Il termine per l’impugnazione di provvedimento disciplinare ad opera del pm: profili di incostituzionalità?

Un iter a dir poco travagliato, quello del ricorso della Procura contro un provvedimento di dispensa che si conclude con una decisione della Cassazione a Sezioni Unite che affronta solo ed esclusivamente problemi relativi a norme processuali.

Il dictat è che, con riferimento ai termini di impugnazione, tra la parte privata e quella pubblica non è dato ravvisare alcuna reale significativa sperequazione. Corte di Cassazione, sentenza n. 19675/16, depositata il 3 ottobre . Il caso. Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Treviso aveva deliberato in favore della domanda di dispensa dalla prova attitudinale, ex art. 13 d.lgs. n. 96/2001, presentata da un abogado . Ma la questione arrivava, dapprima, sino al Consiglio Nazionale Forense, che a sua volta dichiarava inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello competente e, infine, fino alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione mediante impugnazione della sentenza del Consiglio Nazionale Forense. La materia oggetto delle pronunce, però, era sostanzialmente legata alla corretta interpretazione delle norme processuali. La normativa ‘incriminata’. La deliberazione in merito alla dispensa è assunta dal Consiglio dell'Ordine nel termine di tre mesi dalla data di presentazione della domanda o dalla scadenza del termine per la sua integrazione. La deliberazione è motivata e notificata entro 15 giorni all'interessato ed al Procuratore della Repubblica, al quale sono altresì trasmessi i documenti giustificativi. Nei 10 giorni successivi il Procuratore della Repubblica riferisce con parere motivato al Procuratore Generale presso la Corte di Appello. Quest'ultimo e l’interessato possono presentare, entro 20 giorni dalla notificazione, ricorso al Consiglio Nazionale Forense. Il ricorso del pubblico ministero ha effetto sospensivo. La deliberazione è altresì comunicata al Ministero della Giustizia per l'esercizio delle funzioni di vigilanza. Questo ricorso ‘non adda passà’. Il Consiglio Nazionale Forense aveva dichiarato inammissibile il ricorso della Procura Generale presso la Corte di Appello competente ritenendo che la relativa proposizione era avvenuta oltre il termine di quindici giorni dalla notificazione della decisione del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente, a nulla rilevando -ai fini dell'osservanza del termine il momento in cui quest'ultimo aveva inviato la deliberazione del detto Consiglio al Procuratore Generale. La prospettazione del ricorrente era, in prima battuta, che la sentenza impugnata avesse errato, perché il termine per la proposizione del ricorso da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Appello sarebbe dovuto decorrere dal momento della trasmissione ad esso della documentazione da parte del Procuratore presso il Tribunale e non dalla data della comunicazione della deliberazione a quest’ultimo. In seconda battuta, si prospettava che -ove non si fosse accolta tale interpretazione si sarebbe configurata una questione di incostituzionalità laddove in violazione dei principi di parità di trattamento e di uguaglianza anche processuale ex artt. 3, 24 e 111 della Carta Costituzionale alle parti ai fini della propria difesa, non vengono riconosciuti termini perequati a garanzia della corretta formazione del contraddittorio. Il rigetto degli Ermellini e la corretta interpretazione della normativa. La Cassazione rigetta entrambe le prospettazioni precisando quanto segue. Con riferimento al primo motivo di impugnazione, rileva che la previsione normativa, laddove riferisce che il decorso del termine, per la proposizione del ricorso al Consiglio Nazionale Forense, debba partire dalla notificazione della deliberazione del Consiglio dell'Ordine, non si presta ad alcuna possibilità esegetica diversa da quella che tale decorso debba valere in egual modo sia per l'interessato parte privata che per il Procuratore Generale presso la Corte di Appello. Invero, alla notificazione per la parte pubblica, la normativa si riferisce una sola volta e lo fa con riguardo al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale. Quest'ultimo esprime un parere motivato e la stessa previsione che prevede che debba farlo entro 10 giorni dalla notifica appare funzionale all'osservanza da parte del Procuratore Generale del termine dalla notificazione. Infondata viene dichiarata anche la questione di costituzionalità adombrata dal ‘ricorrente pubblico’ della disciplina così interpretata. Infatti, la circostanza che il Pubblico Ministero debba dare un parere entro 10 giorni dalla notifica evidenzia che, nella materia, sia l'attività che