Il dovere di lealtà e correttezza dell’avvocato non solo nei confronti del proprio cliente

Nell’esercizio della professione, il dovere di lealtà e correttezza è un canone generale che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’avvocato quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività, che opera dunque non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi in genere e verso la controparte.

Lo ha precisato la sentenza del CNF n. 247/17, pubblicata il 24 aprile scorso. La vicenda. Il COA di Verona apriva un procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato per violazione degli obblighi di lealtà e correttezza in quanto aveva preteso dalla debitrice di un suo cliente il pagamento, oltre che del residuo credito, dell’importo relativo alle anticipazioni con il fine di provvedere alla formale estinzione di una procedura esecutiva, che in realtà si era già conclusa. Il procedimento disciplinare si concludeva con la sanzione dell’avvertimento, avverso la quale ricorre l’avvocato dinanzi al CNF chiedendone l’annullamento. Dovere di lealtà e correttezza. Il tentativo dell’avvocato di ottenere un ribaltamento della decisione si rivela infruttuoso in quanto il CNF conferma in toto la decisione assunta dal COA di Verona, disattendendo le diverse censure formulate. In primo luogo, la sentenza in oggetto definisce irrilevante il fatto che il COA abbia ritenuto il comportamento censurato come di modesta gravità e forse causato dalla errata interpretazione delle norme in tema di esecuzione presso terzi, essendo rilevante solo che lo stesso sia volontario e non necessitato . Sul merito del comportamento oggetto del procedimento disciplinare il CNF sottolinea come sia oggetto sostanziale dell’addebito [] quello di aver chiesto, quale condizione di una attività dovuta, il rimborso non delle spese ma un compenso, nella consapevolezza di gravare il debitore, indicando peraltro una somma palesemente eccessiva, addirittura pari quasi a quella liquidata dal Giudice dell’esecuzione per l’intera procedura di pignoramento presso terzi. In altri termini, correttamente il COA territoriale ha inteso censurare il fatto che l’incolpata abbia preteso quale condizione per la rinunzia all’esecuzione, con evidente onere sostanziale a carico della controparte debitrice, un compenso professionale e non certo la mera remunerazione dell’attività contabile” della parte assistita, di [ALFA] cioè sicuramente eccessivo e sproporzionato rispetto al valore della pratica, che, si badi, è solo quello del credito residuo, ed incongruo per eccesso rispetto al parametro di riferimento . In conclusione, ricorda la sentenza come il dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio della professione sia un canone generale dell’agire di ogni Avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’Avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività . È infatti principio generale quello secondo cui l’avvocato deve svolgere la sua attività con lealtà e correttezza non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi in genere e verso la controparte.

Consiglio Nazionale Forense, sentenza 19 gennaio 28 dicembre 2017, n. 247 Presidente Picchioni – Segretario Broccardo Fatto Sulla scorta di un esposto via mail del 15 maggio 2013, ad istanza della Sig.ra [ esponente ], il COA di Verona deliberava l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti dell’Avv. [ ricorrente ] per il seguente capo di incolpazione, così approvato nella seduta del 9 settembre 2013 e notificato il 9 ottobre 2013 per aver violato gli artt. 38 L.P., 6 canone generale e 50 canone generale del CDF, per aver preteso dalla Signora [ esponente ] il pagamento, oltre che del residuo credito in linea capitale di € 2.127,85 –vantato nei di lei confronti da [ alfa ] pure dell’importo di € 500,00 –oltre accessori di legge ed € 14,62, per anticipazioni, per rinunziare all’esecuzione presso terzi. Infatti, in primo luogo, tale ultimo importo non era dovuto, poiché la procedura esecutiva presso terzi si era già conclusa e, quindi, non necessitava la dichiarazione [alla rinunzia] all’esecuzione ed il suo deposito in cancelleria, ma solo una dichiarazione di quietanza rilasciata da [ alfa ] ed il conteggio del residuo credito era atto dovuto da parte di quest’ultimo. In secondo luogo, l’iscritta non poteva in alcun modo subordinare il dovuto rilascio della quietanza od anche il deposito della rinunzia all’esecuzione –ove mai necessitato al pagamento di spese per le quali [ alfa ] avrebbe solo potuto agire separatamente in via giudiziale. Infine, in ogni caso, la somma richiesta appare manifestamente sproporzionata rispetto alla attività asseritamente espletata o da espletarsi. In Verona, dal 25.05.2013 in avanti” Il fatto oggetto del capo di incolpazione ripete, nella sostanza, il contenuto dell’esposto, ove si lamentava l’indebita ed onerosa pretesa di un compenso, avanzata dall’Avv. [ ricorrente ] nei confronti del debitore esponente, propria controparte, per provvedere alla formale estinzione di un pignoramento presso terzi eseguito ad istanza di [ alfa ], ente assistito dall’incolpata. In precedenza, il COA aveva comunicato