Causa completamente infondata? Responsabile l’avvocato che non dissuade il cliente

Per andare esente da responsabilità professionale l’avvocato che promuove una causa completamente infondata deve provare di aver adempiuto il proprio dovere di dissuasione a fronte di una irremovibile iniziativa del cliente e non già dimostrare la semplice esistenza di un consenso consapevole da parte della propria assistita.

La Sesta sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 9695 deposita in cancelleria il 12 maggio 2016 si è occupata di responsabilità professionale dell’avvocato nella peculiare ipotesi in cui il difensore abbia patrocinato una causa totalmente priva di giuridico fondamento. Il fatto. Una cliente chiedeva al Tribunale la risoluzione del contratto di prestazione professionale intercorso con l’avvocato per inadempimento, con contestuale domanda di restituzione del compenso corrisposto. In primo grado la domanda veniva accolta. Il giudice di prime cure riconosceva l’infondatezza della causa promossa dal difensore nell’interesse dell’attrice riteneva inoltre inattendibile la versione dei fatti fornita dall’avvocato, in ordine alla consapevolezza della cliente sull’infondatezza della domanda e la sua sollecitudine nel promuovere il giudizio per ottenere la conclusione di una transazione con la controparte. Al contempo il Tribunale negava che l’espressione di non avere più nulla a pretendere, sottoscritta dalla cliente, potesse avere un valore transattivo, quale rinuncia all’azione di responsabilità professionale per inadempimento del legale. L’appello promosso dal professionista veniva rigettato. Era così presentato ricorso per cassazione affidato a tre motivi. In primo luogo il ricorrente si doleva della mancata ammissione delle prove testimoniali che, a suo dire, avrebbero dovuto provare la consapevole volontà della cliente di promuove una causa infondata, al sol fine, come anticipato, di sollecitare una transazione con la controparte. L’ulteriore motivo di ricorso che in questa sede preme analizzare è quello relativo all’interpretazione dell’espressione non avere più nulla a pretendere tale formula, secondo la ricostruzione offerta dal professionista, avrebbe dovuto proprio esplicitare la volontà della parte di ritenere cessato il contratto professionale senza ulteriori richieste da parte del cliente. La mancata prova sull’obbligo dell’avvocato di dissuadere il cliente dall’intraprendere delle azioni giudiziarie infondate. Gli Ermellini evidenziavano l’acquiescenza del ricorrente avverso il capo di sentenza in cui era individuato l’obbligo del professionista di non consigliare azioni inutilmente gravose nonché di quello in cui si affermava il mancato raggiungimento della prova di aver dissuaso la cliente dall’intraprendere un’iniziativa giudiziaria infondata. I riflessi di tale contegno si riverberavano evidentemente sul motivo di ricorso formulato. Ciò in quanto i giudici del merito avevano ritenuto preliminare l’acquisizione della prova di aver sconsigliato alla cliente d’intraprendere un giudizio palesemente infondato sicché, solo dopo tale prova sarebbe stato opportuno acquisire quella relativa all’introduzione della causa stante la ferma volontà della cliente. Nel caso di specie tale peculiare prova è risulta mancare, motivo per cui i Giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione dei colleghi di prime e seconde cure in ordine alla mancata ammissione delle prove testimoniali che, evidentemente, non avrebbero potuto superare la prima carenza probatoria. L’espressione non avere più nulla a pretendere non equivale a rinuncia all’azione di responsabilità professionale. Anche il motivo di ricorso relativo alla interpretazione dell’espressione non avere più nulla a pretendere era rigettato in virtù della genericità della formula utilizzata dal valore tutt’altro che interpretabile in maniera univoca. Il ricorso era così respinto.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile 3, sentenza 14 aprile – 12 maggio 2016, n. 9695 Presidente Armano – Relatore Sestini Svolgimento del processo In parziale accoglimento della domanda della falci, il Tribunale di Roma dichiarò risolto il contratto di prestazione professionale intercorso fra l'attrice e l'avv. G., condannando quest'ultimo alla restituzione del compenso riscosso. La Corte di Appello ha rigettato l'appello del G., che ricorre per cassazione, affidandosi a tre motivi resiste l'intimata a mezzo di controricorso. Motivi della decisione 1 . Premesso che il Tribunale aveva dichiarato l'inadempimento del professionista per avere promosso, nell'interesse della P., una causa totalmente priva di fondamento, la Corte ha rigettato l'appello del G. affermando che -la dichiarazione di non avere nulla da pretendere , resa dalla P. al professionista, era priva di valore negoziale, non potendo valere quale rinunzia ad agire per l'inadempimento del G. o quale transazione sulla relativa controversia -era completamente implausibile” che la causa patrocinata dall'avv. G. fosse stata introdotta su sollecitazione della P. e nella consapevolezza -da parte dell'attrice della sua infondatezza, al solo scopo di fare pressione sulla controparte e pervenire ad una soluzione transattiva -la prova testimoniale, non ammessa dal primo giudice e nuovamente richiesta in appello dal G., era superflua in quanto non farebbe che confermare che l'introduzione della causa persa è stata ideata dal G. -la domanda proposta dal G. era totalmente infondata anche nella parte in cui mirava a far valere la responsabilità del notaio per avere rogato l'arto di compravendita che avrebbe pregiudicato gli interessi della Falci. 