L’avvocato non può pubblicizzare i nomi dei propri clienti

La Cassazione interviene sul delicato e discusso tema della pubblicità dell’avvocato e i limiti deontologici previsti per l’esercizio di quella pubblicità o attività informativa.

La Corte di Cassazione, nella composizione a Sezioni Unite ratione materiae , con la sentenza del 19 aprile 2017, n. 9861 interviene sul delicato e discusso tema della pubblicità dell’avvocato e i limiti deontologici previsti per l’esercizio di quella pubblicità o attività informativa che dir si voglia. Il tema della pubblicità è da tempo al centro dell’attenzione e del dibattito relativo alle modalità con le quali l’avvocato si pone sul mercato. Dibattito che ha visto e vede ancora contrapposti due fronti. Da una parte, chi ritiene che l’avvocato come imprenditore” debba poter utilizzare tutte le forme di comunicazione e di offerta commerciale abitualmente impiegate dal marketing come ad esempio, per fare soltanto alcuni casi Facebook o Groupon sul punto l'interprete più autorevole è forse l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato. Dall’altra parte vi è chi valorizza il ruolo che l’avvocato riveste nel nostro ordinamento e, quindi, puntando oggi solo sul controllo delle modalità con le quali l’avvocato – libero professionista appartenente ad una professione regolamentata nell’interesse pubblico – può farsi pubblicità per conquistare absit iniuria verbis nuove fette di mercato non intende cedere alla logica cd. in senso evidentemente spregiativo mercantilistica” dell'avvocatura. La pubblicazione dei nomi dei clienti. Oggi, il tema che ha visto prima il CNF con la sentenza n. 55 del 2016 e poi la Cassazione che l'ha confermata pronunciarsi è stata la pubblicazione dei nomi dei clienti sul proprio sito internet. Nel caso di specie, infatti, alcuni avvocati avevano proposto ricorso avverso la decisione del CNF che aveva respinto il ricorso avverso il provvedimento disciplinare con il quale l’Ordine degli avvocati di Macerata aveva irrogato loro la sanzione dell’avvertimento perché avevano pubblicato sul proprio sito internet col loro consenso l’elenco dei principali clienti assistiti per progetti specifici in violazione degli artt. 6 e 17 del codice deontologico. Pubblicazione, però, che sia il previgente Codice applicabile al caso concreto che quello nuovo vietano espressamente. Ed infatti, il nuovo Codice deontologico approvato dal CNF nella seduta del 31 gennaio 2014 all’art. 35, comma 8 prevede sempre che nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano . Bersani ha superato il divieto di pubblicità? Per i ricorrenti, però, tutte le norme del codice deontologico che pongono divieti o limiti alla pubblicità dell'avvocato dovrebbero ritenersi abrogate per incompatibilità a seguito della cd. legge Bersani e, cioè, il d.l. n. 223/2006 che ha liberalizzato” la pubblicità anche per gli avvocati. In base all'art. 2, infatti, in conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un'effettiva facoltà di scelta nell'esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali , inter alia , proprio il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall'ordine . Un principio al quale, in base al comma 3 della medesima disposizioni, devono adeguarsi le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina. Ebbene, secondo gli avvocati ricorrenti, il quadro normativo consente all'Ordine professionale di vigilare sulla trasparenza e veridicità del messaggio professionale e nulla più. Le specificità dell’avvocatura. Senonché per la Suprema Corte la tesi dei ricorrenti non può trovare accoglimento. In primo luogo, infatti, l'esclusione del divieto di rendere pubblici i nominativi dei propri clienti non è espressamente prevista dal decreto citato e pertanto essa può ritenersi rientrare nella richiamata previsione normativa solo in base ad un'ampia interpretazione del concetto di pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto” . In secondo luogo, poi, questa ipotetica interpretazione dovrebbe tenere in considerazione le peculiari caratteristiche dell'attività libero professionale in quanto l'avvocato è anche il necessario partecipe” dell'esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, se è vero che nessun processo salvi i processi civili di limitatissimo valore economico può essere celebrato senza l'intervento di un avvocato speriamo soltanto che la Cassazione si ricordi di questa importante affermazione di principio rivedendo la propria posizione sulla non incompatibilità della Camera di Consiglio non partecipata prevista dal nuovo processo di Cassazione con i principi costituzionali e della CEDU! . Per la Cassazione, quindi, il rapporto tra cliente e avvocato non può essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato conseguentemente occorre maggiore cautela essendoci il rischio che il riferimento ai nomi dei clienti possa consentire di risalire anche