In caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione si rispetta col deposito del ricorso

In caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione è rispettato dal deposito del ricorso. Eseguito tempestivamente tale adempimento, la fissazione successiva di un ulteriore termine, da parte del giudice per il ripristino del contraddittorio, pur presupponendo che il detto termine sia stato rispettato, oramai ne prescinde, rispondendo solo alle regole della vocatio in ius.

Il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione di udienza non si comunica alla riassunzione, ma impone al giudice di ordinare, anche qualora si sia oltre i termini per la riassunzione ex articolo 305 c.p.c., una rinnovazione della notifica, in analogia con l’articolo 291, comma 2, c.p.c., entro un termine perentorio il mancato rispetto di tale termine comporterà l’estinzione del giudizio, in applicazione del combinato disposto degli artt. 291, comma 3 ed 307, comma 3, c.p.c Avvenuta l’imputazione di pagamento da parte del debitore, è onere del creditore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, dimostrare sia l’esistenza di più debiti scaduti, sia la presenza dei presupposti che consentono l’applicazione dei criteri sussidiari di imputazione di cui all’articolo 1193 c.c La norma di cui all’articolo 754 c.c., secondo cui gli eredi rispondono dei debiti del de cuius nei limiti della quota ereditata, va interpretata nel senso che il coerede convenuto per il pagamento del debito ereditario ha l’onere di rendere noto al creditore tale limite e trattandosi di eccezione propria, ove trattasi di credito di lavoro, entro la memoria difensiva ex articolo 416 c.p.c., essendo tenuto, in mancanza, a pagare l’intero. Tale in sintesi il contenuto dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 450/20, depositata il 14 gennaio, che ora andiamo ad analizzare più da vicino. I fatti di causa. Il giudizio trae origine dall’opposizione a decreto ingiuntivo per compensi professionali ottenuto da un’associazione professionale di avvocati nei confronti di un cliente. Con l’opposizione, questi affermava di avere pagato le prestazioni svolte. Il giudizio veniva interrotto due volte a seguito al decesso, la prima volta nel 2001 , di uno dei due avvocati, la seconda nel 2003 , di uno dei suoi eredi. Nel primo caso, l’avvocato comunicava l’avvenuto decesso del collega e la trasformazione dell’associazione. Il giudice dichiarava l’interruzione ed il giudizio veniva riassunto dall’opponente, che notificava l’atto all’avvocato, in qualità di rappresentante dell’associazione e di erede, nonché agli altri eredi. Nel secondo caso, relativo al decesso di uno degli eredi, il giudizio veniva nuovamente interrotto, ma l’atto veniva notificato solo all’avvocato e non agli altri eredi . In conseguenza di ciò, lo studio professionale eccepiva l’estinzione del giudizio, ma il giudice disponeva l’integrazione del contraddittorio. La sentenza di primo grado dava ragione all’opponente revocando dunque il decreto ingiuntivo e condannando le controparti alla restituzione di quanto percepito, oltre al pagamento delle spese processuali nonché al risarcimento del danno ex articolo 96 c.p.c Proposto l’appello, per quel che qui interessa, il giudice disponeva nel seguente modo affermava la legittimazione attiva dello studio professionale confermava il rigetto dell’eccezione di estinzione, rilevando che in relazione al secondo evento interruttivo, la riassunzione con il deposito del ricorso era avvenuta nei tempi di legge accertava che tutti i versamenti effettuati erano stati percepiti dallo studio e l’esistenza di un assegno pari alla somma di cui al d.i. e rilevava che una volta effettuata l’imputazione da parte del debitore, sarebbe spettato al creditore provare una diversa imputazione riteneva che dalle somme da restituire non si dovessero detrarre le spese sostenute per l’esecuzione, né la ritenuta d’acconto escludeva la condanna per responsabilità aggravata ex articolo 96 c.p.c. quanto alle spese, condannava l’associazione per il primo grado e compensava quelle del secondo. I soccombenti ricorrono dunque in Cassazione. In caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione si riferisce al deposito del ricorso. Con il primo motivo, essi contestano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 393, 305, 307 c.p.c. e 154 c.p.c. in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c. . Pertanto, insistono perché venga dichiarata l’estinzione del giudizio per la mancata notifica dell’atto di riassunzione alle altre parti, litisconsorti necessari , dolendosi del