la funzione esercitate sono riferibili, in realtà, all'Ufficio del pm presso la Corte di Appello. Nel senso che le attività di ricezione della notifica e quella di istruzione, funzionale al parere, sono compiti che il pm presso il Tribunale esercita come organo dell'Ufficio del p.m. presso la Corte di Appello. Il termine di 20 giorni per l'impugnazione, quindi, risulta paritariamente assegnato dal legislatore alla parte privata ed alla parte pubblica con la sola differenza, derivante dalla struttura della seconda, che per Essa questo termine è divisa a metà tra il Procuratore della Repubblica, destinatario della notifica del provvedimento impugnabile, ed il Procuratore Generale cui spetta la decisione ultima in ordine alla impugnazione. La circostanza che quest'ultimo possa eventualmente venire a conoscenza del provvedimento solo 10 giorni prima della scadenza del termine utile per proporre l'impugnazione è bilanciata dal fatto che il Procuratore Generale, nel decidere in ordine alla impugnazione stessa, si avvale del parere motivato che nei 10 giorni precedenti ha già elaborato il Procuratore della Repubblica. Dunque, tra la parte privata e quella pubblica non è dato ravvisare alcuna reale significativa sperequazione il che rende privo del requisito della non manifesta infondatezza il dubbio di costituzionalità avanzato dal ricorrente.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 21 giugno – 3 ottobre 2016, n. 19675 Presidente Rordorf – Relatore Frasca Svolgimento del processo p.1. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia ha proposto ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza n. 190 del 15 dicembre del 2015, con la quale il Consiglio Nazionale Forense ha dichiarato inammissibile il ricorso da esso ricorrente proposto avverso la deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Treviso, che aveva accolto la domanda di dispensa dalla prova attitudinale ai sensi del’art. 13 del d.lgs. n. 96 del 2001, presentata dall’Abogado M.C. , e rigettato sia il ricorso incidentale di costui, sia quello da lui proposto autonomamente in via principale, dopo averli previamente riuniti. p.2. Il ricorso è rivolto contro la decisione di inammissibilità del ricorso della Procura qui ricorrente ed è stato proposto senza una precisa indicazione delle parti contro cui è diretto, ma con notificazione al M. , al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Treviso, al Ministero della Giustizia ed allo stesso Consiglio Nazionale Forense. p.3. Ha resistito con controricorso il M. . p.4. Il resistente ha depositato memoria a mezzo posta. Motivi della decisione p.1. In via preliminare deve ritenersi irrituale la memoria del resistente, in quanto depositata a mezzo posta ciò, giusta il consolidato principio di diritto secondo cui L’art. 134, comma 5, disp. att. c.p.c., a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito della memoria, poiché quest’ultimo è diretto esclusivamente ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo - rispetto alla udienza di discussione - ritenuto necessario dal legislatore e che l’applicazione del citato art. 134 finirebbe con il ridurre, se non con l’annullare, con lesione del diritto di difesa delle controparti . da ultimo, Cass. ord. n. 7704 del 2016 . p.2. Sempre in via preliminare occorre rilevare che parte ricorrente non ha depositato una copia autentica del provvedimento impugnata, bensì la copia notificatagli. Si rileva ancora che tale copia non è integrale, in quanto consta delle pagine fino a quella in cui è enunciata la motivazione di inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale ricorrente e della sola pagina finale recante il dispositivo, di modo che risulta mancante delle pagine intermedie. p.2.1. Occorre considerare se questa modalità di deposito sia rituale ed occorre farlo interrogandosi in primo luogo sul se ed in che limiti al ricorso nella presente materia trovi applicazione la norma che in generale regola il ricorso per cassazione, cioè l’art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c Questa norma, infatti, prescrive la necessità del deposito della copia autentica della sentenza impugnata, con la relata della sua notificazione, che è eventuale, essendo rimessa all’iniziativa della parte, salve le eccezioni di cui ai articoli precedenti. p.2.2. L’art. 66 del r.d. n. 37 del 1934, recante le norme integrative e di attuazione del R. decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, sull’ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore , contiene una norma che regola anch’essa il deposito del ricorso alle Sezioni Unite. Essa recita quanto segue I1 ricorso alle Sezioni Unite della Corte di cassazione deve essere notificato, per