Nella stagione della liceità del patto di quota lite c’è sempre spazio per il sindacato disciplinare

Con la sentenza del 4 marzo 2021, n. 6002 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di pronunciarsi su due delicate ed importanti questioni relative al contenzioso disciplinare che riguarda gli avvocati.

In primo luogo, le Sezioni Unite si sono pronunciate su quale sia il rapporto tra la disciplina civilistica e il codice deontologico in relazione al c.d. patto di quota lite . In secondo luogo, è stato precisato quale sia la conseguenza sulla validità delle decisioni disciplinari della decadenza di alcuni membri del Consiglio Nazionale Forense pronunciata dal Tribunale di Roma per la questione del c.d. divieto di terzo mandato consecutivo dei membri del CNF e che è ancora sub judice pendendo il relativo giudizio di appello . Il patto di quota lite. Nel caso di specie tutto ha preso le mosse dalla contestazione disciplinare mossa ad un avvocato che aveva stipulato un patto di quota lite con una cliente che aveva agito anche nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sulla figlia minore senza però coinvolgere il giudice tutelare relativo ad una causa di risarcimento danni. Un patto che era stato qualificato in sede di merito come patto di quota lite ad effetti parziali poiché non prevedeva, per l’ipotesi di soccombenza, l’accollo da parte del professionista delle spese legali di controparte bensì soltanto la rinuncia a chiedere il proprio compenso. Secondo il Consiglio di Disciplina prima e il CNF poi quel patto di quota lite era sproporzionato e, quindi, meritevole della sanzione della censura per violazione dell’art. 29, comma 4 del codice deontologico in base alla quale l’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere senza che, ai fini di quella valutazione, potesse venire in rilievo la circostanza che l’avvocato era addivenuto ad una transazione con la parte assistita diminuendo l’importo richiesto. Le stagioni normative del patto di quota lite Prima di esaminare la questione la Suprema Corte ricostruisce quelle che possono essere definite le stagioni ” del patto di quota lite. La prima stagione è quella del divieto assoluto l’art. 2233 comma 3 sanciva la nullità dei patti di quota lite tra avvocato e cliente anche per interposta persona. La seconda stagione è quella che segue al d.l. n. 223/2006 con la quale il legislatore ha inteso abrogare quelle disposizioni che vietavano di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti il nuovo terzo comma dell’art. 2233 prevede che quei patti conclusi tra avvocati e clienti debbano avere forma scritta. La terza stagione è quella che segue all’entrata in vigore della nuova legge professionale di cui alla l. n. 247/2012 che, pur nell’ambito della libertà delle parti di pattuire il compenso, ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa art. 13 comma 4 in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite. tra liceità civilistica e rilievo deontologico. Orbene, il patto di quota lite oggetto del procedimento disciplina era un patto di quota lite stipulato durante la seconda stagione, quindi, in astratto lecito”. La liceità civilistica e l’ aleatorietà del patto tuttavia ricorda la Suprema Corte non esclude la possibilità di valutarne l’equità in sede disciplinare allo scopo di verificare se la stima effettuata dalle parti era all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio . Si tratta di una valutazione complessa che non tiene ovviamente conto soltanto del confronto con le somme che avrebbero potuto essere chieste in base alla tariffa . Ne deriva che non può trovare accoglimento la tesi che era stata sostenuta dal ricorrente secondo cui la liceità del patto di quota lite da un punto di vista privatistico farebbe venire meno la possibilità stessa di un suo sindacato in sede disciplinare . Decadenza dei membri del CNF e regolare costituzione del giudice. La seconda questione esaminata dalla Suprema Corte è quella volta a individuare quale sia la conseguenze della intervenuta decadenza di alcuni membri del Consiglio Nazionale Forense a seguito dell’ordinanza del Tribunale di Roma del 28 Settembre 2020 che aveva dichiarato decaduti alcuni membri del CNF per la nota questione del divieto di terzo mandato consecutivo e della quale avevamo dato notizia con nota di F. Valerini, Confermata l’ineleggibilità dell’ex presidente e di altri consiglieri nuove elezioni al CNF , questione tutt’ora sub judice pendendo giudizio davanti alla Corte di appello di Roma. Nel caso di specie, la peculiarità è che quella decadenza è intervenuta dopo l’udienza pubblica all’esito della quale fu assunta la decisione e prima del deposito della motivazione della sentenza. Secondo il ricorrente, quindi, ci sarebbe un vizio di costituzione del giudice in quanto i membri nel frattempo decaduti non avrebbero potuto sottoscrivere la sentenza. Senonché, la Suprema Corte occorre dare seguito all’orientamento secondo cui il momento della pronuncia della sentenza – nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all’ufficio per poter adottare un provvedimento giuridicamente valido – va identificato con quello della deliberazione della decisione collegale, mentre le successive fasi dell’iter formativo dell’atto, e cioè, la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia . Inoltre, le Sezioni Unite precisano anche che il provvedimento successivo di ineleggibilità non [ha] fatto venir meno il potere-dovere del collegio giudicante di condurre a termine l’iter decisionale con la sottoscrizione ed il deposito della sentenza .