mancato accoglimento della relativa eccezione in secondo grado e del conseguente ordine di integrazione del contraddittorio, avvenuto oltre i sei mesi dalla data di interruzione del giudizio. Il motivo è respinto. La Corte richiama il consolidato principio di legittimità per cui, in caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione è rispettato con il deposito del ricorso entro i sei mesi richiama Cass. SS. UU. n. 27183/07 ricordiamo che, a seguito della l. n. 69/2009, tale termine è stato ridotto a 3 mesi. La Corte prosegue rilevando che una volta eseguito il depositato del ricorso, non trova più applicazione il termine per la riassunzione, atteso che il giudice fisserà un nuovo termine per il ripristino del contraddittorio interrotto nuovo termine, che presuppone sia avvenuto il rispetto del termine per la riassunzione, ma oramai ne prescinde, dovendosi in tale fase unicamente rispettare le esigenze e le regole, della vocatio in ius . Dunque, l’eventuale vizio della notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione di udienza non tocca la riassunzione, già avvenuta e perfezionatasi, ma impone al giudice di ordinare anche oltre il termine previsto per la riassunzione ex articolo 305 c.p.c. la rinnovazione della notifica, in analogia a quanto prescritto dall’articolo 291 c.p.c. in caso di convenuto contumace , entro un termine necessariamente” perentorio il mancato rispetto di detto termine, per il combinato disposto dell’articolo 291, comma 3 e 307, comma 3, c.p.c. comporterà, ora sì, l’estinzione del giudizio la sentenza richiama qui alcuni precedenti di legittimità e cioè Cass. n. 9819/18, Cass. n. 7131/15, Cass. n. 6921/19 . Se il debitore prova di avere pagato, spetta al creditore provare la necessità di una diversa imputazione. I ricorrenti, con il secondo motivo contestano la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. ed affermano che il giudice, riconosciuta la legittimazione attiva dell’associazione professionale, avrebbe dovuto ritenere che l’ingiunto, con l’atto introduttivo dell’opposizione avrebbe ammesso il debito con il terzo motivo lamentano che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente ritenuto che i pagamenti provati in giudizio fossero da riferirsi al credito portato dal decreto ingiuntivo opposto e contestano con il terzo motivo la violazione falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 116 c.p.c., 1193 c.c., 1195 c.c., 2712 c.c. e 2697 c.c. in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c. . Ma la Corte afferma che il giudice territoriale una volta affermata la legittimazione attiva dello studio professionale, riformando la sentenza di primo grado, e pronunciandosi così sulla domanda di cui al ricorso per d.i. e sull’eccezione di pagamento dell’ingiunto , ritenuti provati i pagamenti da parte del debitore, ha correttamente applicato quanto disposto dall’articolo 1193 c.c. in tema di imputazione di pagamenti. Richiama il principio, già affermato menziona i precedenti di Cass. n. 17102/06 e n. 14620/09 , secondo cui, una volta che il debitore ha effettuato l’imputazione dei pagamenti, è al creditore che spetta di provare sia l’esistenza di più debiti scaduti, nonché dei presupposti per cui debbano applicarsi i criteri sussidiari di cui all’articolo 1193 c.c. testualmente, si è statuito che quando una parte agisce per l'adempimento di un proprio credito ed il convenuto dimostra di avere pagato delle somme idonee ad estinguere il debito, spetta all'attore, il quale sostenga che quel pagamento doveva essere imputato ad altro credito già scaduto, dare la prova dell'esistenza dell'altro credito e delle condizioni necessarie per la dedotta diversa imputazione Cass. n. 17102/06 . Prova questa che, per il giudice del merito, il cui accertamento di fatto è insindacabile in sede di legittimità, non c’è stata. Il giudice ha il potere di individuare le norme su cui basare la decisione. Quanto alla contestazione relativa al mancato rispetto dell’articolo 112 c.p.c. - che prescrive la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, statuendo testualmente che Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti - i giudici rammentano che non ricorre tale ipotesi nei casi in cui il giudice dà una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed all’azione proposta, rientrando tra i suoi poteri quello di individuare le norme applicabili alla fattispecie e di decidere sulla base di principi differenti da quelli indicati dalle parti si menziona sul punto Cass. n. 15190/17 è il principio noto come iuria novit curia , di cui al successivo articolo 113, comma 