Quando il compenso dell'avvocato non corrisponde a quanto liquidato in sentenza a favore dell'erario

Il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non ha alcun titolo ad ottenere più di quanto risulti dalla corretta applicazione delle disposizioni del testo unico in materia di spese di giustizia.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 7560/19, depositata il 18 marzo. Il fatto. La vicenda storica concerne un avvocato che aveva difeso congiuntamente alcuni clienti, dopo la loro ammissione al gratuito patrocinio, in un giudizio da essi intentato per ottenere il risarcimento del danno da uccisione di un proprio congiunto nei confronti del responsabile. Il tribunale di prime cure accoglieva la domanda e condannava la controparte al pagamento delle spese processuali in favore dell'erario pari a complessivi € 10.000,00. E, con successivo decreto, il medesimo tribunale liquidava i compensi in favore del ricorrente in poco più di € 3.000,0. Inevitabile era la opposizione proposta dal legale delle parti vittoriose in giudizio che, però, veniva respinta dal Presidente del tribunale competente il quale sosteneva che il compenso liquidato all’opponente non doveva essere necessariamente corrispondente a quanto liquidato in sentenza a favore dell'erario. Inoltre, motivava ulteriormente ritenendo che l'importo riconosciuto al ricorrente fosse stato correttamente quantificato sulla base dell’ammontare del risarcimento liquidato in sentenza, di gran lunga inferiore a quello oggetto di domanda, e della complessità del giudizio, rilevando che lo stesso era volto a determinare solo l'entità del danno richiesto e che, quindi, non si era discusso di questioni giuridiche di particolare complessità. La vicenda, a questo punto, giungeva sino alla Corte di Cassazione dinanzi alla quale il predetto avvocato impugnava l'ordinanza presidenziale. Disparità di trattamento, nella liquidazione delle spese del giudizio, in base al destinatario del provvedimento. Tra le varie contestazioni sollevate nel proprio atto, il ricorrente lamentava in primis il fatto che la pronuncia avesse quantificato il compenso in favore dello stesso in un importo inferiore a quello liquidato a carico della parte soccombente in sentenza a favore dell’erario . Così facendo -secondo la teoria del ricorrente il giudice aveva differenziato la liquidazione, creando una evidente disparità di trattamento, in funzione del diverso destinatario del provvedimento e determinando finanche un indebito arricchimento dello stato. Inoltre, l'avvocato assumeva che le spese liquidate con la sentenza di condanna già erano state ridotte del 50%, in virtù del parziale rigetto della domanda, per cui non erano ammissibili ulteriori riduzioni. Per tali principali ragioni chiedeva la cassazione del provvedimento presidenziale. La tariffa professionale e la liquidazione all’erario la particolare ratio della normativa di settore. La Suprema Corte, dopo aver analizzato tutti i singoli motivi, rigetta il ricorso in special modo per le seguenti ragioni. Innanzitutto, gli Ermellini ricordano che l'onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall'autorità giudiziaria con decreto di pagamento, osservando la tariffa professionale in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità, tenuto conto della natura dell'impegno professionale, in relazione all'incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa. La medesima normativa prevede che il provvedimento che pone a carico della parte soccombente, non ammessa al patrocinio, la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa, deve disporre che il pagamento sia eseguito a favore dello stato. Secondo la giurisprudenza costituzionale -rammentano gli Ermellini la suddetta disciplina non lede il principio di parità di trattamento a causa del particolare criterio di remunerazione dell'attività prestata in favore dei non abbienti, perché il sistema è caratterizzato da particolare connotazione pubblicistiche e la riduzione dei compensi non impone al professionista un sacrificio tale da risolvere il ragionevole legame tra l'onorario a lui spettante, relativo valore di mercato, trattandosi semplicemente di una diversa modalità di determinazione del compenso. Tale differenza viene giustificata dalla considerazione dell'interesse generale che legislatore ha inteso perseguire, nell'ambito di una disciplina, mirante ad assicurare al non ambiente l'effettività del diritto di difesa, in ogni stato e grado del giudizio, e nella quale la liquidazione degli onorari professionali è suscettibile di restare a carico dell'erario. Posto ciò, ne consegue che nel quantificare i compensi del difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non è in alcun caso consentito superare il limite delle prescrizioni imposte dalla suddetta normativa. Pertanto, pur a voler ammettere che il giudice sia tenuto a quantificare detto compenso in misura corrispondente all'importo delle spese processuali poste a carico della parte soccombente, resta però che il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non ha alcun titolo ad ottenere più di quanto risulti dalla corretta applicazione delle disposizioni del testo unico in materia di spese di giustizia. Nel caso in cui detto decreto abbia riconosciuto somme superiori a quelle liquidate in sentenza, legittimata a dolersi è esclusivamente la parte soccombente in giudizio, perché presupposto e finalità della rifusione delle spese di lite sono di far rimanere indenne la controparte delle spese effettivamente sostenute in ragione del processo, ma solo di quelle, esulando del tutto alcuna finalità punitiva del tipo di quella ora prevista dall'art. 96 codice di procedura civile.