Fallimento: il compenso dei difensori può determinarsi con il criterio del valore effettivo della controversia

La Cassazione, richiamando alcuni precedenti, ribadisce la possibilità per il Giudice di determinare i compensi dei difensori fallimentari con il c.d. criterio del valore effettivo della controversia, qualora si ravvisasse una manifesta sproporzione tra petitum e il valore della lite.

Così ha affermato la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso, con la sentenza n. 13173/2016, depositata il 24 giugno. Il caso. Il Tribunale di Messina accoglieva parzialmente il reclamo proposto da una società fallita avverso il provvedimento con cui il giudice delegato liquidava ai difensori della procedura i compensi relativi ai giudizi nei quali avevano assistito il fallimento. Il Tribunale procedeva dunque a rideterminare i compensi stessi alla luce di una diversa determinazione del valore della controversia. Contro il decreto proponevano gli avvocati distinti ricorsi – poi riuniti - in Cassazione. Legitimatio ad processum del legale rappresentante. Con il primo motivo di doglianza, innanzitutto, si denuncia la violazione dell’ art. 112 c.p.c. e il vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5 , c.p.c. sotto il profilo del mancato esame dell’eccezione di difetto di legittimazione processuale del legale rappresentante della fallita a proporre reclamo ex art. 26 l.fall. . Tale primo motivo viene ritenuto inammissibile dalla Suprema Corte, in quanto trattasi di censure nuove, formulate per la prima volta in sede di legittimità. Il ricorrente, infatti, nonostante affermi di aver eccepito tale difetto di legitimatio ad processum innanzi al Tribunale, in realtà non lo eccepì, ma contestò – infondatamente - solo che l’amministratore di una società fallita, in pendenza della procedura fallimentare, potesse proporre una qualsiasi azione giudiziale in luogo del curatore fallimentare. Peraltro la Corte non ritiene nemmeno dubitabile la legittimazione della società fallita ad impugnare i decreti di liquidazione del Giudice delegato, con il reclamo ex art. 26 l.fall Anzi, un orientamento consolidato della S.C. – formulato prima della riforma della legge fallimentare del 2006 - riteneva che il c.d. procedimento di verifica ex artt. 92 e ss. l.fall. dovesse essere applicato anche al debito c.d. di massa” che fosse controverso per non essere stato contratto direttamente dagli organi del fallimento. Tale procedimento si concludeva con un provvedimento sempre impugnabile dai creditori e dal curatore, ma mai dal fallito. Quest’ultimo poteva invece proporre reclamo avverso tutti i decreti resi dal giudice delegato salvo disposizione contraria art. 26, comma 1, l.fall. e nella legge fallimentare non vi era una norma che sottraesse al fallito tale legittimazione. A conferma di ciò, l’ art. 111- bis , comma 1, l.fall. novellato in detta riforma del 2006, prevede, per il caso di contestazione, che la liquidazione degli importi spettanti agli incaricati del curatore avvenga con il procedimento di cui all’art. 26 , ossia tramite reclamo al collegio, cui ancora oggi sono legittimati, oltre che al curatore e al professionista cui si riferisce la liquidazione, il fallito e qualunque altro interessato. Ultrapetizione? I ricorrenti inoltre denunciano violazione dell’art. 112 c.p. per ultrapetizione – avendo la fallita impugnato solo due delle cinque liquidazioni contenute nel decreto del Giudice delegato - e avendo il Tribunale rideterminato i compensi relativi ad un’attività professionale che non era stata oggetto di impugnazione e vizio di motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. in relazione all’esatta individuazione delle questioni oggetto del reclamo della fallita e per l’insanabile contrasto tra le attività professionali esaminate nella motivazione e quelle poi liquidate nel dispositivo. Tutti motivi ritenuti infondati dai Giudici. Infatti, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, il Tribunale di Messina, nel provvedimento emesso, ha sottoposto a riesame solo due delle plurime liquidazioni rese dal Giudice delegato, restando dunque escluse sia la denunciata ultrapetizione, che la contestata omessa pronuncia sulle questioni devolute. Il criterio del valore effettivo della controversia. Infine, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 10 e 14 c.p.c. , dell’art. 1 l. n. 1051/57, dell’ art. 6 d.m. n. 585/94 e dell’ art. 6 d.m. n. 127/04 poiché ritengono errata l’applicazione del criterio del valore effettivo della controversia da parte del Tribunale, nonostante il valore delle cause fosse stato in concreto dichiarato e non presunto, e per avere il Tribunale erroneamente ritenuto le cause patrocinate di valore indeterminabile. Tali motivi vengono ritenuti infondati. Infatti, il giudice del reclamo nel rideterminare gli importi liquidati in favore dei suddetti professionisti, ha palesemente voluto applicare l’art. 6, comma 2, d.m. n. 127/04 secondo cui Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile . E la