L’onorario dell’avvocato per l’attività svolta nell’interesse di un fallimento

In materia di liquidazione del compenso per attività professionale svolta nell’interesse del fallimento di una società, l’adeguatezza della motivazione è necessariamente correlata con la natura e la portata degli elementi offerti dal richiedente .

Sul tema la Corte di Cassazione con ordinanza n. 28099/18 depositata il 5 novembre. La vicenda. Un avvocato presentava domanda di ammissione in privilegio al passivo fallimentare di una s.p.a. a titolo di compenso della prestazione professionale effettuata nell’interesse della società in bonis e in relazione ad alcune controversie. Il giudice delegato ha ammesso il credito però per una somma inferiore da quella richiesta dal difensore. Il Tribunale, successivamente, rigettava la domanda dell’avvocato dichiarando che gli importi richiesti non erano stati precedentemente pattuiti con la società difesa. Contro il decreto del Tribunale, il difensore ricorre in Cassazione. Il compenso spettante all’avvocato. Come ha più volte affermato il Supremo Collegio, in tema di liquidazione del compenso per attività professionale svolta nell’interesse del fallimento di una società, l’adeguatezza della motivazione è necessariamente correlata con la natura e la portata degli elementi offerti dal richiedente . Nel caso in esame non risulta che il difensore ricorrente abbia evidenziato nella domanda la sussistenza di pregnanti problemi tecnici , ossia ha fatto richiesta per la liquidazione del compenso senza però dedurre alcuna specifica motivazione. Il requisito dell’autosufficienza. Con altro motivo di ricorso, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 4 d. m. n. 140/2012. Tale motivo per la Suprema Corte è inammissibile poiché difetta del requisito dell’autosufficienza di cui all’art. 366 c.p.c., dato che non indica né il dove né il come nel precedente giudizio di merito sia stato sollevato il punto della necessaria liquidazione per fasi. Per queste ragioni, il ricorso va rigettato.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, ordinanza 14 giugno – 5 novembre 2018, n. 28099 Presidente Di Virgilio - Relatore Dolmetta Fatto e diritto 1.- G.M. ha presentato domanda di ammissione in privilegio al passivo fallimentare della s.p.a. , a titolo di compenso per prestazioni professionali effettuate nell’interesse della società in bonis e in relazione a una serie di controversie giudiziali e/o stragiudiziali. Il giudice delegato ha ammesso il credito per una somma minore di quella richiesta, altresì riconoscendo il privilegio solo per una parte della somma ammessa. Il Tribunale di Alessandria ha successivamente respinto l’opposizione formulata dal legale, che censurava la mancata e puntuale contestazione da parte del curatore dello svolgimento e del valore di ogni singola attività descritta nella domanda di insinuazione, lamentando che la proposta di ammissione al passivo del fallimento, poi recepita in toto dal giudice delegato, era stata formulata sulla base di una valutazione forfetaria . In particolare, il Tribunale ha rilevato che gli importi richiesti e relativi alle prestazioni rese non erano state oggetto di pattuizione preventiva con la società e che correttamente, quindi, aveva operato la curatela quantificando i compensi sulla scorta dei parametri dettati dal d.m. n. 55/2004 applicando le riduzioni del 50% e del 70% come consentito art. 4, comma 1 , nell’ambito della discrezionalità riconosciuta al giudice nell’ambito della liquidazione giudiziale dei compensi, ancorché parametrata a valori prossimi ai minimi . La pronuncia ha altresì aggiunto che il ricorrente non deduce alcuna motivazione specifica a sostegno della domanda, contesta solamente il risultato della liquidazione operata ritenendola forfettaria. Emerge al contrario, come anche specificato dalla procedura resistente, che, rispetto all’importo complessivo liquidato in applicazione di parametri minimi, veniva operata una valutazione forfetaria per il solo importo di Euro 5.131,00, riconosciuto in aumento, portando così la somma riconosciuta con il privilegio in oggetto a Euro 80.000,00 . 2.- Contro il decreto emesso dal Tribunale piemontese ricorre G.M. , proponendo due motivi per la sua cassazione. Il Fallimento della società non ha svolto difese nel presente grado del giudizio. Il ricorrente ha anche depositato memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ 3.- Il primo motivo di ricorso assume violazione e falsa applicazione dell’art. 4 d.m. n. 55/2014 , ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ Sostiene in specie il ricorrente che tale norma non consegna al giudice, - al contrario di quel che si legge nella impugnata sentenza - un potere discrezionale assoluto di applicare l’aumento o l’abbattimento massimo senza onere di motivazione alcuna della scelta . In presenza, come nel caso di specie, di parcelle dettagliate che indicavano analiticamente il compenso richiesto per ciascuna fase, compenso sempre contenuto tra i limiti medi e quelli minimi , il giudice non può ridurre il montante richiesto senza fornire idonea e analitica motivazione . In altri termini - argomenta ancora il legale -, il Tribunale di Alessandria ha letteralmente inventato un principio di diritto stravolgendo il dettato dell’art. d.m. n. 55/2014, che prevede che l’avvocato debba documentare l’attività effettuata e il giudice debba liquidare i compensi secondo i parametri indicati dalla norma, ha sostenuto invece che sarebbe onere dell’avvocato, in sede di impugnazione della statuizione in punto liquidazione delle spese legali, il dovere dimostrare quali criteri dovevano essere adottati . Un tale principio - conclude il ricorrente - non è previsto da alcuna norma, né si può ricavare dall’ordinamento . 