Il cliente non risponde alle lettere del suo difensore e il diritto si prescrive: l’avvocato deve risarcirlo

Ai fini del giudizio di responsabilità professionale del difensore rileva il parametro della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione, di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., rientrando nell’ordinaria diligenza dell’avvocato anche il compimento degli atti interruttivi della prescrizione che, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica. La responsabilità dell’avvocato non può inoltre venir meno per il fatto che il cliente sia dotato, per scienza personale o per ragioni di lavoro, di un bagaglio di conoscenze giuridiche, posto che, con il conferimento dell’incarico professionale, l’avvocato è investito della piena responsabilità della gestione della vicenda processuale.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10527/15 depositata il 22 maggio. Il caso. La pronuncia in oggetto origina dal rapporto professionale concluso tra un avvocato ed un cliente per ottenere il risarcimento dei danni da quest’ultimo patiti a seguito di sinistro stradale, in aggiunta a quanto liquidato dall’INAIL, trattandosi di infortunio in itinere . Il difensore lasciava decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno del suo cliente, che adiva quindi il Tribunale subentrato alle competenze del Pretore, inizialmente adito l’accertamento della sua negligenza professionale con conseguente condanna per i danni subiti. L’avvocato si costituiva in giudizio resistendo alla domanda attorea e chiedendo in via riconvenzionale il risarcimento per la lesione subita alla propria immagine professionale. Il Tribunale, così come la Corte d’appello competente, accoglievano le domande attoree ritenendo inconferente l’argomentazione difensiva dell’avvocato che attribuiva alla mancata risposta del cliente ad una lettera - con cui egli chiedeva istruzioni circa i tempi di promozione del giudizio - la decorrenza della prescrizione, in quanto l’inerzia del cliente l’aveva portato a ritenere che la pratica potesse considerarsi conclusa. Avverso al sentenza di seconde cure, l’avvocato propone ricorso in Cassazione. Con i tre motivi del ricorso, egli si limita a proporre una diversa lettura degli elementi fattuali che hanno caratterizzato la vicenda, doglianze che non trovano accoglimento da parte degli Ermellini. L’interruzione della prescrizione è attività ordinaria dell’avvocato. La Corte di Cassazione coglie l’occasione per ribadire quanto già affermato in sede di merito circa la natura degli atti interruttivi della prescrizione, natura che deve essere ricostruita in termini di ordinarietà. Conseguentemente, ai fini del giudizio di responsabilità professionale del difensore che abbia lasciato decorrere il termine di prescrizione del diritto del suo cliente, rilevano le modalità di svolgimento dell’attività in relazione al parametro di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., ovvero quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Ora, rientra nell’ordinaria diligenza dell’avvocato il compimento degli atti interruttivi della prescrizione che, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo particolari casi di complessità della situazione di fatto. Le conoscenze giuridiche del cliente sono irrilevanti. La responsabilità dell’avvocato non può comunque venir meno per il fatto che il cliente sia dotato, per scienza personale o per ragioni di lavoro, di un bagaglio di conoscenze giuridiche, come il ricorrente lamenta con riferimento all’attività di assicuratore svolta dal suo cliente. Difatti, con il conferimento dell’incarico professionale l’avvocato è investito della piena responsabilità della sua gestione della vicenda processuale, non residuando alcuno spazio per una corresponsabilità a carico del cliente. Per questi motivi, il ricorso viene rigettata dalla Corte di Cassazione.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 febbraio – 22 maggio 2015, n. 10527 Presidente Russo – Relatore Cirillo Svolgimento del processo 1. T.A. convenne in giudizio, davanti al Pretore di Perugia, l'avv. P.M. , chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni conseguenti a sua negligenza professionale. A sostegno della domanda espose di essere rimasto vittima di un incidente stradale, di avere conferito mandato al professionista per la tutela delle sue ragioni ma che questi aveva lasciato inutilmente decorrere il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno. Si costituì l'avv. P. , chiedendo il rigetto della domanda attrice e avanzando domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione della sua immagine professionale. Con sentenza non definitiva il Pretore si dichiarò competente anche in relazione alla domanda riconvenzionale, qualificandola come posta ai sensi dell'art. 96 del codice di procedura civile. Soppresso l'ufficio del Pretore, il Tribunale di Perugia accolse la domanda e condannò l'avv. P. al pagamento della somma di Euro 25.822,84, pari al limite della competenza del Pretore originariamente adito, nonché alla rifusione delle spese di giudizio. 