L’accordo sul compenso tra avvocato e cliente non si applica quando il soccombente è un terzo

La parte soccombente è tenuta a sostenere solo i costi effettivi del processo e non può essere assoggettata alla misura del compenso stabilita dal contratto di prestazione d’opera stipulato tra l’avvocato e la controparte.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 31192/19, del 28 novembre. La vicenda. La pronuncia della Suprema Corte riguarda la fattispecie di un avvocato che aveva agito in giudizio davanti al Giudice di Pace per ottenere la liquidazione del compenso professionale per l’attività di difensore d’ufficio svolta in un procedimento penale secondo l’accordo intervenuto con il proprio cliente. Il Giudice di Pace, con sentenza confermata dal Tribunale, ha invece ritenuto applicabile l’accordo tra legale e cliente unicamente nell’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a liquidare il compenso a carico dello stesso assistito, non già a carico di un soggetto terzo, il quale altrimenti dovrebbe rifondere a titolo di spese una somma variabile in funzione di un preventivo accordo al quale egli è stato estraneo. Nel successivo ricorso per Cassazione l’avvocato sostiene che le spese processuali debbano essere liquidate comunque in base all’accordo tra la parte vittoriosa e il proprio avvocato, in quanto la tabella dei compensi di cui al d.m. n. 140/2012 avrebbe solo una valenza orientativa e dunque idonea ad essere superata da eventuali accordi tra cliente e il proprio legale. In caso contrario, il cliente sarebbe obbligato a corrispondere al proprio avvocato il compenso pattuito nel loro accordo, anche nel caso in cui questo fosse maggiore di quello liquidato dal giudice. Inoltre, il legale reputa che la condanna alle spese processuali abbia natura risarcitoria e come tale debba ristorare la parte vittoriosa dell’integrale costo sostenuto per il processo. Il contratto di prestazione d’opera intellettuale tra cliente e avvocato. Giova premettere che colui che esercita la professione forense svolge la propria attività in esecuzione di un negozio definito anche contratto di patrocinio o di clientela”, stipulato con il cliente al momento del conferimento dell’incarico, che può avere ad oggetto singoli o più affari, ovvero la soluzione di problemi legali che possano presentarsi nell’attività del cliente. L’abrogazione delle tariffe e il ruolo del giudice. L’intervento del giudice nel contratto di prestazione d’opera intellettuale tra l’avvocato il cliente si giustifica ove questo sia manifestamente squilibrato. Invero, giova rammentare che anche all’art. 43, comma 3 del codice deontologico forense, che preclude all’avvocato la possibilità di richiedere compensi manifestamente sproporzionati all’attività svolta. Infatti, buona fede ed equità, assolvono a un ruolo di assoluto rilievo, ponendosi come parametro di equilibrio negoziale, avendo riguardo al concreto atteggiarsi della situazione e alla peculiarità della singola fattispecie, in sinergia con i valori materiali superiori, caratterizzanti l’ordinamento, i quali costituiscono la necessaria cornice di legittimazione. La l. n. 27/2012, di conversione del d.l. n. 1/2012 c.d. decreto liberalizzazioni” , ha contribuito a chiarire la problematica relativa all’abrogazione delle tariffe, avvenuto con l’ormai celebre art. 9 d.l. n. 1/2012. Infatti, l’art. 9 sulle professioni regolamentate ha assegnato maggiore rilevanza al giudice, rendendo la determinazione del quantum dovuto dal cliente non più vincolata a minimi e massimi della tariffa, ma unicamente rispondente ad un criterio di adeguatezza rispetto all’importanza dell’opera. Il giudice non incide sulla pronuncia relativa alle spese processuali ex art. 91 c.p.c Secondo la Cassazione, l’abrogazione dei limiti massimi e minimi previsti dal sistema tariffario è volto a consentire all’autonomia delle parti di liberamente determinare il compenso per l’incarico professionale forense, in modo da favorire il libero gioco concorrenziale nel mercato forense. Tuttavia, il giudice è tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal d.m. n. 55/2014, il quale non prevale sul d.m. n. 140/2012, per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, in quanto non è il d.m. n. 140/2012 - rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente - a prevalere, ma il d.m. n. 55/2014, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa. Pertanto, l’intervento del giudice influisce sulla disciplina del rapporto professionale e non sulla pronuncia relativa alle spese processuali ex art. 91 c.p.c Il compenso dovuto dal cliente prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza. Inoltre, nell’ipotesi in cui la liquidazione del