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 9 febbraio – 4 marzo 2021, n. 6002 Presidente Cassano– Relatore Cirillo Fatti di causa 1. L’avv. G.G. fu sottoposto a procedimento disciplinare a seguito della comunicazione presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano da parte di una sua cliente la quale aveva lamentato, in particolare, che il professionista - avendola assistita in un giudizio finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte di suo marito, giudizio nel quale ella rappresentava anche la figlia minore della coppia - le avesse fatto sottoscrivere, in data 24 maggio 2010, un patto di quota lite relativo alla causa in corso. Quel patto prevedeva che, in caso di esito positivo del giudizio di appello proposto dall’avv. G. in favore della sua cliente, costei avrebbe dovuto versargli una somma pari ad un terzo di quanto eventualmente liquidato dal giudice di appello a titolo di risarcimento dei danni il tutto senza autorizzazione del giudice tutelare. Deliberata l’apertura del procedimento disciplinare e disposto il rinvio a giudizio in data 13 novembre 2014, divennero operativi i Consigli distrettuali di disciplina, cui gli atti vennero trasmessi. A conclusione del procedimento, il C.D.D. di Milano ritenne il professionista responsabile dell’illecito di cui all’art. 9, e art. 29, comma 4, del Codice deontologico forense e lo condannò alla sanzione della censura. 2. La pronuncia è stata impugnata dall’avv. G. e il Consiglio nazionale forense, con sentenza del 24 giugno 2020, ha rigettato il gravame, con conferma della pronuncia del Consiglio distrettuale di disciplina. Ha affermato il C.N.F. che il testo dell’accordo stipulato il 24 maggio 2010 non prevedeva anche l’accollo, da parte del professionista, delle spese di parte avversa in caso di sconfitta, ma solo l’eventuale rinuncia a quelle proprie, per cui era da ritenere un patto di quota lite ad effetti parziali. La sentenza ha rilevato che quel patto aveva una natura evidentemente esosa alla luce di quelle che erano le tariffe professionali all’epoca vigenti. Ed infatti, gli onorari per il primo grado non potevano superare la somma di Euro 24.000 Euro 27.500 calcolando anche l’aumento del 15 per cento per spese generali , mentre quelle del secondo grado non potevano superare la somma di Euro 35.000, per un totale di Euro 62.500 tra i due gradi. Per cui, anche ipotizzando il carico delle spese di controparte, nella misura tra Euro 15.000 ed Euro 20.000, l’esborso complessivo non avrebbe potuto superare la somma di Euro 80.000 ovvero 85.000 pari al 60 per cento di quanto effettivamente richiesto dall’avv. G. alla sua cliente Euro 140.000 . Ciò premesso, il C.N.F. ha osservato che il giudizio deontologico che si esprime in sede disciplinare opera su un piano diverso da quello del giudizio civile promosso tra le parti per il pagamento del compenso professionale, il che spiegava la ragionevolezza della decisione adottata dal C.D.D. di Milano . La decisione del Consiglio distrettuale, infatti, aveva operato un giusto contemperamento, valutando il comportamento complessivo dell’avv. G. per cui doveva essere condiviso il giudizio ivi espresso, secondo cui il professionista non aveva agito con lealtà e correttezza nei confronti della cliente, richiedendo un compenso sproporzionato ed eccessivo ai sensi dell’art. 29 del C.D.F., alla luce del confronto tra l’attività espletata e la misura della remunerazione da considerare equa. Tale giudizio di disvalore non poteva essere modificato per il fatto che l’avv. G. aveva poi stipulato una transazione con la sua cliente nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo per crediti professionali. 3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. G.G. con atto affidato a quattro motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. Fissato per l’udienza pubblica del 9 febbraio 2021, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale. Il Procuratore generale ha presentato requisitoria per iscritto, chiedendo che il ricorso venga rigettato. Il ricorrente ha depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , nullità della sentenza per difetto di costituzione del Collegio giudicante, in relazione all’art. 158 c.p.c., e alla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 34. Osserva il ricorrente che il C.N.F. risultava composto all’udienza pubblica del 13 luglio 2019, data in cui fu assunta la decisione, da una serie di professionisti, tra i quali gli avvocati M. , P. , A. , Ma. di , O. , Pa. e S. mentre la motivazione della sentenza è stata depositata il 24 giugno 2020. Tutti gli avvocati indicati erano stati proclamati eletti in data 22 febbraio 2019, ma avverso la loro nomina è stato proposto ricorso al TAR del Lazio. Dichiarato da questo il difetto di giurisdizione, la causa è stata riassunta davanti al Tribunale ordinario di Roma il quale, con ordinanza cautelare del 13 marzo 2020, ha sospeso gli effetti della proclamazione degli eletti, ed è pendente il giudizio di merito. Rileva il ricorrente che, una volta verificatosi l’annullamento giurisdizionale della proclamazione degli eletti, ne risulterebbe ineludibilmente concretato il difetto di costituzione del Collegio stesso, con conseguente insanabile nullità della sentenza impugnata . 