemico se considerata cittadina italiana o a una corte marziale sotto l’imputazione di atto ostile all’esercito occupante se considerata cittadina di Stato occupato o alleato allo Stato occupato , la procedura per l’imposizione di una contribuzione in denaro da parte del comando militare sarebbe stata pressappoco la medesima in quanto, in base alle necessità di guerra e ai bisogni dell’esercito, il comandante dell’unità, priva della possibilità di comunicare con il comando supremo art. 17 legge di guerra avrebbe legittimamente emanato un bando in qualsiasi forma atta a manifestare la sua volontà o, se in territorio occupato, avrebbe provveduto, con l’ordine scritto di cui all’art. 64 legge di guerra, all’imposizione di un contributo in denaro, contributo individuale per l’impossibilità dovuta alle circostanze di imporre un contributo generale proporzionato ai singoli carichi tributari dei cittadini. Ne consegue, a detta del Tribunale di Torino, la legittimità dell’operato del comando partigiano il quale ha provveduto prima a imporre all’attore il contributo in denaro di un milione con ordine scritto, poi a imporre il contributo di tre milioni portando a conoscenza del soggetto debitore la propria volontà in una riunione e con ciò ha osservato i criteri che devono regolare l’attività di un comando in guerra per provvedere alle esigenze della propria difesa e del proprio esercito.

Tribunale di Torino, sentenza 11 luglio 1947 Presidente Merlo – Estensore Martino Deve ritenersi pacifico in fatto che il Comando partigiano, a seguito dell’attacco improvviso di una sua pattuglia da parte dei tedeschi nello stabilimento Ostino, aveva deciso una violenta rappresaglia che, per evitare tale rappresaglia e le sue conseguenze per la popolazione civile, il C.L.N. di Chieri aveva ottenuto dal Comando partigiano che la rappresaglia sullo stabilimento Ostino fosse sostituita con l’imposizione del pagamento di un milione e che il relativo ordine scritto dal Comando partigiano pervenne all’Ostino omissis che l’Ostino non ottemperò all’ingiunzione che nel marzo 1945 una figlia dell’Ostino fu presa come ostaggio dal Comando della brigata N. Montano che avendo l’Ostino sollecitato trattative, a seguito di queste, condotte dal Comandante della predetta brigata in conformità delle disposizioni del Comandante della VIII Zona Piemonte, ricevette una seconda ingiunzione, questa verbale, per il pagamento di tre milioni, ingiunzione che l’Ostino accettò che l’ostaggio venne rilasciato e il giorno successivo l’Ostino pagò i due milioni e mezzo per integrare il versamento di mezzo milione fatto al momento dell’ingiunzione che il versamento fu fatto a mani del Fantini perché lo rimettesse al Comando partigiano, ciò che costui fece a mezzo del Peverelli che il Comando partigiano rilasciò ricevuta per tre milioni all’Ostino e, per ordine del Comando superiore, lasciò a disposizione del C.L.N. di Chieri facendosi rilasciare la ricevuta prodotta in copia dall’attore uno dei tre milioni che fu poi dal C.L.N. non trattenuto ma assegnato e consegnato al Comando della 30° brigata SAP L. Capriolo. Ciò premesso, il primo punto dell’indagine deve essere quello se al Comando partigiano fosse lecito esercitare rappresaglie e imporre contribuzioni in denaro la possibilità di prendere ostaggi è strettamente connessa con tali facoltà, per cui dalla liceità di queste deriverebbe la liceità di quella, ma nella specie non ha rilievo per la decisione, essendo evidente che la cattura della figlia dell’Ostino come ostaggio è stata parallela ma, indipendente, al corso degli avvenimenti che dalla decisione di rappresaglia hanno portato all’applicazione della prima imposizione di tributo triplicato, è stata cioè occasione, ma non causa di tale seconda imposizione accettata dall’Ostino al fine anche di accertare se l’autorità giudiziaria sia competente a giudicare, senza entrare nell’ambito della discrezionalità della pubblica