S.C. ribadisce quanto già affermato in precedenza – con la sentenza n. 13229/2010 -, ossia che, in forza dell’art. 6 cit., in sede di liquidazione degli onorari professionali a carico del cliente, qualora si ravvisi una manifesta sproporzione tra il petitum e l’effettivo valore della controversia, è lasciato al Giudice un potere discrezionale di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, verificando l’attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare in relazione alle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda possa essere un parametro di riferimento idoneo ovvero si riveli del tutto inadeguato rispetto all’effettivo valore della causa. Dunque, correttamente, il Tribunale ha ritenuto che, nei vari giudizi, il petitum indicato dai difensori fosse manifestamente sproporzionato rispetto al valore effettivo delle controversie sottoposte al vaglio del Giudice. Accertata tale sproporzione, ha ritenuto infine che si trattasse di cause tutte rientranti nello scaglione previsto dall’abrogata tariffa per le liti di valore di particolare importanza e indeterminabile , procedendo dunque alle riliquidazioni dei compensi spettanti ai professionisti.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 31 maggio – 24 giugno 2016, n. 13173 Presidente Nappi - Relatore Didone Svolgimento del processo Con il provvedimento impugnato il Tribunale di Messina ha parzialmente accolto il reclamo proposto dalla fallita CMS s.p.a., con l’intervento adesivo del creditore CECOM s.r.l., contro il provvedimento con il quale il giudice delegato aveva liquidato a V.A. e a G.A. - già difensori della procedura - i compensi relativi ai giudizi nei quali avevano assistito il fallimento. Il tribunale, disattesa l’eccezione di difetto di legittimazione della società fallita argomentando che era prossima la chiusura del fallimento per rinunzia dei creditori e che la fallita aveva interesse alla rideterminazione dei compensi che sarebbero rimasti a suo carico, ha provveduto a rideterminare i compensi stessi alla luce di diversa determinazione del valore della controversia. Contro il decreto, con distinti ricorsi poi riuniti, il V. e il G. hanno proposto ricorso per cassazione affidato, rispettivamente, a undici e a quattro motivi. Resiste con distinti controricorsi la CMS s.p.a Motivi della decisione 1. - Trattandosi di ricorsi riuniti proposti avverso il medesimo provvedimento, occorre procedere al loro esame congiunto, iniziando da quelli formulati dal V. . Con il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo del mancato esame dell’eccezione di difetto di legittimazione processuale del legale rappresentante della società fallita a proporre reclamo ex art. 26 l.fall Con il secondo motivo assume vizio di motivazione, ex art. 360, gomma primo, n. 5 , c.p.c., sempre in riferimento alla esposta eccezione di difetto di legittimazione processuale. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione, avendo la società fallita impugnato soltanto due delle cinque liquidazioni contenute nel decreto del giudice delegato. Con il quarto motivo assume vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., in relazione all’esatta individuazione delle questioni oggetto del reclamo della fallita. Con il quinto motivo rileva ulteriore vizio di motivazione, ex art. 360, gomma primo, n. 5 , c.p.c., stante l’insanabile contrasto tra le attività professionali prese in esame nel corpo della motivazione del decreto impugnato e quelle poi liquidate in seno al dispositivo. Con il sesto motivo torna a sostenere la violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il tribunale rideterminato i compensi spettanti in relazione ad una attività professionale che non era stata oggetto di impugnazione. Con il settimo motivo assume la violazione degli artt. 10 e 14 c.p.c., dell’art. 1 legge n. 1051 del 1957, dell’art. 6 d.m. n. 585 del 1994 e dell’art. 6 del d.m. n. 127 del 2004, avendo il tribunale applicato il criterio del valore effettivo della controversia, nonostante il valore delle cause fosse stato in concreto dichiarato e non presunto. Con l’ottavo motivo censura la falsa applicazione dell’art. 1 legge n. 1051 del 1957, dell’art. 6 d.m. n. 585 del 1994 e dell’art. 6 d.m. n. 127 del 2004, nonché il vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., non potendosi invocare il criterio del valore effettivo della controversia nelle cause di valore indeterminato. Con il nono motivo lamenta ancora la falsa applicazione dell’art. 1 legge n. 1051 del 1957 e dell’art. 6, commi 1, 2 e 4, del d.m. n. 585 del 1994 e dell’art. 6 d.m. n. 127 del 2004, nonché il vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., avendo il collegio erroneamente ritenuto di valore indeterminabile cause riferite a diritti suscettibili di esatta valutazione economica. Con il decimo motivo torna a censurare la falsa applicazione dell’art. 1 legge n. 1051 del 1957, dell’art. 6 d.m. n. 585 del 1994 e dell’art. 6 d.m. n. 127 del 2004, nonché il vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., avendo omesso il tribunale di tenere conto del valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti. Con l’undicesimo motivo reitera la doglianza di falsa applicazione dell’art. 1 legge n. 1051 del 1957, dell’art. 6 d.m. n. 585 del 1994 e dell’art. 6 d.m. n. 127 del 2004, nonché del vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., poiché il tribunale ha ridotto i compensi liquidati ai difensori della curatela, argomentando unicamente sul valore della prestazione resa da esso ricorrente. 