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 , nullità della sentenza sotto diverso profilo, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 , e art. 161 c.p.c., comma 2, in relazione al R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, comma 1. Osserva il ricorrente che la sentenza impugnata è stata sottoscritta dal Presidente del Collegio giudicante, avv. M. , e dal Segretario di udienza, avv. B. . Alla data del deposito, cioè il 24 giugno 2020, c’era già stato il suindicato provvedimento di sospensione cautelare, senz’altro operativo nei confronti dell’avv. M. , il quale non avrebbe potuto validamente apporre la sua sottoscrizione. Per cui, venuto meno il suo status di componente del C.N.F., il Presidente si trovava in una situazione di impedimento art. 132 c.p.c., comma 3 , con conseguente nullità insanabile della sentenza impugnata. 3. Il primo ed il secondo motivo devono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistente, e sono entrambi privi di fondamento. 3.1. Queste Sezioni Unite, affrontando un problema simile a quello odierno, hanno già stabilito, nella sentenza 26 settembre 2017, n. 22358, che in tema di sanzioni disciplinari nei confronti degli avvocati, il vizio di nomina di uno o più membri del C.N.F. non può influire sulla validità originaria della pronuncia di tale organo, in quanto, ai fini della regolare costituzione del giudice, assume rilevanza il momento della deliberazione della decisione. Nel caso oggetto di quella pronuncia il vizio di composizione del collegio giudicante era diverso, come diversa fu la scansione dei tempi processuali, perché la sentenza del C.N.F. venne deliberata e anche depositata prima del provvedimento di caducazione. Nel caso odierno, invece, la caducazione si colloca nel periodo intermedio tra l’assunzione della decisione e il deposito. La sentenza qui impugnata, infatti, deliberata nella camera di consiglio del 13 luglio 2019, è stata depositata il successivo 24 giugno 2020. Nelle more, come risulta dai documenti prodotti dal ricorrente, il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza cautelare del 13 marzo 2020, ha sospeso gli effetti della proclamazione degli eletti successivamente, con decisione definitiva del 25 settembre 2020, prodotta dal ricorrente in sede di memorie di cui all’art. 378 c.p.c., il Tribunale ha dichiarato ineleggibili alla carica di componente del C.N.F. gli avvocati M. , Pa. , P. , Ma. di , S. , A. , O. e Sica. Da tale declaratoria di ineleggibilità l’odierno ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, sia in relazione alla composizione del collegio giudicante primo motivo che alla sottoscrizione del provvedimento impugnato da parte dell’avv. M. secondo motivo . 3.2. Si tratta, però, di una deduzione infondata. Costituisce costante insegnamento della giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui il momento della pronuncia della sentenza - nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all’ufficio per potere adottare un provvedimento giuridicamente valido - va identificato con quello della deliberazione della decisione collegiale, mentre le successive fasi dell’iter formativo dell’atto, e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia. Ne consegue che anche un giudice che ha cessato di essere titolare dell’organo deliberante può redigere la motivazione della sentenza e sottoscriverla in quel caso di trattava di una sentenza resa dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura depositata dopo che i componenti del Consiglio erano cessati dalle funzioni per scadenza del mandato consiliare . Questo principio, nel cui solco si colloca la sentenza n. 22358 del 2017 sopra richiamata, è stato costantemente ribadito in seguito in relazione al giudice collegiale , rilevandosi che la data da tenere in considerazione ai fini della verifica sulla regolare composizione del collegio giudicante è quella della deliberazione in camera di consiglio, e non quella del successivo deposito v., in