l’inizio del procedimento con nota del 12 giugno 2013 e l’Avv. [ ricorrente ] aveva depositato memoria, con allegati, dei 3 e 4 luglio 2013. Altre memorie vennero depositate dall’incolpata in data 28 ottobre 2013 e 3 maggio 2014, chiedendosi il proscioglimento da ogni addebito. Nelle proprie difese l’Avv. [ ricorrente ] negava che il fatto contestato avesse rilievo deontologico negativo, in particolare perché l’importo de quo era stato chiesto per conto della propria cliente [ alfa ] ed era legittimo, afferendo il lavoro di contabilità svolto e l’attività ancora occorrente per la formale estinzione della procedura da porsi a carico necessariamente di parte debitrice. In esito al procedimento, nel corso del quale venne sentita a teste l’esponente, con deliberazione depositata il 18 giugno 2014 e regolarmente notificata il successivo 12 luglio 2014, il COA, ritenuta la responsabilità dell’incolpata, per il profilo della violazione del solo art. 6 del CDF, relativo al generale dovere di lealtà e correttezza, infliggeva la sanzione dell’avvertimento. Avverso la suddetta decisione ricorre l’Avv. [ ricorrente ] per i motivi più avanti oggetto disamina, chiedendo l’annullamento della decisione impugnata. Diritto In via preliminare osserva il Collegio come il ricorso debba ritenersi ammissibile, sia perché nel giudizio avanti il Consiglio Nazionale Forense l’incolpato, ove non intenda farsi assistere da altro Difensore abilitato a patrocinare avanti le giurisdizioni superiori, ben può difendersi personalmente purché iscritto all’albo professionale cfr, ex multis, CNF, Presidente f.f. Picchioni, Rel. Orlando, 30 dicembre 2015, n. 249 , sia perché il ricorso stesso risulta depositato nel termine di rito, dovendosi computare nello stesso il c.d. periodo di sospensione feriale. Il ricorso è però infondato nel merito. All’uopo osserva il Collegio. Infondato è il primo motivo inerente la pretesa errata applicazione delle norme deontologiche circa il profilo soggettivo della responsabilità, sostenendosi, da parte della ricorrente, la necessità, per il giudizio di colpevolezza, di un comportamento qualificabile come doloso. La doglianza deve disattendersi, essendo risaputo, infatti, come ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare sia sufficiente la volontarietà del comportamento dell’incolpato e, quindi, la suitas della condotta intesa come volontà consapevole dell’atto che si compie pure tra le tante, si veda CNF Pres. f.f. Picchioni, Rel.Esposito, 30 dicembre 2015, n. 250, CNF Pres. Mascherin, Rel. Allorio, 30 dicembre 2015, n. 245 . In altri termini, per l’imputabilità dell’infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell’illegittimità dell’azione, dolo generico o specifico, essendo sufficiente la volontarietà con la quale è stato compiuto l’atto deontologicamente scorretto CNF Pres. f.f. Picchioni, Rel.Sorbi, 28 dicembre 2015, n. 223 per tale ragione, irrilevante appare la circostanza che il COA di Verona abbia ritenuto il comportamento censurato come oggettivamente modesto e forse causato dalla errata interpretazione delle norme in tema di esecuzione presso terzi, essendo rilevante solo che lo stesso sia volontario e non necessitato. Con il secondo dei motivi, la ricorrente ha lamentato l’errata applicazione, da parte del COA, delle norme di diritto sottese in tema di espropriazione presso terzi, sostenendosi che a avrebbe errato il COA a prescindere, nella propria decisione, dalla disamina della questione, ritenuta invece di sicuro rilievo, se fosse o meno diritto della parte debitrice ottenere, e gratuitamente, la formale estinzione del processo esecutivo b avrebbe, quindi, errato a ritenere il COA non dovuto o non ammissibile, da parte della creditrice, un compenso per l’attività di estinzione della procedura, di esclusivo interesse della debitrice. Il motivo deve essere disatteso. Preliminarmente osserva il Collegio come ininfluente appaia il rilievo che il COA, nel censurare il comportamento dell’incolpata, abbia ritenuto di poter prescindere dalla questione di diritto se fosse o meno dovere del creditore, e con quali forme, collaborare alla estinzione della procedura di pignoramento conseguente al pagamento del debitore. Infatti, per quanto sia certo che le spese per la rinunzia all’esecuzione siano dovute dal debitore e non si tratti, perciò, di attività gratuita e che il creditore abbia diritto al rimborso delle spese stesse il chè avviene, normalmente, con l’ordinanza del G.E. che statuisce sulle spese da porre a carico del rinunziante e che costituisce titolo esecutivo così Cass. 9495/2007 , ciò esula ed è irrilevante ai fini del procedimento disciplinare in esame dato che oggetto sostanziale dell’addebito è piuttosto quello di aver chiesto, quale condizione di una attività dovuta, il rimborso non delle spese ma un compenso, nella consapevolezza di gravare il debitore, indicando peraltro una somma palesemente eccessiva, addirittura pari quasi a quella liquidata dal Giudice dell’esecuzione per l’intera procedura di pignoramento presso terzi. In altri termini, correttamente il COA territoriale ha inteso censurare il fatto che l’incolpata abbia preteso quale condizione per