amministrazione l’atto lamentato dall’attore, e se esistesse nella specie il presupposto per l’esercizio di un potere discrezionale di un organo pubblico. Va anzitutto riconosciuto il fondamento dell’affermazione del convenuto che le formazioni partigiane inquadrate nel C.V.L. facevano parte delle forze armate dello Stato italiano. Indipendentemente infatti da ogni richiamo alle norme della seconda Convenzione dell’Aja del 1899 e della IV Convenzione del 1907 le quali dispongono che le leggi, i diritti e i doveri della guerra non si applicano soltanto all’esercito, ma anche alle milizie e ai corpi volontari, e al principio messo in luce anche dalla più recente dottrina per il quale la distinzione tra esercito regolare e milizie volontarie ha importanza nel diritto interno, non nel diritto internazionale, il quale dà rilievo solo al loro tratto comune di costituire gli organi belligeranti dello Stato, è certo che nel nostro ordinamento giuridico l’art. 1 del decreto 28 febbraio 1945 n. 73, delegando al C.L.N.A.I. la rappresentanza del Governo nella lotta contro il nemico” è venuto a parificare il C.V.L., organizzazione militare del C.L.N.A.I. all’esercito regolare, organizzazione militare del Governo legittimo. E tale piena parificazione si riscontra in tutta una serie di provvedimenti legislativi del Governo, prima luogotenenziale e poi repubblicano che si sono riferiti ai patrioti inquadrati nelle formazioni militari riconosciute dai Comitati di liberazione nazionale”” d. lgs. luog. 12 aprile 1945 n. 194 art. 1 d. lgs. 16 settembre 1946 n. 304, art. 7, d. lgs. luog. 21 agosto 1945 n. 518 e agli uffici stralcio dei comandi regionali di zona del C.V.L. art. 6 decreto 21 agosto 1945 cit. che hanno equiparato a tutti gli effetti i partigiani combattenti ai militari volontari che hanno operato con le unità regolari delle forze armate nella guerra di liberazione d. legis. 6 settembre 1946 n. 93 regolando promozioni, avanzamenti e decorazioni in conformità all’ordinamento dell’esercito regolare decreto legisl. 6 settembre 1946 n. 94 . E nella più recente dottrina si è autorevolmente avvertito che in ogni caso tali provvedimenti, agli effetti di un pieno riconoscimento, da parte dello Stato investito della sovranità, della attività di formazioni partigiane, avrebbero avuto efficacia ex tunc per la loro evidente portata dichiarativa riferentesi a fatti precorsi, senza che si potesse parlare di portata retroattiva, essendosi trattato di funzioni rese necessarie da esigenze della patria in pericolo che si imponevano di fronte a tutti i cittadini. Accertato così che i comandi partigiani, ai quali è fatto riferimento in questo giudizio, devono essere considerati esattamente come comandi organici dell’esercito italiano, deve prendersi in esame il punto se nei poteri di un comando militare in zona di operazioni rientrino quelli relativi agli atti impugnati dall’Ostino. L’indagine deve tener conto di quello che è un principio fermo del diritto bellico, doversi cioè tener conto della difficoltà di usare norme e principi generali che riescano applicabili alle particolari situazioni che in guerra si presentano, nulla avendo i particolari diritti interni dai quali per lo più tali norme e tali principi traggono, che si possa assomigliare alla guerra, principio che nelle vicende belliche dell’Italia successive all’8 settembre 1943 assume particolare importanza per la novità e la complessità della posizione di fatto, mai prima esaminata né prevista dal diritto internazionale, dello Stato italiano e particolarmente di quella parte di esso occupata dalla truppe tedesche, nella quale contemporaneamente si trovavano ed agivano tali truppe, le eterogenee forze armate del cosiddetto governo della R.S.I. e le forze armate italiane rappresentate dalle unità del C.V.L. Prendendo quindi anzitutto in esame la questione dal punto di vista del diritto internazionale, al fine di escludere in ogni campo l’indagine