2. - Quanto al ricorso proposto dal G. . Con il primo motivo assume la violazione degli artt. 10, comma primo, e 14 c.p.c., e dell’art. 6, comma 2, d.m. n. 127 del 2004, avendo il tribunale applicato il criterio del valore effettivo della controversia, nonostante il valore delle cause fosse stato in concreto dichiarato e non presunto. Con il secondo motivo denuncia la falsa applicazione dell’art. 14 c.p.c. e dell’art. 6, commi 2 e 5, d.m. n. 127 del 2004, nonché vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 51, c.p.c., avendo il tribunale erroneamente ritenuto le cause patrocinate di valore indeterminabile. Con il terzo motivo rileva vizio di motivazione, ex art. 360, comma primo, n. 5 , c.p.c., in quanto il valore delle cause patrocinate da esso ricorrente era suscettibile di esatta determinazione. Con il quarto motivo assume la violazione dell’art. 6, commi l e 2, d.m. n. 127 del 2004, avendo fatto il collegio erronea applicazione del principio di adeguatezza e proporzionalità degli onorario di avvocato alla effettiva portata della controversia. 3. - Il primo e secondo motivo del ricorso del V. , sostanzialmente sovrapponibili, sono inammissibili, trattandosi di censure nuove, formulate per la prima volta in sede di legittimità. Il ricorrente afferma di avere eccepito innanzi al tribunale il difetto di legitimatio ad processum di C.F. , legale rappresentante della CMS s.p.a., senza che il collegio avesse poi pronunciato alcunché sulla detta eccezione. In realtà, dalla lettura degli atti, consentita a questa Corte trattandosi di un vizio processuale, emerge che nella sua comparsa di risposta pag. 2 , il V. si limitò a rilevare che l’indicazione del C. quale legale rappresentante della fallita Cm5 s.p.a. , contenuta in seno al reclamo proposto innanzi al collegio, è certamente infondata in diritto non può esservi dubbio, allo stato, che l’unico legale rappresentante della società è il Curatore fallimentare . Dunque, innanzi al primo giudice, il V. non eccepì affatto il difetto di legittimazione processuale del C. , ma intese solo contestare - del tutto infondatamente, atteso che il fallimento di una società non determina certo la cessazione dei suoi organi sociali Cass. 30 settembre 2009, n. 20947 - che l’amministratore di una società fallita, in pendenza della procedura fallimentare, potesse proporre una qualsivoglia azione giudiziale, in luogo del curatore fallimentare. Va soggiunto che neppure potrebbe dubitarsi della legittimazione della società fallita ad impugnare i decreti di liquidazione resi dal giudice delegato, ai sensi dell’art. 25, n. 7 , l.fall., attraverso il reclamo ex art. 26 l.fall Al riguardo è opportuno premettere che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, espresso prima della riforma della legge fallimentare introdotta dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, anche il debito cosiddetto di massa che fosse controverso per non essere stato contratto direttamente dagli organi del fallimento doveva essere verificato attraverso il procedimento previsto dagli artt. 92 e segg. l.fall., inteso come l’unico idoneo ad assicurare il principio della concorsualità anche nella fase della cognizione, implicando esso la necessaria partecipazione ed il contraddittorio di tutti i creditori. Tale principio non valeva, invece, nel caso dei compensi spettanti, sempre in prededuzione ovviamente, ai soggetti incaricati direttamente dalla procedura fallimentare, poiché qui la competenza alla liquidazione era posta dal legislatore direttamente in capo al giudice delegato ai sensi del ricordato art. 25, n. 7 , l.fall. Cass. 13 luglio 2007, n. 15671 . Ora, mentre il procedimento di verifica regolato nel capo V della legge fallimentare, anche in relazione a crediti prededucibili, si concludeva con un provvedimento sempre impugnabile dai creditori e - oggi - anche dal curatore, ma giammai dal fallito, quest’ultimo invece poteva proporre reclamo avverso tutti i decreti resi dal giudice delegato salvo disposizione contraria art. 26, primo comma, 1.fall. e nella legge fallimentare non era dato rinvenire alcuna norma che, in relazione ai soli decreti di liquidazione emessi dal giudice delegato ex art. 25, n. 7 , l.fall., sottraesse al fallito una siffatta legittimazione. Del resto, l’art. 111-bis, comma primo, l.fall., introdotto dalla ricordata novella del d.lgs. n. 5 del 2006 – norma inapplicabile ratione temporis nella vicenda sottoposta all’esame della Corte -, mentre conferma la necessità di ricorrere al procedimento di verifica dei crediti per quelli prededucibili che risultino comunque contestati, in relazione ai compensi spettanti agli incaricati del curatore, prevede oggi espressamente, per il caso di contestazione, che la liquidazione degli importi spettanti ai detti incaricati avvenga con il procedimento di cui all’art. 26 , cioè tramite reclamo al collegio, cui ancora oggi sono legittimati, oltre naturalmente al curatore e al professionista cui si riferisce la liquidazione, il fallito e qualunque altro interessato. 