compenso è rimessa al giudice, l’importo deve essere identificato a prescindere dalle statuizioni comprese nel provvedimento che ha definito il giudizio cui ineriscono le spese, in quanto i criteri da seguire per la determinazione del compenso sono la quantità di lavoro svolta dall’avvocato e il valore economico dell’attività. In aggiunta, giova rammentare il principio per cui la misura degli oneri dovuti dal cliente al proprio avvocato è indipendente dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese ed agli onorari di causa e deve essere determinata in base ai su menzionati criteri che sono diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese tra le parti. Pertanto, l'ammontare delle somme dallo stesso cliente dovute, può essere diverso rispetto a quello formante oggetto della suddetta pronuncia cfr. Cass. n. 25992/18 . Concludendo. In conclusione, la Cassazione afferma che la parte soccombente è obbligata a sopportare unicamente i costi effettivi del processo sulla base di un principio di mera causalità, a condizione che non siano eccessivamente onerosi o superflui, a prescindere da quanto stabilito nel contratto di prestazione d’opera cui il soccombente è rimasto estraneo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 25 giugno – 28 novembre 2019, n. 31192 Presidente Oricchio – Relatore Grasso Fatti di causa L’avv. M.J. ha agito in giudizio dinanzi al Giudice di pace di Imola, per ottenere la liquidazione del compenso professionale per l’attività di difensore d’ufficio di L.F. , svolta nel procedimento penale pendente dinanzi al Tribunale di Bologna, rubricato al n. 348/2008. Il ricorrente aveva chiesto che le spese del giudizio fossero liquidate in base all’accordo intervenuto con il proprio difensore e quindi nella misura di Euro 1400,00, oltre accessori. Il Giudice di pace ha liquidato, a tale titolo, Euro 600,00 oltre iva e c.p.a., con sentenza che, impugnata limitatamente a tale capo di pronuncia, è stata confermata dal Tribunale. A parere del giudice di secondo grado, l’accordo tra professionista e cliente deve applicarsi solo allorché il giudice debba liquidare il compenso a carico del cliente stesso, non a carico di un soggetto terzo estraneo all’accordo in questione, nei confronti del quale l’accordo stesso non spiega alcun effetto. Altrimenti si perverrebbe alla circostanza paradossale che, salvo il controllo di non necessità e superfluità ex art. 92 c.p.c., da parte del giudice, la parte soccombente in contenzioso giudiziale si troverebbe a rifondere a titolo di spese una somma variabile in funzione di un preventivo accordo al quale è rimasta estranea . La cassazione di questa sentenza è chiesta dall’avv. M.J. sulla base di due motivi di ricorso. L.F. è rimasto intimato. Ragioni della decisione 1. Il primo motivo denuncia la violazione del D.M. n. 140 del 2012, artt. 9 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che le spese del processo dovevano esser liquidate in base all’accordo concluso tra la parte vittoriosa ed il proprio difensore, stante l’abrogazione delle tariffe professionali e alla luce del D.M. n. 140 del 2012, art. 9, che ammette la possibilità, negata nel sistema delle tariffe, di pattuizioni derogatorie degli importi minimi e massimi previsti dalla tariffa. Nel nuovo sistema – seconda parte ricorrente - costituirebbe il riferimento primario anche per la pronuncia ex artt. 91 c.p.c. e segg., posto che la tabella dei compensi di cui al D.M. n. 140 del 2012, ha valenza meramente orientativa ed è in ogni caso superata da eventuali accordi tra la parte vittoriosa ed il proprio difensore. La contraria interpretazione fungerebbe da ostacolo per il libero dispiegamento della concorrenza, pregiudicando le ragioni del cliente vittorioso, tenuto comunque a corrispondere al proprio difensore il compenso pattuito, anche se superiore a quanto liquidato dal giudice della causa. La condanna alle spese della parte soccombente avrebbe, inoltre, natura risarcitoria e dovrebbe comprendere l’intero costo sostenuto per il processo, fatto salvo solo il potere di escludere gli esborsi eccessivi o superflui. Il motivo è infondato. Premesso che nella specie la liquidazione impugnata è stata effettuata nel vigore del D.M. n. 140 del 2012, deve osservarsi che tale decreto risulta emanato in attuazione del D.L. n. 1 del 2012, convertito con L. n. 27 del 2012 allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato ed è quindi volto principalmente a disciplinare la misura dei compensi nei rapporti tra il difensore ed il cliente. Difatti, l’abolizione dei limiti massimi e minimi previsti dal sistema tariffario e delle stesse tariffe ha inteso riservare alle parti il potere di liberamente pattuire il compenso