1, c.p.c E, nel caso di specie, osservano i Giudici, il ricorrente contesta una diversa valutazione delle prove e dell’interpretazione dell’atto di opposizione a d.i Gli eredi rispondono nei limiti della quota ereditata, se ne informano il creditore. Con il quarto motivo, deducendo la violazione dell’articolo 2033 c.c. circa la restituzione dell’indebito oggettivo il ricorrente contesta la condanna al pagamento delle somme ricevute in esecuzione del d.i. anche nei confronti degli eredi, affermando che lo statuto dell’associazione professionale esclude il diritto degli eredi di percepire alcuna liquidazione spettante all’associazione. Ma, a parte la genericità del motivo per come proposto, la Corte rileva che, in ogni caso, a nulla rileva la questione posta dal ricorrente alla responsabilità dell’erede per i debiti contratti dal de cuius si applica quanto previsto dall’articolo 754 c.c., per cui gli eredi sono obbligati nei limiti della quota ereditata ma tale norma va interpretata nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di rendere noto al creditore tale limite e detta dichiarazione – in quanto integrante gli estremi dell’eccezione propria – se riguardi un debito di lavoro, va resa entro la memoria difensiva di cui all’articolo 416 c.p.c. con indicazione dei coeredi non raggiunti dal creditore, potendo altrimenti il creditore pretendere l’intero si menzionano qui i precedenti di Cass. n. 25764/08, Cass. n. 15592/07 e Cass. n. 4461/06 . Nell’appello che segue l’opposizione a d.i. e una sentenza non è domanda nuova la richiesta di restituzione. Con il quinto motivo si contesta, in violazione degli artt. 2033 c.c., 189 c.p.c. e 95 c.p.c. e d.P.R. n. 633/1972 in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3 , l’ammissibilità della domanda di restituzione somme, perché proposta per la prima volta dalla controparte in sede di precisazione delle conclusioni contesta altresì la condanna alla restituzione delle spese di esecuzione del d.i. e della ritenuta d’acconto versata. Ma anche questo motivo è respinto dai Giudici, con la motivazione che tale richiesta non può qualificarsi nuova infatti, in caso di somme pagate in virtù di decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo o di sentenza ex lege esecutiva , la richiesta di restituzione delle stesse, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, è conforme al principio di economia processuale comunque non altera i termini della controversia si menziona Cass. n. 12622/10 e Cass. n. 10124/09 ed è dunque ammissibile anche in appello. Ove riformi la sentenza appellata, il giudice deve disporre anche d’ufficio circa le spese di tutto il giudizio. Secondo il ricorrente la sentenza è errata laddove conferma la statuizione circa le spese del primo grado, nell’erroneo presupposto che non avendo impugnato tale capo vi fosse stata acquiescenza sul punto, mentre la parte aveva comunque richiesto la condanna alle spese del doppio grado di giudizio. Si contesta pertanto la violazione dell’articolo 92 c.p.c. in relazione all’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c. . Allorché riformi, anche in parte la sentenza, il giudice dell’appello è tenuto a provvedere, anche d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese, alla luce dell’esito complessivo del giudizio infatti, secondo il disposto di cui all’articolo 336 c.p.c. che al comma 1 prevede che La riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata la riforma della sentenza determina la caducazione del capo relativo alle spese Cass. n. 18637/17, Cass. n. 1775/17, Cass. n. 10615/03 . Secondo i Giudici, la Corte territoriale ha rispettato tale principio laddove, nel riformare la sentenza di primo grado, ne ha confermato la liquidazione in punto di spese.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 26 settembre 2019 – 14 gennaio 2020, n. 450 Presidente Oricchio – Relatore Giannaccari Fatti di causa 1. L’associazione Professionale Studio M. degli Avvocati A. e M.M. proponeva ricorso per decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Milano per chiedere i compensi professionali per l’attività svolta in favore di B.A. , in qualità titolare della ditta Individuale B. Consult, dal maggio 1990 al settembre 1996 e per un decreto ingiuntivo emesso nel luglio 1998. 1.1. Proponeva opposizione B.A. eccependo il pagamento delle prestazioni svolte. 1.2. Nel corso del giudizio di primo grado, l’Avv. M.M. dichiarava il decesso dell’Avv. M.A. e dichiarava altresì che lo studio si era trasformato in Studio Associato A.M. e associati, degli avvocati M.M. e T.R. . 