4. - Il terzo, quarto, quinto e sesto motivo del ricorso del V. , da esaminare congiuntamente stante la loro intima connessione, sono tutti infondati. A differenza di quanto denunciato dal ricorrente nei motivi in esame, il provvedimento reso in sede di reclamo dal Tribunale di Messina ha sottoposto a riesame esclusivamente due fra le plurime liquidazioni rese dal giudice delegato in favore del V. , l’una riferita ad un giudizio celebrato innanzi al Tribunale di Messina e l’altra concernente una lite innanzi alla locale corte d’appello, restando pertanto parimenti escluse, da un lato, la denunciata ultrapetizione e, dall’altro, la contestata omessa pronuncia sulle questioni devolute. 5. - Il settimo, ottavo, nono, decimo e undicesimo motivo del ricorso V. , nonché il primo, secondo e terzo motivo del ricorso del G. , intimamente connessi e concernenti in definitiva le medesime questioni, possono essere esaminati congiuntamente e sono tutti infondati. Il giudice del reclamo nel rideterminare gli importi liquidati in favore dei suddetti professionisti, ha chiaramente ritenuto di applicare l’art. 6, comma 2, del d.m. n. 127 del 2004 - all’epoca vigente -, a tenore del quale Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello, presunto a norma del codice di procedura civile . E questa Corte ha già precisato che, in forza della richiamata disposizione, in sede di liquidazione degli onorari professionali a carico del cliente, al giudice, qualora venga ravvisata una manifesta sproporzione tra il petitum della domanda e l’effettivo valore della controversia, è riservato un generale potere discrezionale di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, verificando in concreto l’attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare in relazione alle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se, al fine di determinare le competenze dovute al legale, l’importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo, ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all’effettivo valore della causa Cass. 31 maggio 2010, n. 13229 . Va soggiunto che nel richiamo al valore presunto a norma del codice di procedura civile , il cennato art. 6, comma 2, dell’abrogata tariffa, ha semplicemente inteso riferirsi a tutte le regole dettate dal codice di rito, ivi compresa quella fissata dal combinato disposto degli arti. 10 e 14 c.p.c. - correlata all’indicazione del quantum nella domanda nelle cause relative a somme di danaro o beni mobili -, per la determinazione del valore della controversia, attribuendo al giudice una generale facoltà discrezionale ove ravvisi la suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e l’effettivo valore della controversia , di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia Cass. 8 febbraio 2012, n. 1005 . Dunque, correttamente il tribunale, con motivazione sufficientemente argomentata che non si presta a censure di sorta, ha ritenuto che nei vari giudizi patrocinati dagli avv.ti V. e G. il petitum indicato dai difensori nei rispettivi scritti difensivi, fosse manifestamente sproporzionato rispetto al valore effettivo delle controversie sottoposte al vaglio del giudice. Una volta accertata siffatta sproporzione, dovendo determinare quale fosse il vero valore delle liti patrocinate dai difensori della procedura, con apprezzamento in fatto adeguatamente motivato e, come tale, non suscettibile di riesame in questa sede, ha ritenuto che si trattasse di cause tutte rientranti nello scaglione previsto dall’abrogata tariffa per le liti di valore di particolare importanza e indeterminabile , procedendo alle conseguenti riliquidazioni dei compensi spettanti ai professionisti. 6. - Il quarto motivo del ricorso del G. è inammissibile. Come visto in precedenza, il collegio ha rideterminato i compensi spettanti al difensore della curatela facendo applicazione dell’art. 6, comma 2, d.m. n. 127 del 2004, oggi abrogato il rigetto di tutte le censure riferite a siffatto criterio di liquidazione, rende quindi inammissibile ogni doglianza riferita all’altra ratio decidendi del provvedimento impugnato, fondata sul principio - di matrice giurisprudenziale - di adeguatezza e proporzionalità degli onorari all’attività professionale svolta. 7. - Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte respinge i ricorsi riuniti. Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalla resistente, liquidate in Euro 1.800,00, in essi compresi Euro 1.600,00 per onorari di avvocato, oltre accessori di legge.