Avvocati: le norme più favorevoli sopravvenute in materia disciplinare non riguardano la prescrizione

L'art. 65, comma 5, l. n. 247/2012 - ai sensi del quale l'entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificatamente abrogate e le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli all' incolpato - disciplina esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico che disciplinano l’illecito, con la conseguenza che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell'irretroattività delle norme.

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 19488 depositata il 30 settembre 2015, nell'affrontare un caso disciplinare inerente un avvocato, formulano meglio, ribadiscono , importanti principi. Si segnala in particolare la tematica dell'applicabilità o meno anche ai procedimenti disciplinari pregressi delle norme più favorevoli dettate dalla nuova legge professionale, con particolare riguardo all'istituto, sempre molto delicato, della prescrizione. Il caso. Un avvocato aveva falsamento attestato la presenza del figlio, praticante avvocato, a diverse udienze. Infatti, il figlio si trovava in altro luogo per adempiere agli obblighi di leva. Veniva aperto un procedimento penale per falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità art. 481 c.p. , che si concludeva con una sentenza di patteggiamento. In sede disciplinare, l'incolpato veniva sanzionato dal Consiglio dell'ordine di appartenenza con la censura. Proposto impugnazione avanti al CNF, la sanzione veniva ridimensionata in quella dell'avvertimento. Seguiva il ricorso per cassazione. Azione disciplinare e procedimento penale il termine inizia a decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza. Nel caso previsto dall'art. 44 R.D. n. 1578/1933 ratione temporis applicabile, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale, il titolo dell'azione disciplinare, obbligatoria, è costituito dalla pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Di conseguenza, la prescrizione dell' azione disciplinare decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alia condotta. Resta pertanto irrilevante, secondo la disciplina del precitato art. 44, il periodo decorso dalla commissione del fatto all'instaurazione del procedimento penale, anche se in tale periodo il COA, venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare, né l’indicata disciplina è mutata per effetto dell'art. 653 del nuovo c.p.p Sotto altro profilo, posto che l'art. 653 c.p.p., anche a seguito di detta modifica, si riferisce ai procedimenti disciplinari davanti alle pubbliche autorità , deve ritenersi che la pregiudizialità operi anche nella fase amministrativa del procedimento, escludendo la decorrenza del termine prescrizionale, a prescindere dall'effettiva sussistenza di un provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare, e tale sospensione si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale. Si applica la disciplina più favorevole sopravenuta in tema di prescrizione degli illeciti disciplinari? II terzo comma dell' art. 56 della precitata legge, entrata in vigore il 2 febbraio 2014, pur prolungando il termine di prescrizione dell' azione disciplinare a sei anni, al terzo comma dispone che in nessun caso il termine stabilito dal comma 1 può esser prolungato di oltre un quarto e quindi complessivamente non può superare i sette anni e mezzo. Perciò, poiché i fatti addebitati sono del 1997 e la decisione del CNF è del novembre 2013, l’azione disciplinare sarebbe prescritta anche a voler far decorrere il termine dall'apertura del procedimento disciplinare nel marzo 2005 e tale norma, essendo più favorevole, è di immediata applicazione anche nel giudizio di cassazione. Inoltre, l' art. 65, comma 5, della nuova legge professionale, pur riferendosi alle norme del codice deontologico, espressamente dispone che quelle che saranno emanate in base al principio di tipizzazione saranno applicate ai procedimenti disciplinari in corso, se più favorevoli all' incolpato. Le SSUU rigettano la censura l’applicazione più favorevole non riguarda la prescrizione. Secondo gli Ermellini, anzitutto il principio di retroattività in mitius della legge penale, riconosciuto dalla Corte Europea come corollario di quello di legalità consacrato nell' art. 7 CEDU, concerne esclusivamente le disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono, ma non la prescrizione. Su queste basi è già stato affermato che la riduzione della durata del termine per estinguere l’illecito disciplinare introdotta dall'art. 56, comma 3, l. n. 247/2012 è inapplicabile alle fattispecie verificatesi nella vigenza