Dimostrare la responsabilità dell’avvocato non è così semplice…

La responsabilità del legale non può dirsi esistente, e comunque affermarsi, in presenza di un semplice errore od omissione , stante la necessità di dimostrare, da parte del cliente, la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella condotta asseritamente colpevole.

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22882/16 del 10 novembre. La fattispecie. Nel caso in esame il Giudice di merito dichiarò l’infondatezza dell’azione di responsabilità proposta nei confronti di due legali stante l’illegittimità degli atti di una procedura di licenziamento collettivo adottata su loro suggerimento. La Corte d’appello, investita del caso, ha ritenuto inammissibile l’impugnazione ai sensi dell’art. 348 ter codice di rito. La controversia è giunta, infine, avanti al Giudice di legittimità. Se la motivazione è esaustiva e logica si sottrae all’esame della Corte. A dire del Supremo collegio il Giudice di merito aveva ben motivato la propria decisione asserendo che l’intervento dei legali, alla luce delle prove raccolte, era stato soltanto funzionale a rendere compatibile il licenziamento con i criteri di scelta determinati dal nostro Ordinamento. Tale motivazione, caratterizzata da completezza, non può essere oggetto di esame della Corte la quale non può essere qualificata come un terzo grado del giudizio di merito. L’orientamento della Corte sulla responsabilità professionale. E’ immanente principio della giurisprudenza di legittimità che la responsabilità dell’avvocato non può dirsi esistente, e comunque affermarsi, in presenza di un semplice errore od omissione , stante la necessità di dimostrare, da parte del cliente, la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella condotta asseritamente colpevole. Orbene, nel caso sottoposto alla Corte, l’attrice non aveva dato dimostrazione che, qualora i legali si fossero comportati in modo differente, l’esito della controversia avrebbe potuto essere differente rispetto a quello, negativo, effettivamente ottenuto.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 12 aprile – 10 novembre 2016, n. 22882 Presidente/Relatore Travaglino I fatti Nell’agosto del 2012 il Tribunale di Firenze dichiarò l’infondatezza dell’azione di responsabilità proposta dalla Casa di cura Maria Beatrice Hospital nei confronti degli avvocati F. e T. , ritenendoli non imputabili della pur lamentata illegittimità degli atti di una procedura di licenziamento collettivo adottata dall’attrice su loro suggerimento, in mancanza di prova della attribuibilità ai predetti convenuti della condotta generatrice del lamentato evento di danno. La corte di appello di Firenze, investita dell’impugnazione proposta dalla Casa di cura, la ritenne inammissibile ex art. 348 ter c.p.c Per la cassazione della sentenza del Tribunale l’appellante ha proposto ricorso sulla base di 3 motivi di censura illustrati da memoria. Resistono con controricorso entrambi i professionisti. Le ragioni della decisione La decisione ordinatoria della Corte di appello fiorentina appare correttamente adottata. Il ricorso risulta, difatti, manifestamente infondato. Con il primo motivo , si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 c.p.c., 2909 c.c., con riferimento all’art. 360 primo comma nn. 3 e 4 c.p.c Il motivo è privo di pregio. Parte ricorrente impugna il capo di sentenza di primo grado nel quale viene accertata e affermata, con apprezzamento di fatto esente da vizi logico-giuridici, la sostanziale estraneità dei professionisti convenuti alla gestione della fase amministrativa e sindacale che fu premessa della successiva collocazione in mobilità dei lavoratori, individuando nella successiva epoca della predisposizione delle lettere di licenziamento l’intervento dell’avv. F. , ed alla ancora successiva epoca della predisposizione di una missiva integrativa quello dell’avv. T. . In disparte la assai poco comprensibile e nella specie del tutto impredicabile doglianza di violazione di un giudicato costituito dalla pronuncia resa dal giudice del lavoro nell’ambito del giudizio sui licenziamenti, la censura si infrange sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto da un canto, che la datrice di lavoro fosse stata assistita da altri professionisti, e che l’intervento degli odierni intimati, alla luce di una complessiva valutazione delle emergenze probatorie, fosse stato soltanto funzionale a rendere compatibile il licenziamento con i criteri di scelta determinati ex lege in sede di esame del complesso coacervo probatorio, viene, in proposito, argomentatamente ritenuta non attendibile la deposizione, dissonante rispetto alle conclusioni raggiunte in sentenza, del teste