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 20 settembre 2018 – 18 marzo 2019, n. 7560 Presidente Matera - Relatore Fortunato Fatti di causa L’avv. G.G. ha difeso M.I. , M.G. , M.E. e M.A. , ammessi al gratuito patrocinio, nel giudizio da essi intentato nei confronti di B.G. , volto ad ottenere il risarcimento del danno da uccisione di un loro congiunto. Il Tribunale di Enna ha accolto la domanda, quantificando il risarcimento in Euro 12.500,00 per ciascuna parte, ed ha condannato B.G. al pagamento delle spese processuali in favore dell’erario, pari a complessivi Euro 10.000,00, di cui Euro 3500,00 per diritti ed Euro 6500,00 per onorari, oltre accessori di legge. Con successivo decreto del 28.3.2013, il medesimo Tribunale ha, inoltre, liquidato i compensi in favore del ricorrente in Euro 3.113,75 per onorari ed Euro 666,55 per diritti, oltre accessori di legge. L’opposizione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 170, proposta dall’avv. G. è stata respinta dal Presidente del Tribunale di Enna, il quale ha sostenuto che il compenso liquidato a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, non deve necessariamente corrispondere a quanto liquidato in sentenza a favore dell’erario, potendo il predetto difensore censurare solo l’errata applicazione delle disposizioni del D.P.R. n. 115 del 2002. Ha inoltre ritenuto che l’importo riconosciuto al ricorrente fosse stato correttamente quantificato sulla base dell’ammontare del risarcimento liquidato in sentenza, di gran lunga inferiore a quello oggetto di domanda, rilevando che il giudizio era volto a determinare solo l’entità del danno essendo già intervenuto il giudicato penale sull’an e che non si era discusso di questioni di particolare complessità. Per la cassazione dell’ordinanza presidenziale emessa in data 11.7.2013, l’avv. G. ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. Con ordinanza interlocutoria del 23.3.2018 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza per la rilevanza nomofilattica delle questioni oggetto di ricorso. Ragioni della decisione 1. Il primo motivo censura la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, art. 2041 c.c., artt. 3 e 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché la violazione dell’art. 111 Cost., comma 7, e l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la pronuncia quantificato il compenso in favore del ricorrente in un importo inferiore a quello liquidato in sentenza a carico della parte soccombente, lamentando che il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi a detta liquidazione in applicazione dei parametri richiamati dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, allo scopo di evitare che il ricorrente subisse un’evidente disparità di trattamento in funzione del diverso destinatario del provvedimento , e di evitare un indebito arricchimento dello Stato. Si assume, inoltre, che le spese liquidate con la sentenza di condanna erano già state ridotte del 50%, in virtù del parziale rigetto della domanda, per cui non erano ammissibili ulteriori riduzioni. Il secondo motivo censura la violazione dell’art. 111 Cost., comma 7, per motivazione illogica e contraddittoria su fatti decisivi per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la Corte ritenuto che il difensore potesse agire solo in via ordinaria per ottenere un compenso pari all’importo delle spese posto a carico della parte soccombente, mentre che nel giudizio di opposizione potevano essere sollevate anche le questioni pertinenti alla congruità della liquidazione. Il terzo motivo censura - letteralmente - la violazione dell’art. 111 Cost., comma 7, per motivazione illogica e contraddittoria su un punto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver il giudice di merito trascurato la complessità delle questioni esaminate e l’impegno profuso dal difensore, non dando seguito alla richiesta di acquisizione dei fascicoli di parte, comprovanti l’intera l’attività svolta. 2. Il primo motivo è infondato per le ragioni che seguono. A norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82, comma 2, l’onorario e le spese spettanti al difensore sono liquidati dall’autorità giudiziaria con decreto di pagamento, osservando la tariffa professionale in modo che, in ogni caso, non risultino superiori ai valori medi delle tariffe vigenti relative ad onorari, diritti ed indennità, tenuto conto della natura dell’impegno professionale, in relazione all’incidenza degli atti assunti rispetto alla posizione processuale della persona difesa. Il successivo art. 130, contenente disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario, prescrive che gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono ridotti della metà. Infine l’art. 133 prevede che il provvedimento che pone a carico della parte soccombente, non ammessa al patrocinio, la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa, deve disporre che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato. Secondo la giurisprudenza costituzionale, la suddetta disciplina non lede il principio di parità di trattamento a causa del particolare criterio di remunerazione delle attività prestata in favore del non abbienti, poiché il sistema è caratterizzato da peculiari connotazioni pubblicistiche e la riduzione dei compensi ai sensi dell’art. 130 t.u.s.g. non impone al professionista un sacrificio tale da risolvere il ragionevole legame tra l’onorario a lui spettante ed il relativo valore di