del regime normativo precedente conclusione a cui le Sezioni Unite erano già pervenute n. 11025/2014 , riaffermando la natura amministrativa delle sanzioni disciplinari - il cui principio è l' assoggettamento della condotta al complessivo trattamento in vigore al tempo del suo verificarsi, salva un'espressa previsione di immediata applicazione della legge successiva più favorevole n. 15120/2013 - e l’inapplicabilità all' istituto della prescrizione dell'art. 65, comma 5, l. n. 247/2012, ai sensi del quale l' entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificatamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevole all'incolpato . Secondo la Sezioni Unite, l’appena menzionata disposizione disciplina esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico che disciplinano l’illecito, con la conseguenza che per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell'irretroattività delle norme. Il ricorso è stato quindi rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 24 febbraio – 30 settembre 2015, n. 19448 Presidente Rovelli – Relatore Chiarini Svolgimento del processo Il COA di Palermo, a seguito di sentenza penale del GIP emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. per il reato di cui all’art. 481 c.p., avviò procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. D.G.F. con delibera del 17 marzo 2005 contestandogli di aver attestato falsamente la presenza del figlio, dott. D.G.F. , praticante avvocato, alle udienze del 21 febbraio, 18 marzo, 25 marzo, 8 aprile, 2 maggio, 6 maggio, 12 maggio, 13 maggio, 17 maggio e 30 maggio, giorni in cui egli era impegnato in altra sede per assolvere agli obblighi di leva, così violando le norme di correttezza che debbono essere osservate dal professionista e recando disdoro alla classe forense e, con delibera del 20 marzo 2008, dichiarò l’avv. D.G.F. responsabile degli addebiti infliggendogli la sanzione della censura. Con sentenza del 20 marzo 2014 il C.N.F. ha accolto soltanto parzialmente l’impugnazione dell'avv. infliggendogli la meno grave sanzione dell’avvertimento sulle seguenti considerazioni 1 la prescrizione dell’azione disciplinare - obbligatoria ai sensi dell’art. 44, comma 1, della L.P. - decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale ed è pertanto irrilevante il decorso del quinquennio dalla data di commissione del fatto - 1997 - alla data di apertura del procedimento - 2005 - poiché solo dalla data in cui la sentenza penale - a cui va equiparata quella di patteggiamento - diventa irrevocabile, si verifica il presupposto a cui la norma collega l’obbligo dell’esercizio dell’azione disciplinare 2 nella fattispecie il passaggio in giudicato della sentenza di patteggiamento è avvenuto nel 2003 e quindi nel 2005 il termine di prescrizione non era decorso 3 i fatti contestati, pur mancanti dell’anno di riferimento, erano specifici ed erano stati oggetto di approfondita istruttoria penale, conclusasi nel 2002, e l’avv. nelle sue memorie si era ampiamente difeso, sì che l’omissione era irrilevante, così come l’omessa indicazione delle norme violate attesa la specificità dei fatti 4 la sentenza del GIP integrava da sola l’ipotesi obbligatoria di azione disciplinare di cui al precitato art. 44 R.D.L. n. 1578 del 1933 che richiama le norme di correttezza e clausole generali atipiche, e il patteggiamento della pena in concreto irrogata l’ipotesi di non conformità della condotta alla dignità e al decoro professionale. Ricorre per cassazione l’avv. D.G.F. che ha altresì depositato memoria. Motivi della decisione 1.- Con il primo motivo deduce Violazione degli artt. 44 e 51 R.D.L. n. 1578 del 1933. Carenza della motivazione sul punto per esser decorsi più di cinque anni dalla data di commissione del fatto - 1997 - alla data di apertura del procedimento - 2005 - senza atti interruttivi o apertura del procedimento e sospensione di esso in attesa dei procedimento penale, neppure dopo la notizia di rinvio a giudizio, e benché il Consiglio dell’Ordine avesse assunto informazioni dal professionista nel novembre 2001 mentre si svolgeva l’istruttoria preliminare penale. Perciò, in mancanza di sospensione del giudizio, non poteva ritenersi la decorrenza della prescrizione dal passaggio in giudicato della sentenza penale, bensì dalla data di cessazione della condotta 1997 . L’interpretazione dell’art. 44 L.P. era legittima fino all’entrata in vigore del nuovo c.p.p. che stabiliva l’unicità della giurisdizione ed il primato di quella penale. Successivamente, se sussiste pregiudizialità ed il procedimento pregiudicato ha natura giurisdizionale, deve essere necessariamente