R. , legale rappresentante della Casa di cura dall’altro, che, pur ammessa contro ogni evidenza la predicabilità di un concorso morale o materiale dei due professionisti nella determinazione del lamentato evento di danno, sarebbe comunque stata da escludere la configurabilità di un inadempimento colpevole, volta che la procedura di licenziamento collettivo venne ritenuta legittima addirittura in una duplice sede giudiziaria tanto primo quanto secondo grado del giudizio , prima dell’intervento correttivo della Corte di legittimità - giunta, peraltro, all’esito di una elaborazione giurisprudenziale assai controversa, a fronte di una novella normativa a sua volta pregna di innegabile ambiguità. La motivazione, caratterizzata da completezza e condivisa logicità, si sottrae tout court alle critiche ad essa mosse dalla ricorrente. Con il secondo motivo , si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli arti. 1218, 1176, 2236 c.c., 4, 5, 24 L. 223/1991 112, 113, 115 e 116 c.p.c., con riferimento all’art. 360 primo comma nn. 3 e 4 c.p.c Il motivo è infondato. Appare del tutto impredicabile la pretesa violazione da omissione di pronuncia in cui sarebbe incorso il Tribunale toscano, che, diversamente da quanto opinato dall’odierna ricorrente, non ha omesso tout court di considerare che le lettere di licenziamento erano state ritenute invalide, nel relativo giudizio lavoristico, per ragioni non soltanto formali i.e. il mancato rispetto del principio di contestualità nell’individuazione dei criteri di scelta dei licenziandi ma anche sostanziali inadeguatezza in fatto dei criteri in concreto suggeriti e adottati ma ha di converso osservato, con motivazione scevra da vizi logico-giuridici, come l’attrice non avesse mosso specifiche censure all’operato dei convenuti, né si fosse data pena di indicare specificamente la condotta in ipotesi corretta dovuta al fine di conformare la scelta dei licenziandi al dettato normativo. La motivazione del giudice fiorentino il cui compito di interpretare e valutare quoad effecta la domanda giudiziale resta a lui demandato in via esclusiva, non è in alcun modo censurabile in questa sede è del tutto conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte in ordine al riparto degli oneri probatori nelle vicende di responsabilità professionale giurisprudenza che appare correttamente e condivisibilmente applicata nella sentenza impugnata. Costituisce, difatti, ius receptum presso questa Corte regolatrice il principio secondo il quale la responsabilità dell’avvocato non può dirsi esistente, e conseguentemente affermarsi, in presenza di un semplice errore od omissione , stante la necessità di dimostrare, da parte del cliente, la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza di quella condotta asseritamente colpevole la sentenza impugnata, sia pur implicitamente, appare perfettamente orientata da tali principi, avendo correttamente valutato, altrettanto correttamente giudicando, in ordine agli oneri di allegazione e prova gravanti sull’attrice. Anche il motivo in esame risulta, pertanto, irrimediabilmente destinato ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice toscano dianzi descritto, dacché esso, pur formalmente abbigliato in veste di denuncia di una peraltro del tutto generica violazione di legge e di una affatto impredicabile omissione di pronuncia, si risolve, nella sostanza, nella sicuramente inammissibile richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito, volgendo piuttosto il reale intento della ricorrente all’invocazione di una diversa lettura delle risultanze procedimentali, onde sollecitare dinanzi a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto ormai cristallizzate quoad effectum sì come emerse nel corso del giudizio di merito. E così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, nuovo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai accertato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di merito - non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili in sede di giudizio di legittimità. Con il terzo motivo , si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Il motivo è del tutto inammissibile, impinguendo in valutazioni relative ai mezzi di prova riservate istituzionalmente al giudice di merito, che, nella specie, ha fatto buon governo dei relativi principi. Il ricorso è pertanto rigettato. Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza. Liquidazione come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 15.200, di cui 200 per spese. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. l comma 17 della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il controricorso, a norma del comma l bis dello stesso art. 13.