tal senso, tra le altre, le sentenze 6 maggio 1993, n. 5227, 30 novembre 2012, n. 21437, e 4 novembre 2014, n. 23423 . Le Sezioni Unite intendono dare ulteriore continuità a questo principio, alla luce del quale la sentenza odierna non può ritenersi viziata in quanto, come si è visto, assunta nella camera di consiglio del 13 luglio 2019, cioè prima che il Tribunale di Roma pronunciasse il provvedimento cautelare di sospensiva seguito, poi, da quello definitivo di ineleggibilità. Per cui nessun rilievo assume il fatto che il deposito sia avvenuto il 24 giugno 2020, momento in cui era intervenuto il provvedimento cautelare suindicato. È da ritenere, d’altra parte, che il provvedimento successivo di ineleggibilità non abbia fatto venire meno il potere-dovere del collegio giudicante di condurre a termine l’iter decisionale con la sottoscrizione ed il deposito della sentenza. Ne consegue che i primi due motivi di ricorso sono destituiti di fondamento. 4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., dell’art. 1362 c.c., comma 1, nonché eccesso di potere per irragionevolezza e contraddittorietà della motivazione, in relazione al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 2. Rileva l’avv. G. che la sentenza impugnata manifesterebbe in modo evidente l’avversità del C.N.F. nei confronti del patto di quota lite la decisione, infatti, limitandosi a ricalcare la motivazione del Consiglio distrettuale di disciplina senza uno specifico esame critico della stessa, si risolverebbe nella conferma dell’improbabile sillogismo sul quale essa è costruita. La doglianza ricorda che l’art. 2233 cit., che prevedeva in origine il divieto del patto di quota lite, è stato modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modifiche, nella L. 4 agosto 2006, n. 248. In base a tale normativa, applicabile nella fattispecie, è stata eliminata l’obbligatorietà delle tariffe fisse, così come la possibilità di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Ne conseguirebbe che, come già rilevato in giurisprudenza, assume un ruolo fondamentale l’accordo concluso tra le parti avente ad oggetto la determinazione dei compensi in favore dell’avvocato per cui sarebbe assurdo, secondo il ricorrente, poter affermare l’illiceità del patto di quota lite in sede disciplinare quando ben può esserne riconosciuta la liceità in sede civilistica. La censura rileva che la sentenza avrebbe, quindi, violato anche i criteri di ermeneutica del contratto. 4.1. L’esame di questo motivo esige alcuni passaggi ricostruttivi preliminari. Com’è noto, il c.d. patto di quota lite tra l’avvocato e la parte da lui assistita ha avuto una complessa evoluzione legislativa. Vietato in modo assoluto dall’art. 2233 c.c., comma 3, nella sua originaria formulazione, quel patto è divenuto lecito in base alla modifica di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 2, convertito, con modifiche, nella L. n. 248 del 2006, che ha stabilito l’abrogazione delle disposizioni legislative che prevedevano, tra l’altro, il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti . Il successivo art. 2 cit., comma 2 bis, introdotto in sede di conversione, ha poi riscritto l’art. 2233 c.c., u.c., stabilendo l’obbligo di forma scritta, sotto pena di nullità, per i patti conclusi tra gli avvocati e i clienti contenenti la regolazione dei compensi professionali. La successiva nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense introdotta dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, pur stabilendo che la pattuizione dei compensi è libera art. 13, comma 3 , ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa art. 13, comma 4 , in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite v. sul punto la sentenza 6 luglio 2018, n. 17726, della Terza Sezione Civile di questa Corte . Il patto oggetto del caso odierno si colloca nel periodo intermedio tra la riforma di cui al D.L. n. 223 del 2006, e la L. n. 247 del 2012, in quanto è stato stipulato nel 2010, quando cioè esso era, almeno in astratto, lecito. 