1.2.1. Con ordinanza del 20.6.2001, il giudice dichiarava l’interruzione del giudizio, che veniva riassunto dal B. con ricorso depositato il 26.6.2001 all’Avv. M.M. , in qualità quale rappresentante dello studio associato ed in qualità di erede legittimo di M.A. ed agli eredi del de cuius collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto. 1.2.2. Si costituivano in giudizio gli eredi di M.A. , e segnatamente M.P. , M. e T. , N.A.F. , ed intervenivano M.M. e T.R. per l’associazione professionale. 1.3. All’udienza del 22.3.2003, il procuratore degli eredi M. dichiarava il decesso di N.A. ed il giudizio veniva nuovamente interrotto. 1.3.1. Il giudizio veniva riassunto dal B. e notificato esclusivamente all’Avv. M.M. , quale erede di M.A. ed N.A. e legale rappresentante dello studio associato l’atto di riassunzione non veniva però notificato agli altri eredi di M.A. M.T. e P. nè agli eredi di N.A.F. . 1.3.2. Lo studio M. eccepiva l’estinzione del giudizio ed il giudice, con ordinanza del 17.11.2004 disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di M.A. e N.A.F. . 1.3.3. Si costituivano gli eredi di M.A. e di N.A.F. eccependo l’estinzione del giudizio. 2. Il Tribunale di Milano, con sentenza dell’1.8.2010, accoglieva l’opposizione e, per l’effetto revocava il decreto ingiuntivo, condannando l’associazione Professionale Studio M. degli Avvocati A. e M.M. ed i terzi chiamati, nella duplice qualità di eredi di M.M. e N.A.F. alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione del decreto ingiuntivo oltre alle spese processuali ed al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c 2.1. Proponevano appello lo studio dell’Avv. M.A. e T.R. , gia associazione professionale Studio M. e gli eredi di M.A. e di N.F. , cui resisteva B.A. , in qualità titolare della ditta Individuale B. Consult. 3. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza dell’8.10.2014, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente l’appello dell’associazione professionale e condannava gli eredi alla restituzione delle somme nei limiti della quota ereditaria. 3.1. La corte di merito, per quanto ancora rileva nel presente giudizio - affermava la legittimazione attiva dello studio professionale associato, in presenza di un accordo tra gli associati, nella specie previsto dall’art. 6 del patto associativo - confermava il rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio rilevando che, in relazione al secondo evento interruttivo, rappresentato dal decesso della N. , rilevante in sede legittimità, il ricorso risultava tempestivamente depositato nei sei mesi dalla data di interruzione del giudizio e non rilevava l’omessa notifica a tutti gli eredi - accertava che tutti i versamenti effettuati dal B. furono incassati dall’associazione professionale, così come era stato provato l’emissione di un assegno da parte del B. pari all’importo del decreto ingiuntivo una volta effettuata l’imputazione del pagamento al credito, gravava sull’associazione dimostrare una diversa imputatazione per contestare l’estinzione del debito e, tale onere non era stato assolto sia in relazione al versamento degli assegni, sia in relazione al pagamento della somma di Euro 3000,00 - riteneva che, in relazione alle somme da restituire non dovessero essere detratte le spese corrisposte per le azioni esecutive poste in essere per l’esecuzione del provvedimento monitorio, nè la ritenuta d’acconto versata dal B. come sostituto di imposta che l’associazione poteva dedurre dall’imposta dovuta - escludeva la condanna dello Studio Associato e degli eredi M. per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. - regolava le spese di lite, condannando l’associazione alle spese di lite del giudizio di primo grado e compensando le spese del giudizio d’appello. 4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso lo studio M.A. ed Associati degli Avvocati M.M. e T.R. e gli eredi di M.A. e di N.F. , già erede di M.A. , nelle persone di M.T. , P. e M.M. sulla base di sei motivi 5. Ha resistito con controricorso B.A. , già titolare della ditta Individuale B. Consult. 6. Il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Lucio Capasso ha chiesto l’accoglimento del quarto e quinto motivo, il rigetto dei primi tre e l’assorbimento del quinto. 7. In prossimità dell’udienza, i ricorrenti hanno depositato memorie illustrative. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 393, 305 e 307 c.p.c. e art. 154 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti si dolgono del rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio dai medesimi sollevata per omessa notifica dell’atto di riassunzione ad alcuni eredi di N.A.F. , litisconsorti necessari. La corte di merito avrebbe erroneamente disposto l’integrazione del contraddittorio, con ordinanza del 17.11.2004, ben oltre sei mesi dalla data di interruzione del giudizio avvenuta il 22.10.2003. 