sospeso. Altrimenti il processo è facoltativamente sospeso e, in mancanza, decorre il termine di prescrizione, soggetto ad atti interruttivi ad effetto istantaneo nel procedimento dinanzi al COA, che è di natura amministrativa. La censura è infondata. Ed infatti è assolutamente consolidato il principio secondo il quale nel caso, previsto dall'art. 44 del R.D. n. 1578 del 1933 ratione temporis applicabile, in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l'azione penale, il titolo dell'azione disciplinare, obbligatoria, è costituito dalla pronuncia penale che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, con la conseguenza che la prescrizione dell’azione disciplinare decorre dal momento in cui il diritto di punire può essere esercitato, e cioè dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente un fatto esterno alla condotta. Resta pertanto irrilevante, secondo la disciplina del precitato art. 44, il periodo decorso dalla commissione del fatto all'instaurazione del procedimento penale, anche se in tale periodo il Consiglio dell'Ordine, venuto a conoscenza del fatto, abbia avviato il procedimento disciplinare, né l'indicata disciplina è mutata per effetto dell'art. 653 del nuovo codice di procedura penale S.U. 14985 del 2005, 10071 del 2011 . Peraltro, per effetto della modifica del precitato art. 653 cod. proc. pen. disposta dall'art. 1 della legge n. 97 del 2001 - per cui l'efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione, nel giudizio disciplinare, non è più limitata alla sentenza dibattimentale e si estende, oltre alle ipotesi di assoluzione perché il fatto non sussiste e l'imputato non lo ha commesso , a quella disposta perché il fatto non costituisce reato - qualora l'addebito abbia ad oggetto gli stessi fatti contestati in sede penale, si impone la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza del procedimento penale, ai sensi dell'art. 295 cod. proc. civ Ed infatti, posto che l'art. 653 cod. proc. pen., anche a seguito di detta modifica, si riferisce ai procedimenti disciplinari davanti alle pubbliche autorità , deve ritenersi che la pregiudizialità operi anche nella fase amministrativa del procedimento, escludendo la decorrenza del termine prescrizionale, a prescindere dall'effettiva sussistenza di un provvedimento di sospensione del procedimento disciplinare, e tale sospensione si esaurisce con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale S.U. 11309 del 2014 . 2.- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta Violazione dell’art. 56 della legge 31 dicembre 2012 n. 247. Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense . Il terzo comma dell’art. 56 della precitata legge, entrata in vigore il 2 febbraio 2014, pur prolungando il termine di prescrizione dell’azione disciplinare a sei anni, al terzo comma dispone che in nessun caso il termine stabilito dal comma 1 - sei anni - può esser prolungato di oltre un quarto e quindi complessivamente non può superare i sette anni e mezzo. Perciò, poiché i fatti addebitati sono del 1997 e la decisione del C.N.F. è del novembre 2013, l’azione disciplinare è prescritta anche a voler far decorrere il termine dall’apertura del procedimento disciplinare nel marzo 2005 e tale norma, essendo più favorevole, è di immediata applicazione anche nel giudizio di cassazione. Inoltre l’art. 65, comma 5, della nuova legge professionale, pur riferendosi alle norme del codice deontologico, espressamente dispone che quelle che saranno emanate in base al principio di tipizzazione saranno applicate ai procedimenti disciplinari in corso, se più favorevoli all’incolpato. La censura è infondata. Ed infatti queste Sezioni Unite - n. 14905 del 2015 - richiamata la sentenza della Corte Costituzionale n. 236 del 2011 secondo cui il principio di retroattività in mitius della legge penale, riconosciuto dalla Corte Europea come corollario di quello di legalità consacrato nell’art. 7 CEDU, concerne esclusivamente le disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono, ma non la prescrizione, hanno già sancito che la riduzione della durata del termine per estinguere l’illecito disciplinare introdotta dall'art. 56, comma 3, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 è inapplicabile alle fattispecie verificatesi nella vigenza del regime normativo precedente, conclusione a cui queste Sezioni Unite erano già pervenute - n. 11025 del 2014 - riaffermando la natura amministrativa delle sanzioni disciplinari, il cui principio è l’assoggettamento della condotta al complessivo trattamento in vigore al tempo del suo verificarsi - salva un'espressa previsione di immediata