Si può chiedere la condanna per lite temeraria del collega avversario (in solido con la parte da egli assistita)? Sì, ma tanti auguri!

La violazione del rapporto di colleganza può costituire una concreta esplicazione della violazione del più vasto ambito della lealtà e correttezza professionale.

Le Sezioni Unite della Cassazione sentenza n. 27200/17, depositata il 16 novembre , per risolvere il caso oggetto di ricorso hanno dovuto chiarire, tra l’altro, i rapporti tra vecchio e nuovo codice deontologico, con particolare riferimento al principio del favor rei . La richiesta di condanna dell’avvocato avversario ex art. 96 c.p.c Un avvocato veniva sottoposto a procedimento disciplinare con incolpazione, riferita al r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, per non aver mantenuto nei confronti di un collega un comportamento ispirato a correttezza. In particolare, la scorrettezza veniva individuata nell’aver chiesto, in occasione di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la condanna ex art. 96 c.p.c. non solo della controparte ma anche, in solido con essa, del collega avversario, la cui correttezza era invece stata dimostrata nel corso del giudizio. La sanzione disciplinare dell’avvertimento, confermata dal CNF. Il Consiglio dell’Ordine di competenza infliggeva all’incolpato la sanzione disciplinare dell’avvertimento. Sanzione confermata dal CNF che prendeva posizione anche sul tema dell’entrata in vigore del nuovo codice deontologico, osservando che le violazioni deontologiche contestate erano da ritenere corrispondenti, nel nuovo codice deontologico forense, alla previsione dell’art. 46, in base al quale l’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza , precetto la cui violazione è punita con la sanzione dell’avvertimento. Alla luce di tale previsione, il dovere di difesa ha sempre la prevalenza, pur nel tentativo costante di salvaguardare il rapporto di colleganza. Chiedere la condanna ex art. 96 c.p.c. del collega avversario sebbene in solido con la parte da egli assistita è di per sé un illecito disciplinare. Secondo il CNF, la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c. rivolta anche all’avvocato avversario e non solo alla parte da questo assistita , costituisce di per sé illecito disciplinare, considerato che la totale assenza di mala fede e colpa grave del difensore era emersa, sia nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nel corso del quale la richiesta di condanna era stata avanzata, sia nel successivo grado di appello, nei quali l’avvocato destinatario della richiesta di condanna era risultato vittorioso. Per cui, il CNF ha considerato del tutto gratuite ed ingiustificate le pesanti critiche rivolte dall’incolpato nei confronti del collega avversario. Nessuna sanzione è prevista dal nuovo codice deontologico per la violazione del dovere di colleganza! Interessante il motivo di ricorso per cassazione teso a far valere la violazione dell’art. 65 l. n. 247/12 in riferimento alla successione delle leggi nel tempo e all’applicazione di quella più favorevole, nonché la violazione del vigente codice deontologico nella parte in cui prevede la tipizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni applicabili. Infatti, l’entrata in vigore del nuovo codice deontologico ha determinato la cessazione di efficacia delle disposizioni precedenti, con applicazione delle norme nuove anche ai procedimenti disciplinari in corso, se più favorevoli all’incolpato c.d. principio del favor rei . E le norme contenute nel titolo primo del nuovo codice deontologico non prevedono l’irrogazione di alcuna sanzione disciplinare pertanto, poiché la lesione dei doveri di correttezza e lealtà viene menzionata solo nel titolo primo appena menzionato, ne conseguirebbe che nessuna sanzione disciplinare poteva essere posta a carico del ricorrente non essendo espressamente prevista. I rapporti tra dovere di correttezza e rapporto di colleganza. La questione centrale, secondo le Sezioni Unite, consiste nello stabilire se si possa dire, come sostiene il ricorrente, che nel nuovo sistema la violazione dei doveri di correttezza e lealtà non possa dare luogo alla sanzione dell’avvertimento. In altri termini, poiché il Consiglio dell’Ordine aveva contestato la violazione del dovere di correttezza, mentre il CNF aveva inquadrato il fatto nell’art. 46 violazione del rapporto di colleganza , occorre stabilire se tale inquadramento sia corretto alla luce del principio del favor rei. Secondo gli Ermellini