4.- Il motivo non è fondato. Secondo quanto correttamente evidenziato dal Tribunale, in difetto di preventive pattuizioni del compenso i comuni principi di ripartizione dell’onere della prova implicano che - nel giudizio di opposizione, come nell’ordinario giudizio di cognizione - il professionista, che agisce per ottenere il soddisfacimento di crediti inerenti ad attività asseritamente prestata a favore del cliente, ha l’onere di provare sia l’an del credito vantato, sia l’entità delle prestazioni eseguite . Non può essere dubbio, in effetti, che in quest’ambito dell’ entità della prestazione rientrano pure le specifiche e peculiari caratteristiche che vengano eventualmente a connotare le prestazioni concretamente svolte con puntuale riferimento, così, ai vari problemi tecnici - che in punto di fatto o in punto di diritto - risultino affliggere le singole pratiche affidate alla cura del professionista cfr., al riguardo, l’elencazione fornita proprio dall’art. 4 del citato d.m. . Che sono poi le caratteristiche che vengono a orientare la valorizzazione delle prestazioni fatte e, di conseguenza, pure la liquidazione del compenso del professionista, all’interno dei massimi e dei minimi tariffari. È dunque la tesi del ricorrente, in realtà, che appare capovolgere le regole del sistema, là dove finisce per assegnare al giudice, chiamato a determinare un compenso professionale, l’onere di contestare una richiesta di somma, presuntivamente da ritenere, in sé e per sé, corretta ed esatta. 5.- Come ha puntualmente osservato la pronuncia di Cass., 20 settembre 2017, n. 21826, in tema di liquidazione del compenso per attività professionale svolta nell’interesse di un fallimento, l’adeguatezza della motivazione è necessariamente correlata con la natura e la portata degli elementi offerti dal richiedente . Nella specie, non risulta che il ricorrente abbia evidenziato nella domanda di insinuazione o in sede di opposizione - la sussistenza, per una o per un’altra delle pratiche affidate alla sua cura, di più o meno pregnanti problemi tecnici . La doglianza - così ha precisato il Tribunale - non è venuta a dedurre alcuna motivazione specifica . Non diversamente accade, del resto, pure nell’ambito del presente giudizio il ricorso solamente allegando che il taglio degli onorari non era giustificato, posto che per la gran parte le cause di lavoro trattate erano delicati licenziamenti ricorso, p. 12 . 6.- Con il secondo motivo, il ricorrente viene a denunziare violazione e falsa applicazione dell’art. 4 d.m. n. 140/2012, secondo quanto è stato chiarito dalla memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. Si rileva, in proposito, che la liquidazione del curatore è stata forfettaria e quindi non è stato possibile neppure comprendere quale somma è stata liquidata per ogni singola pratica figuriamoci per fasi . Per contro, la liquidazione va fatta non globalmente, ma in relazione alle singole fasi del giudizio, tenendo ben distinte le fasi stesse . 7.- Il motivo è inammissibile. Lo stesso difetta, per vero, del necessario requisito dell’autosufficienza di cui all’art. 366 cod. proc. civ., posto che non indica dove e come nel precedente giudizio di merito sia stato sollevato il punto della necessaria liquidazione per fasi , che il ricorrente qui assume di ritrarre dalle frasi normative espresse dall’art. 4 d.m. n. 140/2012 pure in sede di descrizione dei fatti, d’altra parte, il ricorrente non appare del tutto lineare in proposito se il ricorso dichiara, a p. 16, che già le parcelle indicavano analiticamente il compenso richiesto per ciascuna fase , la memoria a p. 5 asserisce invece che, pur con sforzo, in sede di reclamo sono stati indicati i compensi divisi per fasi . Il rilievo dell’evidenziata omissione risulta, del resto, particolarmente sottolineato dal fatto che il decreto impugnato ha espressamente escluso che, nella specie, la curatela avesse provveduto a una liquidazione forfetaria del compenso del legale rilevando che questa aveva invece prodotto un puntuale schema riepilogativo, per ogni controversia dalla quale traeva origine il credito relativo alle prestazioni professionali a queste riferibili , senza peraltro far cenno alcuno al tema della liquidazione per fasi . 8.- In conclusione, il ricorso va rigettato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Dà atto, ai sensi dell’art. 13 quater d.p.r. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a mente del comma 1 bis del medesimo art. 13.