all'attività processuale o no svolta a loro favore. Addirittura occorre evitare che la pubblicazione del nominativo di un cliente imputato di reato associativo mafioso acconsentita dal cliente venga strumentalizzata per lanciare messaggi ad eventuali complici circa la linea difensiva da seguire o il difensore da scegliere sic! . Le regole e la società. Se queste sono le regole secondo la giurisprudenza resta, tuttavia, qualche interrogativo sulla tenuta di questa regola alla luce della pratica quotidiana ed infatti, ci sono almeno due casi che possono rappresentare un possibile spunto di riflessione che qui non possiamo neppure iniziare ad approfondire . Il primo caso riguarda la possibilità che il nominativo del cliente dell'avvocato divenga comunque di pubblico dominio laddove la questione assuma rilievo mediatico sul punto all'avvocato non è vietato – ma soltanto e giustamente regolamentato – il rapporto con i mezzi di informazione e laddove, ad esempio, esistano come esistono siti specializzati che informano sistematicamente su chi ingaggia chi per una certa operazione o controversia. Il secondo caso riguarda, poi, i casi in cui una pubblica amministrazione avvia una selezione pubblica per avvocati chiedendo loro di specificare quali sono i propri clienti e in ipotesi anche l’oggetto del contenzioso al fine di valutare la competenza per il conferimento di incarichi professionali questa norma del bando lex specialis dovrebbe, forse, cedere rispetto al principio affermato oggi dalla Corte di Cassazione come principio generale ed anche – a quanto pare - informatore dell’ordinamento in quanto qualificante la specifica attività dell’avvocato? Non resta che prendere atto che il tema della pubblicità dell'avvocato resta ancora un tema caldo e sul quale il dibattito è sicuramente aperto e in divenire.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 22 novembre 2016 – 19 aprile 2017, n. 9861 Presidente Rordorf – Relatore Di Iasi Fatti di causa Gli avvocati B.G. , P.P. ed Bo.El. hanno impugnato dinanzi al Consiglio Nazionale Forense la decisione del COA di che aveva irrogato loro la sanzione dell’avvertimento per avere riportato nel sito internet del proprio studio col loro consenso l’elenco dei principali clienti assistiti in via continuativa e dei principali clienti assistiti per progetti specifici in violazione degli artt. 6 e 17 del codice. Il C.N.F. ha respinto il ricorso, tra l’altro evidenziando che le norme deontologiche relative alla pubblicità devono leggersi considerando la peculiarità della professione forense in virtù della sua funzione sociale la quale impone, conformemente alla normativa comunitaria, le limitazioni connesse alla dignità e al decoro della professione. Per la cassazione di questa sentenza gli avvocati B. , P. e Bo. ricorrono con quattro motivi. Il Coa di Macerata non si è costituito. Ragioni della decisione Col primo motivo si denuncia violazione del combinato disposto degli artt. 17 codice deontologico forense e 2 d.l. n. 223 del 2006, norma, quest’ultima, che ha abrogato tutte le disposizioni prevedenti divieti di pubblicità informativa, tra i quali è da ritenersi compreso quello di rendere noti i nomi dei clienti col secondo motivo si denuncia violazione del combinato disposto degli artt. 38 r.d. n. 1578 del 1933 e 17 codice deontologico forense anteriore alla novella del 2014, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria al decoro della professione con il terzo motivo si denuncia violazione del combinato disposto degli artt. 6 codice deontologico e 2 d.l. n. 233 del 2006, non costituendo la pubblicazione dei nomi dei clienti attività contraria ai principi di legalità e correttezza con il quarto motivo si censura la decisione del C.N.F. per eccesso di potere, attesa la carenza di potestà disciplinare in relazione alle modalità della pubblicità informativa degli avvocati salvo che essa non integri gli estremi della condotta lesiva del decoro professionale. Le censure esposte, da esaminare congiuntamente perché logicamente connesse, non sono fondate. Il d.l. n. 223 del 2006 cd. decreto Bersani ha previsto, dalla data della propria entrata in vigore, l’abrogazione delle disposizioni legislative e regolamentari che prevedono il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni. Il C.N.F. ha ritenuto che il decreto Bersani non abbia abrogato la previsione del codice deontologico allora vigente secondo la quale l’avvocato non può rivelare al pubblico il nome dei propri clienti, ancorché questi vi consentano, previsione peraltro rimasta immutata anche nel codice deontologico successivo al citato decreto Bersani. Tanto premesso occorre innanzitutto considerare che l’esclusione del divieto di rendere pubblici i nominativi dei propri clienti non è espressamente prevista dal decreto citato e pertanto essa può ritenersi rientrare nella richiamata previsione normativa solo in base ad un’ampia