mercato, trattandosi, semplicemente, di una - parzialmente diversa - modalità di determinazione del compenso giustificato dalla considerazione dell’interesse generale che il legislatore ha inteso perseguire, nell’ambito di una disciplina, mirante ad assicurare al non abbiente l’effettività del diritto di difesa in ogni stato e grado del processo, nella quale la liquidazione degli onorari professionali è suscettibile di restare a carico dell’erario cfr., testualmente, Corte Cost. 122/2016 Corte Cost. 270/2012 . La normativa è coerente - inoltre - con il margine di ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nel dettare le norme processuali, nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia Corte Cost. 270/2012 . Quanto alla potenziale lesione del diritto di difesa per effetto della più ridotta platea di professionisti disposta a difendere in sede civile le parti non abbienti data la minore rimuneratività di tale attività , può al più prospettarsi, non un vizio di costituzionalità, ma un mero inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione Corte Cost. 270/2012 . 2.1. Posta la legittimità del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 82 e 130, ne consegue che, nel quantificare i compensi del difensore delle parti ammesse al gratuito patrocinio, non è in alcun caso consentito superare i limiti e le prescrizioni poste dalla suddetta normativa. Pertanto, pur voler ammettere che il giudice sia tenuto a quantificare detto compenso in misura corrispondente all’importo delle spese processuali poste a carico della parte soccombente Cass. 21611/2017 Cass. 1843167/2016 Cass. pen. 46537/2011 Corte Cost. 270/2012 , resta però che il difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio non ha alcun titolo ad ottenere più di quanto risulti dalla corretta applicazione delle disposizioni del testo unico, potendo contestare solo sotto tali profili il decreto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 82. Nel caso in cui detto decreto abbia riconosciuto somme superiori a quelle liquidate in sentenza ai sensi dell’art. 91 c.p.c., legittimato a dolersi è esclusivamente la parte soccombente in giudizio, poiché presupposto e finalità della rifusione delle spese di lite sono il rendere indenne la controparte delle spese effettivamente sostenute in ragione del processo, ma solo di quelle, esulando del tutto alcuna finalità punitiva del tipo di quella ora prevista dall’art. 96 c.p.c., u.c., cfr. Cass. pen. 46537/2011 Cass. 22017/2018 . 2.2. La pronuncia non è incorsa nella violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 130, poiché ha correttamente ridotto alla metà il compenso, come quantificato in base alla limitata complessità dell’attività svolta e delle questioni dibattute, sulla base delle somme liquidate in sentenza a titolo di risarcimento del danno, in applicazione del D.M. n. 127 del 2004, art. 6, comma 2, applicabile ratione temporis , non essendo vincolato all’importo richiesto in domanda e non potendo comunque rilevare che le richieste avanzate dai danneggiati fossero state solo parzialmente accolte per escludere la riduzione di legge. 3. Il secondo motivo ed il terzo motivo, che possono esaminarsi congiuntamente, sono inammissibili. La pronuncia impugnata è stata depositata in data 11.3.2013 e ricade nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b , convertito con L. n. 134 del 2012. La norma contempla un vizio della decisione diverso e autonomo da quelli relativi alla motivazione, consistente nell’omesso esame di un dato accadimento oggettivo, risultante dagli atti processuali o dalla sentenza ed avente carattere decisivo. Per effetto della portata sistematica delle novità introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, il controllo sulla motivazione, censurabile quale violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, risulta circoscritto nei limiti di garanzia del minimo costituzionale ai sensi dell’art. 111 Cost. e nei soli casi tipizzati dalla giurisprudenza di questa Corte, che non includono anche la contraddittorietà o insufficienza della motivazione stessa Cass. 23940/2017 Cass. 21257/2014 Cass. 13928/2015 Cass. s.u. 8053/2014 . In ogni caso, il Presidente del tribunale ha dato conto delle ragioni della conferma del decreto di liquidazione, avendo chiarito che il giudizio civile verteva solo sul quantum del risarcimento, che non si era discusso di questioni di particolare difficoltà, che non era stato profuso un impegno di particolare onerosità e che il ricorrente non aveva prodotto, come era suo onere, gli atti difensivi. È - parimenti - irrilevante accertare se la decisione impugnata sia incorsa nell’errore di aver ritenuto necessaria la proposizione, ad opera del ricorrente, di un’autonoma azione di cognizione per ottenere, a titolo di compenso, un importo pari a quello delle spese processuali poste a carico del soccombente, non potendone comunque derivare, per quanto osservato nell’esame del primo motivo di ricorso, la cassazione del provvedimento impugnato. Rientrava infine nella discrezionalità del giudice di merito - ed è sottratta al sindacato di legittimità - la scelta di acquisire gli atti, i documenti e le informazioni necessari ai fini della decisione, come si evince dal tenore letterale del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 15, comma 5. Il ricorso è, quindi, respinto. Nulla sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater. P.Q.M. rigetta il ricorso. Sussistono, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-bis, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.