mezzo di ufficiale giudiziario, a cura del ricorrente, alle altre parti interessate nel termine stabilito per ricorrere dall’art. 56 del r. decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578. Nei quindici giorni successivi alla notificazione il ricorso deve essere presentato nella cancelleria della corte assieme all’ano originale di notificazione ed alla copia della decisione impugnata, che è stata notificata al ricorrente. Il ricorso è sottoscritto dal ricorrente o da un suo procuratore munito di mandato speciale, e deve contenere l’esposizione dei fatti e dei motivi sui quali si fonda, nonché la elezione di domicilio in Roma, con l’indicazione della persona o dell’ufficio presso cui la elezione è fatta. Le altre parti interessate possono fare pervenire le loro deduzioni entro il termine di venti giorni successivi alle notificazioni di cui al comma primo del presente articolo . La norma, nel secondo comma, disciplina espressamente la formalità del deposito del ricorso e prescrive il deposito con esso della copia della decisione impugnata, che è stata notificata al ricorrente . Questa copia è quella che l’art. 56, primo comma, del r.d.l. n. 1578 del 1933 prevede debba notificarsi all’interessato ed al Pubblico Ministero presso la corte d’appello e presso il tribunale alla cui circoscrizione l’interessato appartiene. L’onere della notifica è evidentemente riferito al Consiglio Nazionale Forense. La copia della sentenza notificata dal Consiglio Nazionale Forense non è di per sé una copia autentica, in quanto non è richiesto che in funzione dell’attivazione del procedimento notificatorio, nell’estrarla per avviare detto procedimento, si attesti la sua autenticità. Giusta queste emergenze del disposto normativo di cui alla normativa professionale si potrebbe supporre in prima battuta che, ai fini del deposito del ricorso nella materia disciplinare, non sia necessario il deposito di una copia autentica della sentenza impugnata in aggiunta a quello della copia notificata. p.2.3. Senonché, occorre tenere presente che, all’atto dell’entrata in vigore della disciplina di cui al r.d. n. 37 del 1934 il codice di procedura allora vigente, quello del 1865 r.d. n. 2366 del 1865 , all’art. 523, secondo comma, prevedeva che al ricorso per cassazione dovesse essere, fra l’altro, annessa la copia della sentenza impugnata, autenticata dal cancelliere . Ne segue che non si poteva ritenere che la norma del r.d. n. 37 del 1934, per il suo valore regolamentare, avesse derogato a quella legislativa del codice di procedura civile e, pertanto, si doveva supporre che il ricorrente in sede disciplinare avesse due oneri, quello previsto dall’art. 66, relativo al deposito della copia notificata, e comunque quello previsto dal citato art. 523, secondo comma, c.p.c Sopravvenuto il codice di procedura civile del 1940 e la vigenza dell’attuale art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. si doveva e si deve ritenere valida la stessa soluzione, atteso che la norma del codice vigente ha sostanzialmente riprodotto in parte qua il contenuto della previsione della norma del codice del 1865. Si spiega perciò la ragione del risalente principio di diritto secondo cui al ricorso per cassazione avverso la decisione emessa in materia disciplinare dal consiglio nazionale forense è applicabile la sanzione di improcedibilità qualora non risulti depositata copia autentica della decisione impugnata, derivando tale onere, per la parte ricorrente, non soltanto dallo art. 369, comma secondo, n. 2, cod. proc. civ., ma anche dalla norma speciale di cui all’art. 66, comma secondo, del decreto n. 37 del 1934, la quale prescrive che debba essere presentata nella cancelleria della Corte di Cassazione precisamente quella copia della decisione impugnata che è stata notificata al ricorrente ciò all’evidente scopo di rendere possibile il controllo sulla tempestività del ricorso Cass. sez. un. n. 767 del 1973 . Poiché nel caso di specie non consta essere stata depositata la copia autentica della decisione impugnata siccome prescritto dall’art. 369, secondo comma, n. 2 c.p.c., il ricorso dovrebbe essere dichiarato improcedibile. p.2.4. Occorre, tuttavia, considerare che la copia notificata della decisione impugnata, che è stata depositata dal ricorrente, reca l’attestazione di conformità all’originale da parte della consigliere segretaria del Consiglio Nazionale Forense, svolgente funzioni equivalenti a quelle del cancelliere. In tale situazione la copia depositata può ritenersi copia autentica, in quanto è quella copia attestata come autentica e consegnata all’ufficiale giudiziario per la notificazione e da costui notificata al ricorrente in termini da ultimo Cass. n. 10008 