“Giusto processo” anche se il “processo è giusto”

L’art. 111 Cost. deve essere interpretato secondo la duplice previsione del principio di ragionevole durata del processo” e del principio del giusto processo” riferendo tale giustizia non più o non solo alla meritevolezza dell’interesse del creditore di ottenere l’intero e non il parziale, ma al divieto di abuso degli strumenti processuali, tale intendendosi l’uso della vocatio in ius idoneo ad arrecare un maggiore pregiudizio” al debitore in termini di apprestamento di difesa e di moltiplicazione delle spese di lite , che non trova giustificazione nell’interesse del creditore di ottenere per via giudiziaria la piena e integrale soddisfazione del proprio diritto.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 23542/17, depositata il 9 ottobre. La fattispecie. La Corte d’Appello di Milano, confermando la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Milano, ha revocato il decreto ingiuntivo ottenuto da un Avvocato nei confronti di una sua cliente per il pagamento dell’importo asseritamente dovuto a saldo di una parcella per prestazioni di assistenza legale. I Giudici hanno dichiarato improponibile la domanda proposta in via monitora dal legale in quanto la stessa parcellizzazione dell’originario credito professionale, già parzialmente azionato e soddisfatto con un altro e precedente decreto ingiuntivo, costituendo tale duplicazione di azioni per il medesimo credito un abuso del processo. Il creditore non deve abusare degli strumenti processuali posti a sua tutela. Il ricorrente ha lamentato la violazione degli artt. 2, 24 e 111, commi 1 e 2, Cost. e dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU. Secondo la prospettazione fornita dall’Avvocato, infatti, la declaratoria di improponibilità da parte dei giudici milanesi avrebbe costituito una sanzione spropositata per reprimere la condotta del creditore in quanto costui, avendo ottenuto già il parziale soddisfacimento della sua pretesa, non avrebbe potuto più richiedere il residuo, vedendosi così ingiustamente privato del diritto, costituzionalmente tutelato, di agire in giudizio a tutela dei propri crediti. Tale conseguenza sarebbe, secondo il ricorrente, contraria al principio di ragionevolezza, che imporrebbe di applicare i principi giurisprudenziali richiamati nella sentenza gravata senza cagionare al creditore, attraverso la denegatio actionis , un pregiudizio maggiore rispetto a quello patito o patiendo dal debitore. Entrambi i motivi sono stati disattesi dagli Ermellini sul rilievo evidenziato dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione non solo considerando la centralità assunta dalla clausola di buona fede” che trova applicazione anche nel processo e quindi anche nella fase patologica del rapporto , ma anche sulla scorta di una nuova interpretazione dell’art. 111 Cost., nella duplica previsione del principio di ragionevole durata del processo” cui si oppone l’effetto inflattivo della proliferazione di cause attinenti il medesimo rapporto e del principio del giusto processo”, riferendo tale giustizia non più o non solo alla meritevolezza dell’interesse del creditore di ottenere l’intero e non il parziale, ma al divieto di abuso degli strumenti processuali, tale intendendosi l’uso della vocatio in ius idoneo ad arrecare un maggiore pregiudizio” al debitore in termini di apprestamento di difesa e di moltiplicazione delle spese di lite , che non trova giustificazione nell’interesse del creditore di ottenere per via giudiziaria la piena e integrale soddisfazione del proprio diritto. In sostanza, secondo la Corte di Cassazione, non può essere attribuita meritevolezza alla difesa di un diritto o interesse compiuta attraverso un abuso del processo” ossia a un uso improprio” dell’azione giudiziaria, in quanto mezzo eccedente o sproporzionato rispetto alla attività processuale – in ciò dovendosi intendere ricompresa non solo la iniziativa giudiziaria del creditore, ma anche l’impiego dell’apparato organizzativo predisposto per l’esercizio della funzione giurisdizionale e i tempi occorrenti per lo svolgimento del processo – effettivamente necessaria per raggiungere lo scopo in quanto si verrebbe in tal modo ad ammettere un processo ingiusto” e dunque non conforme all’art. 111 Cost

