L’onere della prova a carico dell’avvocato per ottenere i propri onorari

Il cliente deve corrispondere all’avvocato gli onorari stabiliti nei suoi confronti dal giudice innanzi al quale il professionista ha proposto domanda di rimborso delle spese e di pagamento degli onorari, il cui ammontare può anche essere determinato sulla base della liquidazione operata dal provvedimento conclusivo del giudizio presupposto.

Così ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13400 depositata il 30 giugno 2015. Il caso. Un avvocato conveniva in giudizio, dinanzi al gdp di Piacenza, due suoi clienti per sentirli condannare al pagamento delle prestazioni professionali svolte a loro favore. I convenuti non contestavano il conferimento del mandato, bensì il quantum delle voci pretese. Il giudice adito accoglieva la domanda attorea, pronuncia impugnata dalle controparti in sede di appello contestando la quantificazione del credito, priva di qualunque sostegno probatorio. La Corte d’appello confermava la condanna al pagamento delle prestazioni professionali, fondando la propria sentenza sulla liquidazione già operata dal Tribunale innanzi al quale l’avvocato aveva patrocinato le odierne controparti. La prova del compenso spettante all’avvocato. Il provvedimento di seconde cure viene impugnato con ricorso in Cassazione con il quale i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver posto alla base della decisione la notula presentata dall’avvocato nel giudizio in riferimento al quale aveva espletato il mandato difensivo attribuitogli dai concorrenti. Questi chiedono dunque alla S.C. se la Corte territoriale avrebbe potuto avvalersi di una fonte di prova mai dedotta in causa dall’attore, sovvertendo così il principio dell’onere della prova e, soprattutto, se tale prova possa essere acquisita per relationem in assenza di contradditorio. La determinazione del compenso nel giudizio presupposto. Tale censura non si rivela meritevole di accoglimento. Se infatti la giurisprudenza di legittimità afferma costantemente che il cliente deve corrispondere all’avvocato e al procuratore da lui nominato gli onorari e i diritti nella misura stabilita nei suoi specifici confronti dal giudice innanzi al quale il professionista abbia proposto domanda di rimborso delle spese e di pagamento degli onorari professionali, il cui ammontare va determinato da detto giudice, indipendentemente dalle statuizioni contenute nel provvedimento che ha definito la causa cui le spese richieste si riferiscono , ciò non toglie che il giudice possa ritenere adeguata la liquidazione del compenso determinata dal giudice nel giudizio presupposto. La determinazione degli onorari di avvocato rientra infatti nel potere discrezionale dell’autorità giudiziaria e, se contenuta tra il minimo e il massimo della tariffa, la quantificazione non richiede una specifica motivazione, non potendo neppure formare oggetto di sindacato in sede di legittimità in assenza di specifiche censure relative alle singole voci tariffarie che si assumono violate. La libertà di convincimento del giudice. Allo stesso modo, la Cassazione nega ogni riconoscimento all’ulteriore doglianza relativa al regime probatorio di acquisizione delle prove indirette. Il principio dell’acquisizione delle prove consente al giudice la libertà di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, indipendentemente da quale parte le abbia prodotte in giudizio. Nel caso di specie il giudice non si è avvalso di documenti estranei al processo, bensì di atti relativi al giudizio presupposto comunque allegati dalle parti. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 12 marzo – 30 giugno 2015, n. 13400 Presidente Bursese – Relatore Falaschi Svolgimento del processo L'Avv. B.A. evocava dinanzi al Giudice di pace di Piacenza C.N. e D.M. per sentirli condannare, in solido al pagamento della somma di Euro 2.195,95, oltre accessori, a titolo di prestazioni professionali per avere difeso i medesimi in giudizio instaurato avanti al Tribunale di Piacenza. I convenuti nel costituirsi non contestavano di avere conferito il mandato, ma precisavano che lo stesso era stato indicato quale domiciliatario dall'avv. Be.Gi. in data 1.4.1996, succeduto nella loro difesa agli avv. G. e Ce.Lo. , per cui aveva proceduto al solo deposito della memoria di costituzione di nuovo difensore e poi della comparsa conclusionale e delle note di replica, per cui