2. Col primo motivo dedotto ex art. 360 n. 3 C.P.C., in relazione agli arti, 115, 244, 112 e 116 C.P.C. e 24 Cost. , il ricorrente si duole della mancata ammissione delle prove testimoniali volte a dimostrare che la scelta di promuovere la causa era stata compiuta consapevolmente dalla P. al fine di sollecitare una soluzione transattiva e che tale definizione era mancata per esclusiva volontà della medesima P 3. Col secondo motivo che prospetta la violazione ed errata applicazione degli arti. 2113, 1362, 1334 e 1367 c.c. , viene censurata l'affermazione della totale irrilevanza della dichiarazione di non avere nulla a pretendere , sostenendosi che tale dichiarazione -interpretata alla luce del canone ermeneutico di conservazione del contratto costituiva la chiara manifestazione della volontà di ritenere cessato il rapporto con l'avv. G. senza avere null'altro da pretendere . 4. Col terzo motivo violazione e mancata applicazione degli artt. 1176, 1218, 2043 e 2049 c.c. e dell'art 100 C.P.C. , il ricorrente si duole che la Corre abbia escluso che una parte della domanda proposta nell'interesse della P. ossia quella concernente la responsabilità del notaio rogante e del n'Amato per avere effettuato una vendita inefficace avrebbe avuto concrete possibilità di accoglimento. 5. II ricorso va disatteso. 5.1. Deve preliminarmente rilevarsi che la sentenza non risulta specificamente impugnata nella parte punto 5.2.2 in cui, dopo aver richiamato l'obbligo dell'avvocato di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente sulle caratteristiche della controversia e sulle possibili soluzioni, la Corte ha affermato che, anche a voler ammettere che l'avvocato possa patrocinare una causa persa a fronte di una irremovibile iniziativa del cliente , nel caso specifico era palese, secondo la stessa ricostruzione dell'odierno appellante, che non fu la falci ad insistere, benché dissuasa dal G., per la proposizione della domanda completamente priva di fondamento . Di tale omissione risente la formulazione del primo motivo, che lamenta la mancata ammissione delle prove orali ed evidenzia che le stesse erano volte a dimostrare che la falci aveva prestato un consapevole consenso all'avvio della causa, ma non considera che ben diversa era la prova ritenuta necessaria dalla Corte, giacché l'avvocato avrebbe dovuto dimostrare di avere adempiuto il proprio dovere di dissuasione e che la causa era stata introdotta a seguito della irremovibile iniziativa della falci. Tanto premesso, deve ritenersi -per un verso che la valutazione di superfluità della prova compiuta dalla Corte al punto 5.3 sia del tutto coerente con la considerazioni svolte al precedente punto 5.2.2 e -per altro verso che le censure mosse dal ricorrente siano inconferenti rispetto alla ratio della decisione che -come si è detto è fondata sulla violazione del dovere di dissuasione gravante sull'avvocato in conformità agli orientamenti di legittimità richiamati dalla Corte di merito, successivamente confermati anche da Cass. N. 24544/2009 e da Cass. n. 6782/2015 . 5.2. I1 secondo motivo è infondato a fronte della `esiguità' e della genericità dell'espressione considerata, non risulta apprezzabile il denunciato scostamento dai criteri ermeneutici segnatamente quello di cui all'art. 1367 c.c. e la doglianza si risolve -a ben vedere nella sollecitazione ad attribuire ad un'espressione non univocamente significativa il senso voluto dal ricorrente. 5.3. Il terzo motivo è inammissibile per incongruenza fra il vizio denunciato e le ragioni sviluppate nell'illustrazione della censura lungi dal precisare con quali affermazioni ed in quali termini la Corte abbia errato nell'applicazione delle norme richiamate nella rubrica, il ricorrente si limita a sostenere la fondatezza della domanda proposta dalla Palei nei confronti del D. e del L., senza censurare specificamente le affermazioni -in iure con cui la Corte ha rigettato il quarto motivo di appello. 6. Le spese di lite seguono la soccombenza. 7. Trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, ricorrono le condizioni per l'applicazione dell'ars. 13, comma 1 quater dei D.P.R. n. 115/2002. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere alla contro ricorrente le spese di lite, liquidate in curo 1.000,00 di cui euro 200,00 per esborsi , oltre rimborso spese forfettarie e accessori di legge. 1i sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.