del 2011 in precedenza Cass. n. 1914 del 2009 . Il problema della procedibilità, sotto tale profilo, si deve, dunque, ritenere superato. p.3. Resta a questo punto quello della incompletezza. Infatti, è palese che la prescrizione del deposito della copia autentica della decisione impugnata concerne la sentenza nella sua interezza e non può formalmente ritenersi adempiuta quando viene depositata una copia non completa. Tuttavia, al deposito di una copia incompleta della sentenza impugnata non sempre deve conseguire indefettibilmente l’improcedibilità del ricorso per cassazione. Anch’esso appare superabile, in quanto la decisione impugnata ha riguardato un ricorso principale proposto dal Pubblico Ministero qui ricorrente e due ricorsi della parte privata, l’uno formalmente incidentale e l’altro oggettivamente incidentale, in quanto proposto successivamente a quello principale. Poiché la copia prodotta reca la motivazione relativa alla decisione sul ricorso principale e l’impugnazione di cui le Sezioni Unite sono investite concerne solo tale decisione, l’applicazione del principio della idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo, di cui al terzo comma dell’art. 156 c.p.c. consente di ritenere che l’incompletezza della copia della sentenza sia irrilevante ai fini dello scrutinio del ricorso. Infatti, allorquando in relazione ad un atto è previsto un adempimento formale a pena di improcedibilità è consentito applicare il principio, proprio del sistema delle nullità, della idoneità dell’atto, carente del requisito formale, al raggiungimento dello scopo suo proprio nonostante la carenza formale, purché detta idoneità emerga sempre all’interno dell’atto di cui trattasi e, dunque, senza dover ricorrere ad atti o comportamenti aliunde, ed inoltre e soprattutto purché risulti rispettato il limite temporale entro il quale l’adempimento doveva effettuarsi a pena di improcedibilità. Nella specie queste condizioni risultano rispettate, giacché l’impugnazione può essere scrutinata sulla base della pur incompleta copia prodotta, atteso che l’oggetto cui essa si riferisce risulta tutto dalla parte di sentenza risultante dalla copia prodotta. p.3.1. L’impugnazione può, dunque, ritenersi procedibile. p.4. Il ricorso è, tuttavia, privo di fondamento. p.4.1. Il Consiglio Nazionale Forense ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale presso la Corte di Appello di Venezia ritenendo che la sua proposizione era avvenuta oltre il termine di quindici giorni dalla notificazione della decisione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Treviso al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Treviso, a nulla rilevando ai fini dell’osservanza del termine il momento in cui quest’ultimo aveva inviato la deliberazione del detto consiglio al Procuratore Generale. p.4.2. La prospettazione del ricorrente è in prima battuta che la sentenza impugnata abbia errato, in quanto il termine per la proposizione del ricorso da parte del Procuratore Generale presso la Corte d’appello si dovrebbe ritenere decorrere dal momento della trasmissione ad esso della documentazione da parte del procuratore preso il tribunale. In seconda battuta, si prospetta, poi, che ove non si accogliesse tale interpretazione e si seguisse l’esegesi del Consiglio Nazionale Forense nel senso della decorrenza dalla notificazione, si configurerebbe una questione di costituzionalità dell’art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 96 del 2001, laddove, in violazione dei principi di parità di trattamento , nonché di uguaglianza , anche processuale, di cui agli artt. 3, 24 e 111 della Carta Costituzionale, alle parti, ai fini della propria difesa, non vengono riconosciuti termini perequati a garanzia della corretta formazione del contraddittorio . p.43. Entrambe le gradate prospettazioni non sono condivisibili. Quanto alla prima, mette conto di rilevare che l’art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 96 del 2001, sotto la rubrica Procedimento per la dispensa , si presenta del seguente tenore 4. La deliberazione in merito alla dispensa è assunta dal Consiglio dell’ordine nel termine di tre mesi dalla data di presentazione della domanda o dalla scadenza del termine per la sua integrazione. La deliberazione è motivata e notificata entro quindici giorni all’interessato e al Procuratore della Repubblica, al quale sono altresì trasmessi i documenti giustificativi. Nei dieci giorni successivi il Procuratore della Repubblica riferisce con parere motivato al Procuratore generale presso la Corte di appello. Quest’ultimo e l’interessato possono presentare, entro venti giorni dalla notificazione, ricorso al Consiglio nazionale forense. Il ricorso del pubblico