L’avvocato può essere sanzionato per la frase «gratuitamente offensiva» rivolta alla controparte

Secondo la disciplina dettata dal Codice Deontologico Forense, la condotta dell’avvocato, sia all’interno che all’esterno dell’esercizio del suo ministero, deve essere tale da non compromettere la dignità della professione attraverso comportamenti offensivi o denigratori.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 4994/18, depositata il 2 marzo. Il caso. Il CNF respingeva il gravame proposto da un legale avverso la decisione del COA di Roma, con la quale veniva allo stesso applicata la sanzione della censura per aver denigrato in un atto la controparte attraverso frasi offensive relative al proprio stato di salute. L’espressione denigratoria si inseriva all’interno di una controversia in cui lo stesso legale era sia difensore sia parte processuale insieme alla consorte. Il CNF, rilevando la violazione del previgente art. 5 c.d.f., confermava la sanzione della censura. Avverso la pronuncia del CNF il legale ricorre per cassazione denunciando che il Consiglio avesse fondato la propria decisione sull’errata convinzione che l’atto fosse stato posto in essere in qualità di parte e non già di difensore di fiducia della moglie e che, dunque, avrebbe trovato applicazione la scriminante di cui all’art. 51 c.p Probità, dignità e decoro. Il Supremo Collegio sottolinea che l’espressione utilizzata nell’atto sia stata correttamente ritenuta gratuitamente offensiva , in considerazione della conoscenza da parte del ricorrente dello stato di salute di controparte, affetta da un male incurabile. Ebbene, la Suprema Corte ribadisce che se già il previgente art. 5 c.d.f. imponeva all’avvocato di osservare una condotta conforme ai doveri di probità, dignità e decoro anche quando la stessa sia posta in essere in qualità diversa da quella professionale , il vigente art. 2 c.d.f. individua l’ambito di applicazione soggettiva del professionista e stabilisce che esso si estende anche ai comportamenti della vita privata del professionista, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine dell’avvocatura . Pertanto, l’avvocato anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento di terzi . Quindi, la Suprema Corte condivide l’assunto per cui la qualità di avvocato lungi dall’essere una attenuante del comportamento posto in essere, costituisce una aggravante del comportamento deontologicamente scorretto . La Corte dunque rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 20 giugno 2017 – 2 marzo 2018, n. 4994 Presidente Rordorf – Relatore Scarano Svolgimento del processo Con sentenza del 12/7/2016 il C.N.F. ha respinto il gravame interposto dall’avv. D.N.N. in relazione alla pronunzia del C.O.A. di Roma di irrogazione della sanzione disciplinare della censura per violazione del previgente art. 5 del Codice Deontologico, per avere in un atto giudiziale utilizzato espressioni offensive e denigratorie nei confronti della sig. M.A. , con la quale il medesimo e sua moglie sig. Ma.Ro. sin dall’anno 2000 avevano un rapporto conflittuale originato da uno sfratto per morosità , sfociato in precedenti anche penali. Avverso la suindicata pronunzia del C.N.F. il D.N. propone ora ricorso per cassazione affidato ad unico motivo. L’intimato non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione Con unico motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 111 Cost. per vizio di motivazione, stante l’omessa valutazione su un punto della decisione dedotto dalla parte . Si duole non essersi considerato che la condotta censurata è stata posta in essere sull’errato presupposto che l’atto sia stato posto in essere in qualità di parte e non già di difensore di fiducia della moglie e coimputata sig. Ma.Ro. , con conseguente omessa valutazione della scriminante ex art. 51 c.p., trattandosi di espressione formulata nell’esercizio del diritto di difesa e di critica del comportamento processuale mantenuto dalla M. . È rimasto nel caso accertato che, nell’ambito del procedimento penale innanzi al G.I.P. rubricato al n. 11414/03 , l’odierno ricorrente ha redatto una memoria datata 19.11.2007 recante - tra l’altro - la seguente espressione chi ha un male incurabile non sopravvive sette anni e non si presenta in tutti i giudizi così accesa e pimpante a perorare la sua causa, perché non ne avrebbe le forzi, ma si prepara ad affidare l’anima a Dio, confidando nel suo generoso Perdono . A conclusione del procedimento disciplinare aperto a suo carico il C.O.A. di Roma ha al medesimo irrogato la sanzione disciplinare della censura, per violazione dell’art. 5 Codice deontologico all’epoca vigente. Decisione successivamente confermata con l’impugnata sentenza ove, dopo aver osservato che il Coa di Roma ha correttamente ritenuto sussistere sia la conoscenza da parte dell’avv. D.N. della circostanza che la sig. M. fosse già affetta dal male incurabile che l’”assenza di qualsiasi giustificazione per l’utilizzo di quella frase , ritenuta pertanto gratuitamente offensiva , il C.N.F ha sottolineato che l’art. 5 del previgente Codice Deontologico imponeva all’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro anche quando la stessa sia posta in essere in qualità diversa da quella professionale altresì sottolineando che il nuovo Codice Deontologico, all’art. 2, individua l’ambito di applicazione soggettiva del professionista e stabilisce che esso si estende anche ai comportamenti della vita privata del professionista, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine dell’avvocatura all’art. 9 fa riferimento all’osservanza da parte dell’avvocato dei doveri di probità, dignità e decoro nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense l’art. 63 , al primo comma, prescrive che l’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi al secondo comma la norma recita che l’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto nell’esercizio della professione . Ed è pervenuto a correttamente concludere che la qualità di avvocato lungi dall’essere una attenuante del comportamento posto in essere, costituisce una aggravante del comportamento deontologicamente scorretto . Orbene, a parte il rilievo che diversamente da quanto sostenuto dall’odierno ricorrente nella specie non verrebbe comunque in rilievo l’art. 51 c.p. ma eventualmente l’art. 598 c.p., vale osservare come decisivo si appalesi al riguardo il rilievo che l’illecito disciplinare in argomento rimane invero integrato in ogni ipotesi di violazione da parte dell’avvocato dell’obbligo deontologico di probità, dignità e decoro sia quando agisca in qualità diversa da quella professionale , sia - ed a fortiori - nell’esercizio del suo ministero. L’esplicazione della propria attività professionale certamente non legittima l’utilizzazione da parte dell’avvocato di espressioni insultanti o denigratorie, quale quella nella specie nella suindicata memoria dall’odierno ricorrente formulata. All’infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso. Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato svolto attività difensiva. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.