chiedevano che il professionista precisasse le voci pretese, predisponendo un progetto di parcella. Il giudice adito in accoglimento della domanda attorea condannava i convenuto al pagamento di Euro 1.933,72, oltre accessori, decisione che veniva appellata dinanzi al Tribunale di Piacenza dai C. - D. lamentando la erroneità della quantificazione del credito non suffragata da alcuna prova, che nella resistenza dell'appellato, respingeva il gravame. A sostegno della decisione adottata il giudice dell'impugnazione evidenziava che il credito fatto valere dall'avv. B. si fondava sulla liquidazione già operata dal Tribunale nel giudizio che avevano introdotto gli stessi appellanti, per cui nessun opinamento si rendeva necessario. Aggiungeva che con la lettera del 6.2.2002 prodotta dal professionista, con la quale il dominus della causa, avv. Be. , riconosceva specificamente gli importi dovuti al procuratore e domiciliatario avv. B. , gli appellanti erano stati resi edotti di quanto spettasse all'attore. Né gli stessi avevano dedotto argomentazioni di natura sostanziale sugli importi richiesti. Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Piacenza ricorrono i C. - D. sulla base di tre motivi, non svolte difese dall'intimato. Motivi della decisione Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere i giudici di merito liquidato il compenso al professionista senza che questi avesse assolto l'onere probatorio di produrre almeno un progetto di notula. Il motivo è inammissibile prima che infondato. Occorre premettere che il ricorso ratione temporis, in ragione della data di deposito della sentenza impugnata 26.11.2008 , soggiace al regime dei quesiti abrogato di cui al d.lvo n. 40 del 2006. Questa Corte ha avuto già modo di statuire in via generale che deve essere dichiarato inammissibile, per violazione dell'art. 366 bis c.p.c., il motivo nel quale l'illustrazione delle singole censure non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, riferito alla fattispecie esaminata nella sentenza impugnata e alle statuizioni di essa, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito, dovendosi escludere che il quesito possa desumersi implicitamente dalla formulazione dei motivi di ricorso, la quale non è sufficiente a integrare il rispetto del requisito formale specificamente richiesto dall'art. 366 bis c.p.c La proposizione di una pluralità di motivi, dunque, non accompagnata in modo alcuno dalla formulazione di idonei quesiti, comporta l'inammissibilità dei singoli motivi. Nella specie i ricorrenti hanno denunciato, con il primo mezzo, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., anche quale vizio di motivazione, senza però concluderlo con la formulazione di un quesito ovvero di una sintesi che rispecchi almeno parte delle censure proposte, in adempimento della prescrizione dell'art. 366 bis c.p.c Né può in ogni caso ritenersi che il quesito di diritto e la chiara indicazione del fatto controverso sarebbero in ogni caso presenti nell'illustrazione dei motivi, sottoposti all'esame di questa corte, poiché la prescrizione formale introdotta dalla norma in esame non può essere interpretata nel senso che il quesito di diritto e la chiara indicazione del fatto controverso possa desumersi implicitamente dalla formulazione dei motivi di ricorso, poiché una siffatta interpretazione si risolverebbe nell'abrogazione tacita della norma in questione che ha introdotto, a pena di inammissibilità, il rispetto di un requisito formale, che deve esprimersi, per i motivi da 1 a 4 dall'art. 360 c.p.c., nella formulazione di un esplicito quesito di diritto tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte -quesito che deve trovare la sua collocazione a conclusione dell'illustrazione di ciascun motivo di ricorso che, da sola, non è perciò sufficiente ai fini del rispetto della norma in esame. E per il n. 5 dell'art. 360 c.p.c., l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Pertanto, pur non richiedendosi specifici requisiti di forma, deve pur sempre essere formulato, nei casi da 1 a 4, a conclusione dell'istruzione di ogni singolo motivo ed in aggiunta ad essa, il quesito che deve segnare i confini della pronuncia del giudice, e nel caso del n. 5, la chiara indicazione del fatto controverso, o delle ragioni dell'insufficienza della motivazione. La formulazione del quesito richiesto dalla legge e la chiara indicazione del fatto controverso