che la sopra rilevata complessità del caso richiede più che mai completa per determinare esattamente i principi applicabili alla fattispecie, e di rilevare l’influenza che in ogni caso tale ordinamento internazionale esercita sulle norme interne che lo Stato ha emanato per disciplinare l’attività delle proprie forze armate, osserva il Collegio che la dottrina più recente ha rinvenuto nella pratica internazionale elementi sufficientemente abbondanti e sicuri per dimostrare che il principio della cosiddetta necessità o ragione di guerra ha trovato ivi pieno riconoscimento, come del resto aveva trovato riconoscimento in tutte quelle norme particolarmente della IV Convenzione dell’Aja omissis . Ma non meno late appaiono le facoltà concesse al comandante militare in zone di operazioni o nei luoghi considerati tali, dal diritto interno italiano. Prendendo infatti in esame le fonti del diritto di guerra italiano e cioè la legge di guerra regio decreto 8 luglio 1938 n. 1415 e il codice penale militare di guerra, appare evidente quella che la dottrina ha definito come una fondamentale eccezione alle regole prestabilite per la formazione della legge, dovuta alla riconosciuta necessità di attribuire ai comandi militari la possibilità di regolare rapporti ed esigenze contingenti che si determinano in relazione alla condotta della guerra e cioè il il c.d. potere di bando disciplinato negli art. 117 e segg. cod. pen. mil. di guerra e negli art. 15 e segg. della legge di guerra. Tale potere di bando è riconosciuto dal legislatore appunto perché nelle eccezionali contingenze belliche il ritardo derivante dall’ordinaria trafila per la creazione delle leggi sarebbe estremamente dannoso alla difesa e alla efficienza militare, in quanto dallo stato eccezionale di guerra possono sorgere tali improvvise necessità, essenziali per l’efficienza delle forze armate, che è indispensabile lasciare ai comandi militari maggiormente investiti di gravi responsabilità e di grande autonomia, la facoltà di emanare provvedimenti che hanno forza di legge nell’ambito del loro comando, per vietare o imporre determinati fatti, da cui può dipendere la sicurezza dell’esercito o la tutela degli interessi della difesa in genere. E al proposito va ancora tenuto presente che, come concordemente riconoscono dottrina e giurisprudenza, il provvedimento emanato è ugualmente legittimo e quindi efficace quando, invece che la tradizionale forma del bando propriamente detto, rivesta qualsiasi altra forma in cui possa manifestarsi la volontà del comandante di imporre determinate norme. La stessa legge di guerra riconosce poi art. 35 regio decreto cit. la possibilità di impadronirsi dei beni nemici per imperiose necessità di guerra” e la facoltà art. 64 di prelevare, per i bisogni delle forze occupanti, contribuzioni in denaro che richiedono soltanto un ordine scritto e il rilascio di una ricevuta, rimanendo subordinata al solito requisito della possibilità” la ripartizione tra gli abitanti, secondo il carico dei tributi. È così chiaro che in sostanza il diritto di guerra, tanto internazionale che interno è, non soltanto ispirato, ma dominato, dal sopra rilevato principio della necessità e ragione di guerra, per il quale al di fuori e anche contro le norme più comuni di tutte le legislazioni e i principi generali del diritto, i poteri di un comandante sono infinitamente più estesi e discrezionali di quelli di qualunque altro funzionario della pubblica Amministrazione e degli stessi organi militari in tempo di pace e fuori della zona delle operazioni. Ma prima di applicare i richiamati concetti al caso in esame, va ancora avvertito, in ossequio al principio, pure ricordato, della necessità di badare all’applicabilità delle norme generali alla particolarità della situazione presentantesi in un determinato caso di guerra, che alla particolarissima situazione dell’Italia settentrionale durante il periodo dell’occupazione tedesca, delle