2. Proposto appello principale dall'avv. P. ed appello incidentale dal T. in ordine alla liquidazione delle spese, la Corte d'appello di Perugia, con sentenza del 18 giugno 2010, ha respinto l'appello principale, ha accolto quello incidentale, ha aumentato l'entità delle spese liquidate dal Tribunale in favore del T. ed ha condannato il professionista al pagamento delle ulteriori spese del grado. Ha osservato la Corte territoriale, dopo aver richiamato i passaggi salienti della motivazione resa dal Tribunale, che dovere primario del difensore è quello di tutelare, le ragioni del proprio cliente secondo la regola di diligenza di cui all'art. 1176 c.c. e che gli atti interruttivi della prescrizione non richiedono alcuna particolare e specifica competenza. Ha aggiunto la Corte che non assumeva rilievo il fatto che il T. avesse in passato svolto l'attività di assicuratore, come pure che egli non avesse risposto alla lettera del 2 maggio 1991 inviatagli dall'avv. P. , non potendo questo giustificare l'inerzia in ordine all'interruzione della prescrizione. La Corte ha poi condiviso la liquidazione del danno compiuta dal Tribunale, rilevando che la somma erogata dall'INAIL andava a coprire il solo danno risultante dalla diminuzione della capacità lavorativa, mentre non riguardava altre voci di danno. L'infondatezza dell'appello principale dava poi anche ragione del rigetto della domanda proposta dal professionista ai sensi dell'art. 96 del codice di rito. 3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Perugia propone ricorso l'avv. P.M. , con atto affidato a tre motivi. Resiste T.A. con controricorso. Le parti hanno presentato memorie. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , c.p.c., travisamento del contenuto del rapporto professionale intercorso, delle risultanze dell'istruttoria di primo grado e delle norme che disciplinano gli obblighi deontologici e di diligenza dell'avvocato. Il ricorrente, dopo aver ripercorso le tappe principali della vicenda, osserva che l'incarico a lui conferito dal T. era limitato alla fase preliminare stragiudiziale, senza il conferimento di un vero e proprio mandato professionale. Egli aveva riferito dei propri contatti con la società di assicurazione con lettera del 2 maggio 1991, rimasta priva di riscontro ed aveva precisato, con la raccomandata del 12 luglio 1991, di attendere istruzioni dal cliente circa i tempi di promozione del giudizio, anche ai fini della prescrizione. Data l'inerzia del T. , egli aveva ritenuto che la pratica fosse da considerare ormai come chiusa. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , c.p.c., travisamento delle risultanze istruttorie e carenza di motivazione sul falso incontro del luglio 1991 e sulla dedotta frode processuale. Osserva il ricorrente che i testi escussi in primo grado erano tutti familiari del T. , il quale era a conoscenza del termine di prescrizione, avendo svolto attività di assicuratore che il T. aveva curato personalmente la pratica con l’INAIL, trattandosi di infortunio in itinere, e che l'inerzia del cliente era da qualificare come frutto di un esplicito disegno speculativo nei confronti del professionista. 3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 , c.p.c., omissione per carenza assoluta di motivazione sulla domanda risarcitoria avanzata in via riconvenzionale, sulla dedotta frode processuale e sulla presunta risarcibilità di un danno ulteriore rispetto a quello liquidato dall'INAIL. Rileva il ricorrente, a questo proposito, che la domanda di condanna per responsabilità aggravata avrebbe dovuto comunque essere accolta, essendo evidente il carattere temerario della lite promossa dal T. . Dopo di che, richiamando circostanze in fatto già descritte, il ricorrente osserva che la società di assicurazione non avrebbe risarcito somme ulteriori rispetto a quelle già riconosciute dall'INAIL a titolo di infortunio in itinere . 4. I tre motivi di ricorso, connessi tra loro ancorché diversi nel contenuto e nella prospettazione, possono essere trattati congiuntamente e sono tutti privi di fondamento, quando non addirittura inammissibili. 