la decisione del CNF è corretta il rispetto del rapporto di colleganza è esplicazione del più vasto ambito della lealtà e correttezza professionale. All’incolpato era stata contestata la violazione degli artt. 22 e 23 del codice deontologico previgente, in relazione agli artt. 12 e 38 r.d.l. n. 1578/1933, per non aver mantenuto nei confronti del collega un comportamento ispirato a correttezza. Il CNF ha individuato una corrispondenza tra tale contestazione disciplinare e l’art. 46 del nuovo codice deontologico, che prevede l’obbligo dell’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanta possibile, il rapporto di colleganza . Nel sistema delineato dal nuovo codice deontologico la violazione dei doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, è prevista dall’art. 9, mentre il successivo art. 20 stabilisce che la violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli dunque, anche dell’art. 9 costituisce illecito disciplinare nelle ipotesi di cui ai titoli II, III, IV, V e VI del codice, cioè in presenza di previsioni specifiche. Ne consegue che è del tutto ragionevole la ricostruzione operata dal CNF secondo cui la previsione dell’art. 46 dove, a proposito dei doveri dell’avvocato nel processo, si stabilisce che il professionista deve osservare il dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza , trova corrispondenza in quella originariamente contestata all’incolpato, poiché la violazione del rapporto di colleganza può costituire una concreta esplicazione della violazione del più vasto ambito della lealtà e correttezza professionale. La sanzione disciplinare è stata quindi confermata.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 10 ottobre – 16 novembre 2017, n. 27200 Presidente Rordorf – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. A seguito dell’esposto presentato dall’avv. Luca Cattini in data 4 ottobre 2011, l’avv. F.A. venne sottoposto a giudizio disciplinare, davanti al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Reggio Emilia, con l’incolpazione di cui agli artt. 12 e 38 del regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, in riferimento all’art. 22, primo capoverso, ed all’art. 23, primo capoverso, del codice deontologico forense, per non aver mantenuto nei confronti del collega suindicato un comportamento ispirato a correttezza. In particolare, la scorrettezza venne individuata nell’aver chiesto, in sede di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la condanna dell’avv. C. al risarcimento dei danni di cui all’art. 96 cod. proc. civ. in solido con il proprio assistito, addebitando la colpa esclusivamente al collega la cui correttezza, invece, era stata dimostrata nel prosieguo del processo. Il C.O.A. ritenne l’avv. F. responsabile di tale accusa e gli inflisse la sanzione dell’avvertimento. 2. La pronuncia è stata impugnata dal professionista ed il Consiglio nazionale forense, con sentenza del 9 marzo 2017, ha rigettato il ricorso, confermando la responsabilità dell’incolpato e la relativa sanzione. Ha premesso il C.N.F. che le violazioni deontologiche contestate all’avv. F. erano da ritenere corrispondenti, nel nuovo codice deontologico forense, alla previsione dell’art. 46, in base al quale l’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza , precetto la cui violazione è punita con la sanzione dell’avvertimento. Alla luce di tale previsione, il dovere di difesa ha sempre la prevalenza, pur nel tentativo costante di salvaguardare il rapporto di colleganza. Nel caso di specie, pacifica la circostanza che l’avv. F. aveva chiesto la condanna dell’avv. C. , in solido con il suo cliente, ai sensi dell’art. 96 cit., tale richiesta costituiva di per sé illecito disciplinare, poiché la totale assenza di mala fede e colpa grave dell’avv. C. era emersa sia nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo nel corso del quale la richiesta di condanna era stata avanzata che nel successivo grado di appello, nei quali l’avv. C. era risultato vittorioso. Dovevano perciò ritenersi del tutto gratuite ed ingiustificate le pesanti critiche rivolte nei confronti del collega. Da tale valutazione il C.N.F. ha tratto l’ulteriore conseguenza per cui correttamente il C.O.A. aveva escluso di poter applicare nella fattispecie una lettura estensiva degli artt. 94 e 96 cod. proc. civ. tale da consentire la condanna in solido dell’avvocato con il proprio cliente. 