applicazione della legge successiva più favorevole S.U. n. 15120 del 2013 - e l’inapplicabilità all’istituto della prescrizione dell’art. 65, comma 5, della legge 31 dicembre 2012, n. 247 - che al secondo cpv. dispone L’entrata in vigore del codice deontologico determina la cessazione di efficacia delle norme previgenti anche se non specificatamente abrogate. Le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevole all’incolpato - in quanto la disposizione disciplina esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico che disciplinano l’illecito - S.U. 3023 del 2015 -con la conseguenza che per l'istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale dell'irretroattività delle norme innanzi richiamato. 3.- Con il terzo motivo censura Violazione dell’art. 47 R.D. n. 37 del 1934, degli artt. 112 cod. proc. civ. e 24 Costit. per l’indeterminatezza del capo di incolpazione e per omessa indicazione delle norme violate. Insufficienza della motivazione sul punto . Ed infatti il capo di incolpazione, la cui finalità è di consentire all’incolpato l’espletamento della difesa, è assolutamente inadeguato mancando l’indicazione del momento consumativo delle singole fattispecie contestate e l’indicazione delle norme asseritamente violate. Peraltro il professionista per anni ha esercitato la professione con correttezza e professionalità, sì da esser stato anche nominato Presidente del Consiglio dell'Ordine. A ciò si aggiunge che il C.O.A. ha omesso di valutare le risultanze probatorie e si è appiattito sulla valutazione del G.U.P., mentre lo stesso C.N.F. ha più volte dubitato della legittimità costituzionale delle norme del c.p.p. che conferiscono efficacia di giudicato alla sentenza di patteggiamento nel procedimento disciplinare a carico di avvocati, sia perché la sentenza di condanna non è equiparabile a quella di patteggiamento, sta perché si crea una disparità di trattamento tra chi è sottoposto a procedimento disciplinare e chi è sottoposto a procedimento amministrativo o civile, casi in cui il codice di rito nega efficacia di giudicato alla sentenza di patteggiamento. Inoltre le norme violano il diritto di difesa e il principio del contraddittorio. La censura è infondata. Ed infatti, premesso che ai fini dell’irrogazione di una sanzione disciplinare è necessario che all'incolpato venga contestato il comportamento ascritto in modo da consentirgli l’esercizio del diritto alla difesa, nella fattispecie, quanto all’omissione nel capo di incolpazione, dell’anno di commissione delle condotte, il C.N.F. ha ampiamente argomentato come il professionista ne era stato edotto non soltanto per l'istruttoria penale svolta sui medesimi fatti, ma anche perché assunto dal Consiglio ad informazioni nel 2001, come dal medesimo riconosciuto, mentre, quanto all’omissione dell’indicazione delle norme violate, è sufficiente la descrizione della condotta integrante la violazione deontologica e non è necessario il nomen juris o la rubrica della ritenuta infrazione, essendo il giudice disciplinare libero di individuare l'esatta configurazione della violazione in clausole generali o di valori posti nell’interesse pubblico, tra cui la probità, la lealtà, il decoro e la dignità professionale, ribaditi dal nuovo codice deontologico art. 1 punto 2 . Quindi il C.N.F., valutata anche la condotta del professionista nel chiedere di patteggiare la pena, ha considerato anche questo fatto processuale rilevante sotto il profilo deontologico del disdoro alla dignità professionale e al prestigio professionale punto 5 della motivazione riassunta in narrativa , in coerenza con quanto disposto dall'art. 5 del Codice deontologico forense. Quanto infine all’inidoneità della sanzione minima dell’avvertimento a svolgere la sua funzione tipica - e cioè esortarlo a non commettere altre mancanze, per un professionista da oltre 40 anni - il sindacato di efficacia a preservare gli interessi sottesi ai valori enunciati e ritenuti violati nella fattispecie, non spetta a questa Corte essendo riservato agli organi disciplinari il potere di adeguare la sanzione alla gravità ed alla natura dell'offesa arrecata ai prestigio dell'ordine professionale. 4.- Conclusivamente il ricorso va respinto. 5.- Stante la mancata costituzione degli intimati, nessun provvedimento va adottato sulle spese del giudizio di Cassazione. 6.- Sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 per il versamento del doppio del contributo unificato. P.Q.M. La Corte di cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Da atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 per il versamento del doppio del contributo unificato.