la rinunzia all’esecuzione, con evidente onere sostanziale a carico della controparte debitrice, un compenso professionale e non certo la mera remunerazione dell’attività contabile” della parte assistita, di [ alfa ] cioè sicuramente eccessivo e sproporzionato rispetto al valore della pratica, che, si badi, è solo quello del credito residuo, ed incongruo per eccesso rispetto al parametro di riferimento. Con il terzo dei motivi, la ricorrente lamenta la mancata contestazione dell’art. 43 CDF, che, appunto, sanziona la manifesta sproporzione dei compensi chiesti per la propria attività, sostenendosi a come non potesse la condotta sanzionata ascriversi all’art. 6, che impone i doveri di lealtà e correttezza b come il compenso per la rinunzia al pignoramento, non esoso, considerata l’attività necessaria, non potesse certo ragguagliarsi al reddito della parte debitrice ed in danno della parte assistita. Anche tale mezzo di ricorso deve respingersi. Infatti, la mancata od erronea espressa contestazione della norma specifica, che si ritiene esser stata violata, è solo formale ed irrilevante nella sostanza, dato che ciò che conta è, piuttosto, che il fatto in concreto oggetto dell’incolpazione, il comportamento censurato, cioè, appaia sufficientemente specificato, tanto da assicurare che, in ordine allo stesso, l’incolpata possa pienamente difendersi nel merito. E’ noto, al riguardo, come in tema di procedimento disciplinare occorra solo una chiara contestazione dei fatti addebitati, non assumendo rilievo, invece, la mancata od errata indicazione delle norme che si assumono violate, spettando in ogni caso all’organo giudicante la qualificazione giuridica dei fatti contestati e configurandosi una lesione al diritto di difesa solo allorquando l’incolpato venga sanzionato per fatti diversi da quelli che gli sono stati addebitati ed in relazione ai quali ha apprestato la propria difesa cfr. Corte di Cassazione, SS UU. 25633 del 14 dicembre 2016, nonché CNF Pres. f.f. Salazar, Rel. Tinelli, 24 settembre 2015 n. 150 . Nel caso di specie, come risulta anche dal tenore letterale dell’incolpazione, è stata ab initio contestata la non debenza, nonché l’eccessività, della somma chiesta, censurandosi chiaramente il fatto di aver condizionato la rinunzia alla procedura al pagamento di tale somma, determinando un aggravio a carico della parte e, comunque, non collaborando lealmente. E’ appena il caso di ricordare come il dovere di lealtà e correttezza nell’esercizio della professione sia un canone generale dell’agire di ogni Avvocato, che mira a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nell’Avvocato stesso quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività del tutto correttamente, secondo il proprio libero convincimento, il COA si è uniformato al principio generale secondo il quale l’Avvocato deve svolgere la propria attività con lealtà e correttezza non solo nei confronti della parte assistita, ma anche verso i terzi in genere e verso la controparte. Nel caso di specie, il COA ha ritenuto non conforme a tali principi generali –oggi previsti dall’art. 9 del Codice Deontologico vigente il comportamento specifico della pretesa di un compenso non dovuto ed eccessivo. Con l’ultimo dei mezzi di ricorso, infine, la ricorrente censura la decisione impugnata, per avere il COA territoriale fatto confusione tra soggetto agente e soggetto sanzionato, dato che, nella fattispecie, il compenso richiesto altro non era che un preavviso di parcella diretto alla propria cliente, e non alla controparte, non potendosi pertanto sanzionare la ricorrente per un comportamento non proprio ma della parte assistita. Anche tale motivo è infondato basti osservare come l’indicazione vincolante del compenso eccessivo e sproporzionato sia comunque provenuta dal Difensore che, sapendo dell’onere sostanziale a carico della controparte debitrice, avrebbe dovuto per lo meno contenerlo nei limiti delle spese, non senza rilevare come l’importo richiesto non possa esser giustificato neppure alla stregua dei vigenti parametri, al punto che, vale la pena osservare, in tale misura eccessiva non avrebbe potuto chiedersi neppure alla parte propria assistita. In definitiva, in ordine al comprovato, e neppure negato, comportamento, deve confermarsi il giudizio di colpevolezza siccome contrario ai doveri di lealtà e correttezza ed ancora di divieto di compensi manifestamente sproporzionati, per la cui violazione la norma attuale -art. 29 C.D.F. vigente, che ripete quella dell’abrogato art. 43 prevede addirittura la più grave sanzione edittale della censura, riducibile a quella, nei casi meno gravi, dell’avvertimento. Per tale ragione, congrua e legittima appare pertanto, anche alla stregua del principio della lex mitior, la sanzione in concreto comminata, appunto quella dell’avvertimento, che Questo Collegio ritiene di tenere ferma. P.Q.M. visti gli artt. 38, 40 e 44 del RDL 27 novembre 1933, n. 1578, e gli artt. 59 e segg. del Regio Decreto 22 gennaio 1934, n. 37 Il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso. Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità o degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.