formazioni partigiane e della guerra partigiana, non possono applicarsi sic et simpliciter le disposizioni dettate per una condotta di guerra tradizionale, per formazioni di un esercito regolare e per situazioni prevedibili dal legislatore, ma dovrà, in mancanza di norme particolarmente dettate allo scopo applicarsi il criterio dell’analogia al quale la dottrina concorde riconosce amplissima possibilità di fare ricorso nel diritto di guerra come nel diritto internazionale. Non può infatti evidentemente usarsi per la guerra partigiana la definizione tradizionale di guerra di Alberico Gentili Bellum est publicorum armorum iusta contentio. Publica esse arma utriusque debent che presuppone una pubblicità delle operazioni di guerra le quali sono qui, invece, e devono necessariamente essere caratterizzate dalla clandestinità, come non può farsi applicazione di tutte quelle norme che presuppongono una normale conformazione dell’esercito e l’esistenza di particolari organi di intendenza, commissariato, amministrazione, giustizia militare, ecc. Ma in ogni caso, è certo che nella specie, se in luogo delle formazioni partigiane ci fosse stata un’unità dell’esercito regolare, e se i fatti si fossero verificati in una zona di operazioni a carattere normale, mentre diversa sarebbe stata la sorte della figlia dell’Ostino, che invece di essere prelevata” come ostaggio, sarebbe stata, fondata o infondata che fosse l’accusa mossale, deferita a un tribunale militare di guerra sotto l’imputazione di aiuto al nemico se considerata cittadina italiana o a una corte marziale sotto l’imputazione di atto ostile all’esercito occupante se considerata cittadina di Stato occupato o alleato allo Stato occupato , la procedura per l’imposizione di una contribuzione in denaro all’Ostino da parte del comando militare sarebbe stata pressappoco la medesima in quanto, in base alle necessità di guerra e ai bisogni dell’esercito, il comandante dell’unità, priva della possibilità di comunicare con il comando supremo art. 17 legge di guerra avrebbe legittimamente emanato un bando in qualsiasi forma atta a manifestare la sua volontà o, se in territorio occupato, avrebbe provveduto, con l’ordine scritto di cui all’art. 64 legge di guerra, all’imposizione di un contributo in denaro, contributo individuale per l’impossibilità dovuta alle circostanze di imporre un contributo generale proporzionato ai singoli carichi tributari dei cittadini. Nella specie il Comando partigiano ha provveduto prima a imporre all’attore il contributo in denaro di un milione con ordine scritto, poi a imporre il contributo di tre milioni portando a conoscenza dell’Ostino la propria volontà in una riunione, convocata proprio per iniziativa dell’Ostino stesso e alla quale erano presenti anche terze persone parroco di Chieri , e con ciò ha osservato, nei limiti del possibile, date le sopra ricordate particolari circostanze, i criteri che devono regolare l’attività di un comando in guerra per provvedere alle esigenze della propria difesa e del proprio esercito. All’attore non può quindi riconoscersi veste ad agire, o tanto meno poi nella specie, ad agire contro il Fantini che lo stesso attore ha qualificato delegato del Comando di zona partigiana” e che non ha fatto che eseguire le disposizioni del Comando partigiano, che ha regolarmente versato a tale Comando che il contributo in denaro aveva imposto all’Ostino l’ammontare del contributo stesso, come dimostra chiaramente la ricevuta per tre milioni rilasciata all’Ostino dal capitano Negro comandante della Brigata Montano” e non già membro del C.L.N. contenuto dell’art. 10 di prova del convenuto non contestato dall’attore come dimostra non meno chiaramente la stessa copia di ricevuta 10 aprile 1945 prodotta in causa dall’Ostino, rilasciata dal C.L.N. di Chieri al comando militare partigiano dal quale quindi, e non dall’Ostino, il C.L.N. aveva ricevuto il milione oggi preteso dall’attore. omissis .