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 giugno – 9 ottobre 2017, n. 23542 Presidente Mazzacane – Relatore Cosentino Fatti di causa L’avvocatessa N.R. ricorre, sulla scorta di otto motivi d gravame, avverso la sentenza della corte d’appello di Milano che, confermando interamente la sentenza del tribunale della stessa città, ha revocato il decreto ingiuntivo da lei ottenuto nei confronti della sig.ra L.R.L. per il pagamento della somma di Euro 3.367,06, quale importo a saldo di una parcella per prestazioni di assistenza legale rese dall’avvocatessa N. alla società omissis s.n.c., della quale la L.R. si era resa garante. La corte ambrosiana ha dichiarato improponibile la domanda proposta in via monitoria dall’avvocatessa N. , perché la stessa costituiva parcellizzazione dell’originario credito professionale, già parzialmente azionato e soddisfatto con altro e precedente decreto ingiuntivo dell’importo di Euro 1.032,91 tale duplicazione di azioni per il medesimo credito costituiva, secondo la corte distrettuale, un abuso del processo, alla stregua dei principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 23726/2007. La signora L.R. ha depositato controricorso. La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 6.6.17, per la quale solo la contro ricorrente ha depositato una memoria e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe. Ragioni della decisione Con i primi due motivi, per i quali è opportuna la trattazione congiunta, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e 6, paragrafo 1, CEDU, nonché dell’art. 132, 2 comma n. 4 cpc e 118 disp. att., 1° comma, cpc, nonché il vizio di insufficiente o omessa motivazione della sentenza gravata. Secondo la ricorrente, la corte territoriale si sarebbe limitata ad una mera enunciazione astratta di principi giurisprudenziali disancorati dalla fattispecie concreta e avrebbe omesso di considerare alcuni fatti dedotti in sede di merito ed asseritamente decisivi per orientare diversamente la decisione. In particolare la ricorrente lamenta l’omessa considerazione delle seguenti circostanze a l’azione esperita per seconda non avrebbe le caratteristiche della parziarietà, in quanto avrebbe ad oggetto l’intero credito residuo b il comportamento della creditrice odierna ricorrente non sarebbe stato in alcun modo scorretto o comunque contrario a buona fede c la corte non avrebbe individuato alcun concreto pregiudizio patito dalla convenuta d infine la corte non avrebbe tenuto conto della circostanza che il giudizio era stato instaurato in un momento antecedente l’emissione della suddetta pronuncia a sezioni unite, circostanza che avrebbe imposto di valorizzare il principio di affidamento nel giurisprudenza precedente, escludendo quindi l’applicazione della nuova interpretazione I motivi vanno giudicati infondati perché nessuno dei fatti asseritamente trascurati dalla corte territoriale presenta la caratteristica della decisività la ratio decidendi della sentenza gravata si fonda, infatti, sul principio che il frazionamento delle domande costituisce di per sé stesso abuso del processo e pertanto nessuna rilevanza può attribuirsi alle circostanze di cui si lamenta l’omessa valorizzazione. Col terzo e quarto motivo, che pure è opportuno considerare congiuntamente, la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2, 24 e 111, 1 e 2 comma Cost. e 6, paragrafo 1, CEDU. Secondo la ricorrente la declaratoria di improponibilità costituirebbe, nel caso di specie, una sanzione sproporzionata per reprimere la condotta del creditore in quanto costui, avendo ottenuto già il parziale soddisfacimento della sua pretesa, non potrebbe più richiedere il residuo, vedendosi così ingiustamente privato del diritto, costituzionalmente tutelato, di agire in giudizio a tutela dei propri crediti. Tale conseguenza sarebbe, secondo la ricorrente, contraria al principio di ragionevolezza, che imporrebbe di applicare i principi giurisprudenziali richiamati nella sentenza gravata senza cagionare al creditore, attraverso la denegatio actionis, un pregiudizio maggiore rispetto a quello patito o patiendo dal debitore in nessun modo peraltro, nella specie, accertato dal giudice . Entrambi tali motivi vanno disattesi, sul rilievo, chiaramente evidenziato nella recente sentenza di questa Corte n. 929/17, che l’arresto di S.S.UU. n. 23726/07, giustificare il revirement ivi deciso non solo con l’evoluzione della centralità assunta dalla clausola generale di buona fede che trova applicazione anche nel processo, e quindi anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio , ma anche su una nuova interpretazione dell’art. 111 Cost., nella duplice previsione del principio di ragionevole durata del processo cui si oppone l’effetto inflattivo della proliferazione di cause attinenti il medesimo rapporto e del principio del giusto processo , riferendo tale giustizia non più o non solo alla meritevolezza dell’interesse del creditore di ottenere l’intero e non il parziale argomento che