interpretazione del concetto di pubblicità informativa circa le caratteristiche del servizio offerto . Di tale interpretazione deve tuttavia essere verificata la compatibilità con le peculiari caratteristiche dell’attività libero-professionale considerata, essendo in proposito da evidenziare che l’attività forense risulta disciplinata da una complessa normativa, anche processuale, ed è indubbiamente nell’ambito più generale di tale normativa complessivamente considerata che vanno inserite ed interpretate le disposizioni in materia di pubblicità informativa con riguardo alla professione forense. Certo l’attività dell’avvocato, in quanto attività libero-professionale, non è sottratta al principio della ammissibilità della pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni , tuttavia l’ambito in concreto di tale principio va considerato e declinato alla luce delle peculiarità della suddetta attività, non essendo l’avvocato solo un libero professionista ma anche il necessario partecipe dell’esercizio diffuso della funzione giurisdizionale, se è vero che nessun processo salvo i processi civili di limitatissimo valore economico può essere celebrato senza l’intervento di un avvocato. La forte valenza pubblicistica dell’attività forense spiega perché il rapporto tra il professionista ed il cliente attuale o potenziale rimanga in buona parte scarsamente influenzabile dalla volontà e dalle considerazioni personali o dalle valutazioni economiche degli stessi protagonisti e come possa pertanto non risultare dirimente -nel senso di escludere il relativo divieto il consenso prestato dai clienti del medesimo avvocato alla diffusione dei propri nominativi a fini pubblicitari. Il rapporto tra cliente e avvocato non è infatti soltanto un rapporto privato di carattere libero-professionale e non può perciò essere ricondotto puramente e semplicemente ad una logica di mercato, basti pensare che il legislatore processuale non ritiene determinanti le manifestazioni di volontà espresse dalle stesse parti neppure per quanto riguarda l’inizio o la cessazione del rapporto medesimo nel processo penale è imposto all’imputato che non ne sia provvisto un avvocato d’ufficio, il quale, dal canto suo, salvo che non abbia valide ragioni per rifiutare, ha l’obbligo di accettare l’incarico nel processo civile né la revoca né la rinuncia privano di per sé il difensore della capacità di compiere o ricevere atti, atteso che i poteri attribuiti al procuratore alle liti non sono quelli che liberamente determina chi conferisce la procura, ma sono attribuiti dalla legge al professionista che la parte si limita a designare, a differenza di quanto accade in relazione alla procura al compimento di atti di diritto sostanziale, per la quale è previsto che chi ha conferito i relativi poteri può revocarli e chi li ha ricevuti, dismetterli con efficacia immediata v. tra le altre Cass. nn. 17649 del 2010 e 11504 del 2016 . È proprio la stretta connessione tra l’attività libero-professionale dell’avvocato e l’esercizio della giurisdizione che impone dunque maggiore cautela in materia, non potendo tra l’altro ignorarsi che la pubblicità circa i nominativi dei clienti degli avvocati in uno con la pubblicità informativa circa le specializzazioni professionali e le caratteristiche del servizio offerto dal legale potrebbe finire di fatto per riguardare non solo i nominativi dei clienti del medesimo ma anche l’attività processuale svolta in loro difesa, quindi, indirettamente, uno o più processi, che potrebbero essere ancora in corso e, tra l’altro, in alcuni casi persino subire indirette interferenze da tale forma di pubblicità si pensi, per esempio, a processi per partecipazione ad associazioni di tipo mafioso, in cui il cliente potrebbe autorizzare la diffusione del proprio nominativo non tanto per fare pubblicità al proprio legale quanto per lanciare messaggi ad eventuali complici circa la linea difensiva da seguire o il difensore da scegliere . Né le considerazioni che precedono contrastano con la prevista pubblicità del processo e della sentenza, posto che quando si parla di pubblicità del dibattimento o della sentenza si intende che né il processo né la sentenza sono segreti ed è prevista quindi la possibilità di venirne a conoscenza sia pure, talora, con particolari modalità e/o entro precisi limiti , mentre tutt’affatto diverso è ovviamente il significato del termine pubblicità quando viene usato per identificare la propaganda diretta ad ottenere dalla collettività la preferenza nei confronti di un prodotto o di un servizio. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Nessuna statuizione va adottata in punto di spese del giudizio di legittimità non essendovi attività difensiva da parte del COA. Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 15 del 2002. P.Q.M. La Corte a sezioni unite rigetta il ricorso. Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 15 del 2002.