e delle ragioni dell'insufficienza della motivazione, nei termini innanzi specificati, non si rinvengono perciò nel primo mezzo, che pertanto va dichiarato inammissibile per violazione dell'art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, e applicabile nella specie ai sensi dell'art. 27 decreto citato, comma 2, trattandosi di ricorso contro provvedimento pubblicato dopo la data della sua entrata in vigore Cass. S.U. 26 marzo 2007 n. 7258 . Con il secondo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per avere errato nel porre a base della decisione la notula presentata nel giudizio definito con la sentenza n. 509 del 2001, trattandosi di giudizi diversi che soggiacciono a regole processuali autonome, soprattutto in materia probatoria. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto Dica La Suprema Corte se il Tribunale avrebbe potuto avvalersi di una fonte di prova mai dedotta in causa dall'attore sovvertendo il principio cardine dell'onere della prova e, soprattutto, se è concesso acquisire una fonte di prova per relationem senza che su tale questione venga svolto alcun contraddittorio . Il motivo non merita accoglimento. Il cliente è obbligato, al sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 61, conv. nella L. 22 gennaio 1934, n. 36 e del D.M. 24 novembre 1990, n. 392, art. 2, a corrispondere all'avvocato ed al procuratore da lui nominati gli onorari ed i diritti nella misura stabilita nei suoi specifici confronti dal giudice innanzi al quale il professionista abbia proposto domanda di rimborso delle spese e di pagamento degli onorari professionali, il cui ammontare va determinato da detto giudice, indipendentemente dalle statuizioni contenute nel provvedimento che ha definito la causa cui le spese richieste si riferiscono, avendo riguardo all'importanza dell'opera prestata, alla quantità di lavoro svolto dal professionista ed al valore economico e sociale dell'attività in relazione al risultato prefisso Cass. 22 dicembre 1994 n. 11065 . Pur vero detto principio, ciò non toglie che il giudice nell'alveo della fattispecie normativa, sulla applicazione specifica dell'ordinamento possa ritenere adeguata la liquidazione del compenso determinata dal giudice nel giudizio presupposto, dal momento che essa avviene sulla base del valore della controversia che ben può coincidere con il deductum ovvero con il decisum. Del resto la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo e il massimo della tariffa - non essendo contestato nella specie lo scaglione utilizzato per la quantificazione del dovuto - non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità se non quando l'interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate V. Cass. 23 giugno 1997 n. 5607 Cass. 19 ottobre 1993 n. 10350 . Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e pongono il seguente quesito di diritto Dica la Suprema Corte se sussistono dei limiti in tema di onere probatorio nel caso in cui l'attore si limiti solo ed esclusivamente ad utilizzare prove indirette senza che le stesse abbiano mai trovato ingresso nel giudizio davanti al Tribunale . Anche detto motivo non può trovare ingresso. In forza del principio dell'acquisizione delle prove, il giudice è libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio, con l'unico limite, riguardo alla configurabilità di domande implicitamente subordinate, che vi sia la necessità di svolgere, in relazione ad esse, indagini sopra diversi temi di fatto non introdotti ritualmente in giudizio Cass. 1 settembre 2004 n. 17561 Cass. 10 agosto 2004 n. 15408 . Nella fattispecie il giudice di appello non ha attinto documenti al di fuori del processo, risultando gli atti posti a fondamento del suo convincimento - relativi al c.d. giudizio presupposto - comunque allegati dalle parti, come la nota spese del difensore dei ricorrenti, avv.to Be. , con indicazione delle attività poste in essere, chiariti dal medesimo difensore, con la lettera del 6.2.2002, gli importi dovuti al suo procuratore e domiciliatario, avv.to B. . La sentenza impugnata ha adeguatamente esplicato le ragioni per cui ha ritenuto di condividere le conclusioni del giudice di prime cure, pur apportando alcune correzioni alla motivazione. Il ricorso va, pertanto rigettato. Nulla va disposto in ordine alle spese del giudizio di cassazione in assenza di difese da parte dell'intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.