era stato criticato come falso sillogismo da S.S.U.U. 108/00 , ma al divieto di abuso degli strumenti processuali, tale intendendosi l’uso della vocatio in jus idoneo ad arrecare un maggiore pregiudizio al debitore in termini di apprestamento di difesa e di moltiplicazione delle spese di lite , che non trova giustificazione nell’interesse del creditore di ottenere per via giudiziaria la piena ed integrale soddisfazione del proprio diritto. In sostanza non può essere attribuita meritevolezza alla difesa di un diritto od interesse compiuta attraverso un abuso del processo ossia ad un uso improprio dell’azione giudiziaria, in quanto mezzo eccedente o sproporzionato rispetto alla attività processuale - in ciò dovendosi intendere ricompresa non solo la iniziativa giudiziaria del creditore ma anche l’impiego dell’apparato organizzativo predisposto per l’esercizio della funzione giurisdizionale ed i tempi occorrenti per lo svolgimento del processo - effettivamente necessaria per raggiungere lo scopo in quanto si verrebbe in tal modo ad ammettere un processo ingiusto , e dunque non conforme al valore espresso nell’art. 111 Cost Col quinto motivo il ricorrente censura la violazione degli artt. 24 e 111 1 e 2 comma Cost. e dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, nella parte in cui la corte d’appello non ha considerato che il presente giudizio era stato instaurato prima dell’arresto delle Sezioni Unite n. 23726/07, violando in questo modo l’affidamento riposto dal creditore-attore in una giurisprudenza a quel tempo consolidata. Il motivo va disatteso, ritenendo il Collegio di dover dare conferma e seguito al già citato recente precedente di questa Corte n. 929/17, che ha chiarito che la proposizione di separate azioni risarcitorie per danni diversi nascenti dallo stesso fatto illecito, avvenuta anteriormente all’arresto delle Sezioni Unite che ha affermato il principio dell’infrazionabilità della domanda giudiziale per crediti derivanti da un unico rapporto, si sottrae all’applicazione del prospettive overruling , secondo cui restano salvi gli effetti degli atti processuali compiuti dalla parte che abbia fatto incolpevole affidamento sulla stabilità di una previgente interpretazione giurisprudenziale, atteso che quella decisione non ha comportato il mutamento dell’interpretazione di una regola del processo che preveda una preclusione o una decadenza, ma ha sancito l’improponibilità delle domande successive alla prima in ragione del difetto di una situazione giuridica sostanziale tutelabile, per contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che non consente di accordare protezione ad una pretesa caratterizzata dall’uso strumentale del diritto di azione. Con il sesto e settimo motivo, ancora una volta da esaminare congiuntamente, la ricorrente censura la violazione dell’art. 2697, comma 2, c.c. e dell’art. 115 c.p.c. in cui la corte territoriale sarebbe incorsa postulando che il frazionamento del recupero giudiziale del credito l’esercizio frazionato del credito determinasse un pregiudizio per la debitrice sesto motivo, in cui si argomenta che tale frazionamento avrebbe invece determinato un risparmio per la debitrice, contenendo la liquidazione delle spese giudiziali in ragione dei più bassi scaglioni di riferimento e integrasse una scorrettezza o mala fede della creditrice settimo motivo . Tali motivi non possono trovare accoglimento, perché non colgono la ratio decidendi della sentenza gravata che, correttamente, si fonda sull’abusività in re ipsa del frazionamento delle domande. Con l’ottavo ed ultimo motivo si censura la violazione dell’art. 112 c.p.c. in cui la corte sarebbe incorsa omettendo di pronunciarsi, sul presupposto del relativo assorbimento nella questione preliminare di rito, sulle domande svolte dall’appellante, oggi ricorrente, di accertamento della correttezza e buona fede della propria condotta nell’instaurazione di entrambi i procedimenti, di conferma del decreto ingiuntivo opposto e, in ipotesi, di accertamento del minor credito a lei spettante. Il motivo va disatteso, avendo questa Corte già avuto occasione di chiarire, nella sentenza n. 7663/12, che il vizio di omessa pronuncia resta escluso anche nell’ipotesi di assorbimento c.d. improprio, che si determina quando la decisione assorbente rimuove la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande. Il ricorso va quindi in definitiva rigettato. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente a rifondere alla contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, liquidandole in Euro 1.000, oltre Euro 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.