3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. F.A. con atto affidato a due motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Ragioni della decisione Rilevano le Sezioni Unite, preliminarmente, che il ricorso, che risulta notificato anche al C.N.F., è in parte qua inammissibile, posto che il C.N.F. non è parte del procedimento, bensì è il giudice la cui pronuncia è impugnata in questa sede. 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione degli artt. 24 e 111 Cost., dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37, in relazione all’art. 59 della legge 21 dicembre 2012, n. 247, per difetto di correlazione tra incolpazione e decisione. Osserva il ricorrente che sia l’art. 48 del r.d. n. 37 del 1934 sia l’art. 59 della legge n. 247 del 2012 ribadiscono il principio per cui all’incolpato deve essere mossa una contestazione dell’addebito precisa e circostanziata, a salvaguardia del suo diritto di difesa. Nella specie, l’atto di incolpazione faceva riferimento agli artt. 12 e 38 del r.d.l. n. 1578 del 1933, in riferimento agli artt. 22 e 23 del codice deontologico forense allora vigente, per non aver tenuto un comportamento ispirato a correttezza e lealtà. Il C.N.F., ritenendo che la condotta in questione potesse essere ricompresa nella previsione dell’art. 46 del nuovo codice deontologico forense, avrebbe omesso di considerare che questa disposizione non fa alcun riferimento al dovere di agire con correttezza e lealtà, che è invece previsto dall’art. 9 del vigente codice deontologico in tal modo, perciò sarebbe stato violato il principio di corrispondenza tra l’incolpazione e la decisione, con conseguente nullità della sentenza. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 65 della legge n. 247 del 2012 in riferimento alla successione delle leggi nel tempo ed all’applicazione di quella più favorevole, nonché del vigente codice deontologico nella parte in cui prevede la tipizzazione degli illeciti e la predeterminazione delle sanzioni applicabili. Osserva il ricorrente che l’art. 65 cit. prevede che, nel passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento forense, l’entrata in vigore del nuovo codice deontologico ha determinato la cessazione di efficacia delle disposizioni precedenti, con applicazione delle norme nuove anche ai procedimenti disciplinari in corso, se più favorevoli all’incolpato c.d. principio del favor rei . Le norme contenute nel titolo primo del nuovo codice deontologico non prevedono l’irrogazione di alcuna sanzione disciplinare pertanto, poiché la lesione dei doveri di correttezza e lealtà viene menzionata solo nel titolo primo cit., da tanto conseguirebbe che nessuna sanzione disciplinare poteva essere posta a carico del ricorrente. 3. La trattazione dei due motivi, benché essi pongano questioni differenti, può avvenire in modo unitario, poiché le censure sono tra loro intimamente connesse. 3.1. È opportuno premettere che l’odierno procedimento disciplinare si colloca, per così dire, a cavallo tra il precedente e l’odierno codice deontologico forense. Mentre, infatti, la vicenda che ha dato luogo alla sanzione si è verificata nel 2011, la delibera del C.O.A. di Reggio Emilia è del 16 settembre 2013 e quella del C.N.F. è del 9 marzo 2017, quando il nuovo codice deontologico era ormai entrato in vigore la pubblicazione, infatti, è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 2014 e l’art. 73 del codice stesso ne prevede l’entrata in vigore sessanta giorni dopo tale pubblicazione . Da tale cronologia deriva che, come correttamente è stato posto in luce dal ricorrente, alla vicenda in esame deve trovare applicazione il principio, più volte affermato nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, per cui le norme del nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti in corso, se più favorevoli per l’incolpato, in conformità al disposto dell’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 v. la sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023, seguita, fra le altre, dall’ordinanza 27 ottobre 2015, n. 21829, e dalla sentenza 20 settembre 2016, n. 18394 . 