per l’incarico professionale Cass. 21487/2018 Cass. 1018/2018 e di incentivare la concorrenza tra i professionisti, ostacolata in passato dall’inderogabilità dei minimi tariffari. L’intervento del giudice, previsto dal D.M. n. 140 del 2012, art. 1, comma 1, si svolge - quindi - in tale ultimo ambito ed incide sulla disciplina del rapporto professionale ma non sulla pronuncia relativa alle spese processuali, integralmente disciplinate dall’art. 91 c.p.c. Cass. 21487/2018 Cass. 1018/2018 . Non rileva il principio per cui i costi del processo non possono gravare sulla parte vittoriosa, che andrebbe ristorata di tutti gli esborsi sostenuti per agire o resistere in giudizio. Anche nella vigenza del sistema tariffario si è costantemente affermato che, allorquando la liquidazione del compenso è rimesso al giudice, l’importo spettante al difensore nei rapporti con il cliente va determinato indipendentemente dalle statuizioni contenute nel provvedimento che ha definito la causa cui si riferiscono le spese, venendo in considerazione l’importanza dell’opera prestata, la quantità di lavoro svolto dal professionista e il valore economico dell’attività in relazione al risultato prefissatosi dal cliente Cass. 5953/2011 Cass. 1264/1999 Cass. 11065/1994 Cass. 11448/1992 . Il difensore della parte vittoriosa ha perciò titolo per ottenere dal cliente somme maggiori di quelle poste in sentenza a carico del soccombente, per ragioni diverse da quelle considerate dal giudice della causa in cui sia stato svolto il patrocinio Cass. 2407/1977 Cass. 6868/1982 . Analogamente, questa Corte ha stabilito che anche nel vigore della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense L. n. 247 del 2012 , la misura del compenso prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza di condanna, in ragione del diverso fondamento dell’obbligo di pagamento degli onorari, che riposa, per il cliente, nel contratto di prestazione d’opera, cui è estraneo il soccombente Cass. 25992/2018 . È pure da escludere che l’aggravio delle spese processuali risponda a finalità risarcitorie la parte soccombente è tenuta a sostenere solo i costi effettivi del processo sulla base del principio di mera causalità sempre che essi - secondo una valutazione rimessa al giudice investito della causa - non siano eccessivamente onerosi o superflui. La relativa statuizione prescinde - difatti - dall’apprezzamento dei requisiti soggettivi dell’illecito, che vengono in considerazione ai sensi dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, per il risarcimento del danno cumulabile alla condanna alle spese , per responsabilità processuale aggravata, qualora la parte abbia agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave. 2. Il secondo motivo denuncia - testualmente - l’apparenza della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendo che la sentenza abbia omesso di motivare in merito al rigetto dei motivi di appello concernenti il rimborso delle spese documentate. Il tribunale, ritenendo equa la condanna al rimborso di Euro 30,00 per spese vive, non si sarebbe avveduto che competevano ulteriori Euro 71,25 a titolo di rimborso forfettario delle spese generali, pari a complessivi Euro 81,75. Il motivo è infondato. Il giudice di primo grado aveva riconosciuto un importo complessivo di Euro 600,00 a titolo di spese, somma che il tribunale ha ritenuto congrua, ma precisando che gli esborsi erano pari ad Euro 30,00, senza menzionare o ritenere incluse nella liquidazione anche quelle dovute in via forfettaria in misura del 12,5%. La condanna al pagamento di Euro 30,00 non può - dunque considerarsi comprensiva anche di tali voci, che, competendo per legge, pur in assenza di domanda Cass. 17212/2015 Cass. 24081/2010 , in realtà, nel caso di specie, non sono state attribuite. Ciò non consente di ravvisare alcun vizio radicale della motivazione eventualmente sussistente ove l’importo di Euro 30,00 fosse stato illogicamente ritenuto comprensivo anche di quello, ben superiore, di Euro 71,25, dovuti per la predetta causale , ma - semmai - un’omessa pronuncia sui motivi di appello, che tuttavia non risulta denunciata. L’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di impugnazione, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità di effettuare - l’esame degli atti del giudizio di merito, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come vizio di motivazione o ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 Cass. 22759/2014 Cass. 1196/2007 . Il ricorso è quindi respinto. Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto difese. Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. rigetta il ricorso. Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.