1.1. Il motivo non è fondato. 1.2. È principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, in caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione è rispettato se, entro sei mesi viene depositato il ricorso Cassazione civile sez. un., 28/12/2007, n. 27183 . Una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius . Ne consegue che il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione oramai perfezionatasi , ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il diverso termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio solo il mancato rispetto del termine concesso dal giudice determinerà estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3 e del successivo art. 307 c.p.c., comma 3 Cassazione civile sez. III, 20/04/2018, n. 9819 Cassazione civile sez. I, 09/04/2015, n. 7131 Cassazione civile sez. I, 11/03/2019, n. 6921 . 1.3. Nella specie l’interruzione era stata dichiarata il 22.10.2003 ed il ricorso per riassunzione era stato tempestivamente depositato in data 8.3.2004, a nulla rilevando che, nel termine assegnato dal giudice, la notifica fosse stata effettuata solo nei confronti di alcuni eredi correttamente, quindi, il giudice, all’udienza del 17.11.2014 ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi pretermessi, regolarmente effettuata in data 24-26.1.2005. 2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 113 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c,, comma 1, n. 3 i ricorrenti, articolando un motivo di oscura ed a tratti incomprensibile lettura, lamentano che il giudice d’appello, una volta riconosciuta la legittimazione attiva dell’associazione professionale, avrebbe dovuto prendere atto che con l’atto introduttivo del giudizio di opposizione, il B. avrebbe ammesso un debito residuo dell’importo di Lire 3.114.421, risultante dalla documentazione versata in atti. 3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 1193, 1195, 2712 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il versamento degli assegni fossero da imputare al credito azionato in via monitoria mentre, invece, si riferirebbero ad altri crediti, tanto più che sarebbero stati tratti sul conto personale del B. . 4. I motivi, che vanno trattati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati. 4.1. La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, che aveva negato la legittimazione attiva dell’associazione professionale, si è pronunciata sulla domanda proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo e sull’eccezione di pagamento, ritenendo, all’esito dell’istruttoria, che il B. avesse dimostrato l’estinzione del debito attraverso il versamento di assegni mensili e di una somma in contanti pag. 12- 13 della sentenza impugnata . 4.2. Le conclusioni della corte distrettuale applicano correttamente l’art. 1193 c.c., in tema di imputazione di pagamento, in forza del quale, una volta avvenuta l’imputazione di pagamento da parte del debitore, è onere del creditore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, dimostrare sia l’esistenza di più debiti del convenuto scaduti, sia la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di uno dei criteri sussidiari di imputazione stabiliti dall’art. 1193 c.c. Cass. civ. Sez. II, 27/07/2006, n. 17102 Cass. civ. Sez. III Sent., 23/06/2009, n. 14620 . 4.3. Con accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, il giudice d’appello ha ritenuto che la prova da parte del creditore di una diversa imputazione di pagamento non fosse stata fornita, sicché i motivi di ricorso si risolvono in una inammissibile ricostruzione alternativa del rapporti tra l’associazione professionale ed il B. non consentita in sede di legittimità. 4.4. Del tutto priva di fondamento è la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., che ricorre nell’ipotesi in cui il giudice abbia pronunciato oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato, di guisa che non ne ricorre la violazione se il giudice abbia dato una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonché all’azione esercitata in causa, rientrando, nei poteri del giudice ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti Cassazione civile, sez. I, 20/06/2017, n. 15190 . 4.5. Nella specie, il ricorrente si duole dell’omesso pagamento di parte del debito sulla base di una diversa valutazione della documentazione probatoria e dell’interpretazione del contenuto dell’atto di opposizione Cassazione civile, sez. I, 20/06/2017, n. 15190 . 5. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte di merito disposto la restituzione delle somme pagate dal B. , in esecuzione del decreto ingiuntivo, agli eredi dell’Avv. M.A. e di N.A.F. , nonostante il divieto previsto dallo statuto dell’associazione professionale. 5.1. A fondamento della censura, i ricorrenti richiamano una norma dello statuto dell’associazione professionale, che escluderebbe il diritto degli eredi di percepire alcuna liquidazione di cui è titolare l’associazione professionale ma non ne trascrive, nemmeno sinteticamente il contenuto, sicché il motivo è del tutto privo di specificità. 5.2. Va, in ogni caso osservato che la questione relativa alla legittimazione dell’associazione professionale non ha rilievo ai fini della responsabilità dell’erede in relazione ai debiti contratti dal de cuius, per i quali trova applicazione l’art. 754 c.c., secondo la quale gli eredi rispondono dei debiti del de cuius, in relazione al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere detta norma deve essere interpretata nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare al creditore la sua condizione di coobbligato passivo entro il limite della propria quota. Tale dichiarazione integra gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria, sicché la sua mancata proposizione - ove si tratti di debito di lavoro, nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c, con indicazione dei coeredi non raggiunti dall’azione giudiziaria intrapresa dal creditore, - consente al creditore di chiedere, legittimamente, il pagamento per l’intero Cassazione civile sez. lav., 24/10/2008, n. 25764 Cass. 12 luglio 2007 n. 15592 Cass. 28 febbraio 2006 n. 4461 . 6. Con il quinto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., art. 189 c.p.c., dell’art. 95 c.p.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la ricorrente deduce l’inammissibilità della domanda di restituzione delle somme pagate dal B. in esecuzione del decreto ingiuntivo, perché proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni e contesta la condanna alla restituzione delle spese di esecuzione del decreto ingiuntivo e della ritenuta d’acconto versata. 6.1. Il motivo non è fondato. 6.2. La richiesta di restituzione delle somme corrisposte in virtù della provvisoria esecuzione concessa ad un decreto ingiuntivo opposto ovvero in esecuzione della sentenza di primo grado fatta oggetto di appello e provvisoriamente esecutiva ex lege , essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, oltre che conforme al principio di economia dei giudizi, non altera i termini della controversia e, perciò, è ammissibile anche in appello, non costituendo domanda nuova Cassazione civile sez. II 24/05/2010, n. 12622 Cass. 30 aprile 2009 n. 10124 . 6.3. Conseguentemente, non era tardiva la richiesta di restituzione delle somme corrisposte dal B. in esecuzione del decreto ingiuntivo, successivamente revocato dal Tribunale, in accoglimento della opposizione dal medesimo proposta. 6.4. Quanto, invece al rimborso della somma corrisposta a titolo di ritenuta d’acconto dal B. in favore dell’associazione, la decisione è conforme a diritto, in quanto la B. Consult ha agito in veste di sostituto di imposta, e, avendo pagato l’Iva sulla prestazione dovuta, ha portato in detrazione la ritenuta d’imposta versata dal cliente. 7. Con il sesto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere disposto la condanna alle spese del giudizio di primo grado sull’erroneo presupposto che non vi fosse stata impugnazione su tale capo, mentre invece, gli appellanti avrebbero chiesto la condanna della B. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. 7.1. Il motivo non è fondato. 7.2. Com’è noto, in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d’appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese Cassazione civile sez. I, 27/07/2017, n. 18637 Cass. civ. Sez. VI - 3 Ordinanza, 24-012017, n. 1775 conf. Cass., Sez. Un., 10615/2003 . 7.3. Conformemente a tale principio, la corte territoriale ha correttamente applicato il principio della soccombenza in relazione al giudizio di primo grado, ed ha applicato la liquidazione effettuata dal primo giudice, sicché la censura avrebbe dovuto riguardare la violazione dei criteri per la determinazione del quantum della liquidazione, ovvero il superamento dei massimi tariffari. 8. Il ricorso va pertanto rigettato 9. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo. 10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.