3.2. Tanto premesso, il primo motivo di ricorso non è fondato. Il ricorrente censura la mancata correlazione tra incolpazione e decisione, ma tale eventualità non è configurabile nel caso in esame. Come queste Sezioni Unite hanno già affermato nella sentenza 4 febbraio 2005, n. 2197 - con un principio più volte ripreso in relazione al procedimento disciplinare riguardante i magistrati - nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, e pure nella fase amministrativa che si svolge dinanzi al locale Consiglio dell’ordine, vige, come naturale corollario del principio del contraddittorio e della garanzia del diritto di difesa, il divieto di emettere decisioni a sorpresa. Non è cioè consentito porre a base della decisione con cui si dichiari la responsabilità disciplinare un’ipotesi di illecito diversa da quella originariamente contestata con il decreto di citazione dinanzi al Consiglio dell’ordine, e senza che, in relazione alla nuova ipotesi di illecito, vi sia stata, per l’incolpato, la possibilità di svolgere alcuna attività difensiva. È, quindi, nel principio del contraddittorio, che si collega con la garanzia costituzionale del giusto processo, che trova fondamento la necessità che l’incolpato abbia la possibilità di interloquire e di difendersi in relazione all’accusa disciplinare mossa nei suoi confronti. Proprio questo, però, dimostra l’infondatezza del motivo in esame. Nella vicenda odierna, infatti, il capo di incolpazione è rimasto sempre il medesimo, mentre si è modificato il quadro normativo di riferimento, perché il codice deontologico è cambiato durante il corso del processo, ma il fatto e l’accusa sono rimasti i medesimi. Non sussiste, perciò, difetto di correlazione tra incolpazione e decisione, ma solo un problema di inquadramento giuridico del comportamento tenuto dall’avv. F. nel passaggio dalle precedenti norme a quelle oggi vigenti. 3.3. Da quanto affermato fin qui deriva che la vera questione consiste nello stabilire se possa dirsi - come sostiene il secondo motivo di ricorso, che si va adesso ad esaminare - che nel nuovo sistema la violazione dei doveri di correttezza e lealtà non possa dare luogo alla sanzione dell’avvertimento. In altri termini, poiché il C.O.A. di Reggio Emilia aveva contestato la violazione del dovere di correttezza, mentre il C.N.F. ha inquadrato il fatto nell’art. 46, cioè violazione del rapporto di colleganza, occorre stabilire se tale inquadramento sia corretto alla luce del principio del favor rei. Ritengono queste Sezioni Unite che la decisione del C.N.F. sia corretta. Come risulta dalla sentenza impugnata, all’avv. F. venne contestata la violazione degli artt. 22 e 23 del codice deontologico previgente, in relazione agli artt. 12 e 38 del r.d.l. n. 1578 del 1933, per non aver mantenuto nei confronti del collega Luca C. un comportamento ispirato a correttezza . Il C.N.F. ha individuato una corrispondenza tra tale contestazione disciplinare e l’art. 46 del nuovo codice deontologico, che prevede l’obbligo dell’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza . Nel sistema delineato dal nuovo codice deontologico la violazione dei doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza è prevista dall’art. 9, mentre il successivo art. 20 stabilisce che la violazione dei doveri di cui ai precedenti articoli dunque, anche dell’art. 9 costituisce illecito disciplinare nelle ipotesi di cui ai titoli II, III, IV, V e VI del codice, cioè in presenza di previsioni specifiche. Ne consegue che è del tutto ragionevole la ricostruzione operata nella sentenza impugnata secondo cui la previsione dell’art. 46 - dove, a proposito dei doveri dell’avvocato nel processo cioè nel caso in esame , si stabilisce che il professionista deve osservare il dovere di difesa, salvaguardando, per quanto possibile, il rapporto di colleganza - trova corrispondenza in quella a suo tempo contestata all’avv. F. , poiché la violazione del rapporto di colleganza può costituire una concreta esplicazione della violazione del più vasto ambito della lealtà e correttezza professionale. Ciò comporta la legittimità della sanzione dell’avvertimento in concreto inflitta. 3.4. Si impone, in conclusione, un’ultima considerazione. La Corte rileva che non può essere oggetto di esame in questa sede l’ulteriore questione, posta dal difensore del ricorrente nel corso dell’udienza di discussione, riguardante il problema del merito dell’accusa disciplinare. Il difensore, infatti, ha sostenuto che non si potrebbe considerare violazione del rapporto di colleganza la richiesta di condanna di un collega, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., in solido con la parte da lui assistita. Si tratta, però, di un profilo estraneo al ricorso, in quanto posto per la prima volta in sede di discussione e, quindi, inammissibile. 4. Il ricorso, pertanto, è rigettato. Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte degli intimati. Sussistono tuttavia le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.