4.2. Ciò premesso, si rileva che queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di occuparsi del patto di quota lite in relazione al periodo intermedio ora ricordato v. la sentenza 25 novembre 2014, n. 25012, avente ad oggetto un patto concluso nel 2008 . In quella sentenza è stato stabilito, con un’enunciazione di principio alla quale va data continuità nella sede odierna, che l’aleatorietà del patto in questione non esclude la possibilità di valutarne l’equità . In altri termini, la liceità in astratto di quell’accordo non esclude che in sede di giudizio disciplinare possa essere valutata la concretezza del caso specifico allo scopo di verificare se la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio così la sentenza n. 25012 del 2014 . Sulla base di tale impostazione viene a cadere una delle argomentazioni difensive dell’odierno ricorrente, e cioè quella secondo cui la liceità del patto di quota lite da un punto di vista privatistico farebbe venire meno la possibilità stessa di un suo sindacato in sede disciplinare in tal senso v. già la citata sentenza n. 17726 del 2018 . Ai fini di valutare la fondatezza o meno del motivo di ricorso in esame, quindi, queste Sezioni Unite sono chiamate a verificare se la sentenza impugnata abbia o meno svolto la necessaria valutazione, attenendosi alle regole che si sono ora ricordate. E la lettura della sentenza del C.N.F. dimostra che il giudice disciplinare ha rispettato tale impostazione. La sentenza impugnata, infatti, ha premesso che l’incolpazione disciplinare era stata elevata ai sensi dell’art. 9, e art. 29, comma 4, del Codice deontologico forense norma, quest’ultima, che vieta all’avvocato di richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere . Dopo di che, il C.N.F. ha esaminato il contenuto dell’accordo - che prevedeva l’obbligo, da parte della cliente, di versare al professionista un terzo delle somme effettivamente liquidate in favore suo e della figlia minore - ed ha posto in luce come, a fronte di un credito accertato in sede giudiziale in favore della cliente per la somma di Euro 432.000, la somma richiesta dall’avv. G. Euro 180.000, poi ridotta ad Euro 140.000 fosse da ritenere eccessiva in rapporto all’attività effettivamente svolta. Nel fare questo, la sentenza ha assunto come riferimento la somma massima che l’avvocato avrebbe potuto esigere a titolo di onorario in base alle tariffe vigenti, rilevando come la stessa fosse tra gli 80.000 e gli 85.000 Euro, pari cioè al 60 per cento circa di quanto realmente richiesto Euro 140.000 . Oltre a questo, la sentenza ha ricordato che l’accordo non prevedeva, in caso di soccombenza, anche l’esonero dal pagamento delle spese della controparte e che la cliente si era determinata a stipularlo senza l’autorizzazione del giudice tutelare la causa era stata svolta, infatti, anche a tutela dei diritti della figlia minore . Non si tratta, dunque, di una motivazione che si fonda soltanto sul computo dei possibili onorari professionali che l’avv. G. avrebbe potuto richiedere la sentenza non si limita - contrariamente a quanto sostiene il ricorrente - all’irrazionale procedimento ragionieristico di calcolo ragguagliato alle inapplicabili tariffe , ma affronta la liceità del patto alla luce della vicenda nella sua globalità, con un accertamento di merito che non è in questa sede sindacabile, in quanto fondato su corretti presupposti. Ne consegue l’infondatezza del motivo in esame. 5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 , violazione e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 2. Osserva il ricorrente che la liceità del patto stipulato tra le parti il 24 maggio 2010 farebbe venire meno il presupposto stesso dell’azione disciplinare, con conseguente illiceità anche della sanzione inflitta, che il C.N.F. ha confermato attraverso il riferimento assiomatico a principi generali in specie del tutto inconferenti . 5.1. Il motivo deve considerarsi assorbito, sulla base delle considerazioni svolte a proposito del motivo precedente, nella parte in cui si limita a sostenere che la liceità del contestato patto farebbe venire meno la legittimità della sanzione inflitta. Quanto, invece, all’entità della sanzione della censura, che il ricorrente ritiene eccessiva, si tratta di un profilo che attiene alla valutazione di merito del giudice disciplinare, come tale inammissibile nella presente sede di legittimità non senza aggiungere che l’art. 29, comma 9, del Codice deontologico prevede per la violazione del precedente comma 4 la sanzione della censura. 6. Il ricorso, pertanto, è rigettato. Poiché, nel presente giudizio di impugnazione, contraddittore necessario è il Consiglio dell’ordine territoriale, mentre non spetta una legittimazione autonoma al Consiglio distrettuale di disciplina esistente presso il medesimo, nei confronti del Consiglio distrettuale di disciplina il ricorso è inammissibile. Non occorre provvedere sulle spese, attesa la mancata costituzione in questa sede della parte intimata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nei confronti del C.O.A. di Milano e lo dichiara inammissibile nei confronti del Consiglio distrettuale di disciplina istituito presso il medesimo. Nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.