ministero ha effetto sospensivo. La deliberazione è altresì comunicata al Ministero della giustizia per l’esercizio delle funzioni di vigilanza . La previsione normativa, là dove riferisce il decorso del termine per la proposizione del ricorso al Consiglio Nazionale Forense, alla notificazione della deliberazione del Consiglio dell’ordine non si presta ad alcuna possibilità esegetica diversa da quella che tale decorso debba valere sia per l’interessato che per il Procuratore generale presso la corte d’appello. Invero, alla notificazione per la parte pubblica, la norma si riferisce una sola vola e lo fa con riguardo al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale. Quest’ultimo esprime un parere motivato e la stessa previsione che debba farlo entro dieci giorni dalla notificazione appare funzionale all’osservanza da parte del Procuratore generale del termine dalla notificazione. p.4.4. La questione di costituzionalità adombrata dal ricorrente della disciplina così interpretata non si palesa in alcun modo assistita dal requisito della non manifesta infondatezza con riferimento ai parametri evocati dal ricorrente. Queste le ragioni. p.4.5. La circostanza che la notificazione della decisione del consiglio sia fatta al procuratore della Repubblica presso il tribunale e non al Procuratore della Repubblica presso la Corte d’Appello, cui è affidato il potere di impugnare presso il Consiglio Nazionale Forense, ai fini dell’apprezzamento sul se la posizione del pubblico ministero sia eguale a quella dell’interessato in punto di effettiva fruizione del termine di veni giorni per l’esercizio del diritto di impugnazione, dev’essere valutata considerando la natura del rapporto fra i due organi del pubblico ministero presso i due uffici. E ciò, sia per come è disegnata in generale dall’Ordinamento Giudiziario, in seno al quale viene in rilievo la norma dell’art. 70, comma terzo, sia per come lo è proprio all’interno dell’art. 13, comma 4 della L. n. 96 del 2001. Il fatto che il pubblico ministero debba dare un parere e debba farlo entro dieci giorni dalla notificazione evidenzia che nella materia sia l’attività sia la funzione esercitata sono riferibili in realtà all’ufficio del pubblico ministero presso la corte d’appello, nel senso che l’attività di ricezione della notifica e quella di istruzione funzionale al parere sono compiti che il pubblico ministero presso il tribunale esercita come organo dell’ufficio del pubblico ministero presso la corte d’appello. Il termine di venti giorni per l’impugnazione risulta allora paritariamente assegnato dal legislatore alla parte privata ed alla parte pubblica, con la sola differenza, derivante dalla struttura della seconda, che, per essa, detto termine è diviso a metà tra il Procuratore della repubblica, destinatario della notifica del provvedimento impugnabile, ed il Procuratore generale, cui spetta la decisione ultima in ordine all’impugnazione. La circostanza che quest’ultimo possa eventualmente venire a conoscenza del provvedimento solo dieci giorni prima della scadenza del termine utile per proporre l’impugnazione a parte la possibilità di predisporre utili sistemi d’informazione più tempestiva, nel rapporto tra pubblici ministeri di primo e secondo grado , è dunque bilanciata dal fatto che il Procuratore generale, nel decidere in ordine all’impugnazione, si avvale del parere motivato che, nei dieci giorni precedenti o in un eventuale più breve lasso di tempo , il Procuratore della repubblica ha già elaborato. Tra la posizione della parte privata e quella della parte pubblica unitariamente considerata nella sua articolazione tra pubblico ministero di primo e secondo grado non è dato quindi ravvisare alcuna reale e significativa sperequazione il che rende privo del requisito della non manifesta infondatezza il dubbio di costituzionalità avanzato dal ricorrente. p.3. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato. Parte resistente ha chiesto, reiterandola nella memoria, la condanna alle spese, ma la richiesta è priva di fondamento, atteso che L’ufficio del P.M. non può essere condannato al pagamento delle spese del giudizio nell’ipotesi di soccombenza, trattandosi di organo propulsore dell’attività giurisdizionale cui sono attribuiti poteri, diversi da quelli svolti dalle parti, meramente processuali ed esercitati per dovere d’ufficio e nell’interesse pubblico . in termini, da ultimo, Cass. n. 19711 del 2015 si veda già Cass. sez. un. n. 2123 del 1965 e n. 11191 del 2003, a proposito quest’ultima dell’ufficio del pubblico ministero presso la Corte dei Conti . Il giudizio è esente dall’onere del contributo e, pertanto non è applicabile l’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.