4.1. La sentenza impugnata, sebbene con una motivazione stringata, ha ricostruito i termini di fatto della vicenda anche attraverso il richiamo alle affermazioni contenute nella sentenza di primo grado ed è pervenuta alle seguenti conclusioni 1 fra l'avv. P. ed il T. fu concluso un rapporto professionale al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti dal cliente in occasione di un sinistro stradale 2 è irrilevante il fatto che il T. avesse svolto l'attività di assicuratore, così come è irrilevante che egli non rispose alla lettera inviatagli dal professionista in data 2 maggio 1991, poiché l'attività di interruzione della prescrizione è tipica del difensore e non richiede alcuna particolare capacità tecnica né uno specifico impegno materiale 3 il danno risarcito dall'INAIL era riferibile alla sola lesione della capacità lavorativa e, come tale, non copriva tutto il territorio dell'illecito patito dal T. , sicché a carico dell'avv. P. rimaneva comunque un obbligo ulteriore. 4.2. È opportuno ricordare che l'affermazione relativa al carattere ordinario dell'atto di interruzione della prescrizione è conforme alla pacifica e consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ormai da tempo ribadito che ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176, secondo comma, c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione. Sotto tale profilo, rientra nella ordinaria diligenza dell'avvocato il compimento di atti interruttivi della prescrizione del diritto del suo cliente, i quali, di regola, non richiedono speciale capacità tecnica, salvo che, in relazione alla particolare situazione di fatto, che va liberamente apprezzata dal giudice di merito, si presenti incerto il calcolo del termine sentenze 18 luglio 2002, n. 10454, 28 novembre 2007, n. 24764, e 5 agosto 2013, n. 18612 . Va aggiunto, a questo proposito, che la responsabilità professionale dell'avvocato non viene meno per il fatto che il cliente sia dotato, per scienza personale o per ragioni di lavoro, di un certo bagaglio di conoscenze giuridiche, come l'odierno ricorrente pretende di far valere a propria difesa ciò in quanto l'incarico professionale, una volta conferito, investe l'avvocato della piena responsabilità della sua gestione, senza che possa attribuirsi alcuna forma di corresponsabilità a carico del cliente. 4.3. Fatta questa necessaria premessa, la Corte osserva che i motivi di ricorso si risolvono tutti nell'evidente tentativo di rimettere in discussione le circostanze di fatto così come accertate dalla Corte d'appello, allo scopo di ottenere in questa sede una nuova e non consentita valutazione del merito. Ciò vale, innanzitutto, per la doglianza, ampiamente sviluppata soprattutto nel primo motivo, relativa alla presunta inesistenza di un vero e proprio incarico professionale, mentre la sentenza impugnata ha invece riconosciuto l'esistenza del medesimo ma anche in riferimento alla ulteriore valenza da attribuire agli incontri successivi tra l'avv. P. ed il T. , in particolare per quanto riguarda le missive di sollecito. A questo proposito, anzi, va rilevato che il ricorso è anche carente per ciò che riguarda il rispetto dell'art. 366, primo comma, n. 6 , c.p.c., giacché esso, pur richiamando le lettere del 2 maggio e del 12 luglio 1991, non ne riporta il contenuto, per cui questa Corte non è posta neppure nella condizione di verificare l'esattezza di quanto riferito. Analoghe considerazioni vanno compiute in relazione alla presunta inattendibilità delle deposizioni testimoniali, punto che pure riguarda un accertamento di merito precluso in questa sede. D'altra parte, la rubrica stessa del primo e del secondo motivo di ricorso, contenendo entrambe il riferimento ad un presunto travisamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, dimostrano in modo palese come l'intero impianto delle censure esiga, per l'eventuale accoglimento, una nuova valutazione delle prove. 4.4. Non migliore sorte può riconoscersi al terzo motivo nel quale - oltre a ribadirsi che la causa sarebbe stata costruita su basi e presupposti falsi” - si rileva, tra l'altro, che la Corte di merito avrebbe dovuto accogliere la domanda di risarcimento dei danni proposta dall'avv. P. ai sensi dell'art. 96 del codice di procedura civile. Su questo punto la Corte perugina ha fornito una lapidaria ma comunque corretta risposta, osservando che l'infondatezza dell'appello dell'avv. P. comportava il conseguente rigetto della domanda di lite temeraria, la quale presuppone una soccombenza ed una condanna alle spese, entrambe inesistenti nel giudizio odierno. Deve poi ritenersi implicitamente respinta, com'è ovvio, la pretesa del ricorrente di individuare nel comportamento del T. un deliberato disegno volto ad approfittare della situazione per ottenere una condanna nei confronti del professionista, addirittura ipotizzando una frode processuale. 5. Il ricorso, pertanto, è rigettato. A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 5.500, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.