L’avvocato si tutela con una polizza contro i rischi professionali, ma non è saggio mentire all’assicuratore

La polizza assicurativa stipulata dall’avvocato per i danni da attività professionale copriva anche i danni causati da comportamenti colposi anteriori alla stipulazione dell’assicurato, il quale, però, al momento della firma, doveva dichiarare di non essere a conoscenza di alcun elemento da cui poter supporre il sorgere di un proprio obbligo di risarcimento di danni per fatti antecedenti. Non ha quindi diritto alla garanzia assicurativa il legale che, 6 mesi prima dell’accordo assicurativo, tiene una condotta da cui deriva poi una sua responsabilità professionale, anche se al momento della stipula non aveva ancora ricevuto formali richieste di risarcimento, dovendo considerarsi comunque prevedibile una pretesa risarcitoria.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza n. 10290, depositata il 20 maggio 2015. Il caso. Un avvocato stipulava, nel novembre 1983, una polizza multirischi con una compagnia assicurativa per i danni causati nello svolgimento della propria attività professionale. In seguito, veniva convenuto in giudizio per una richiesta di risarcimento danni conseguenti ad un’appropriazione indebita della somma di 80 milioni di lire in relazione all’acquisto di un immobile. Condannato, per evitare l’espropriazione, veniva costretto a pagare al danneggiato una somma di circa 200 milioni di lire. L’avvocato comunicava, quindi, al commissario liquidatore della compagnia assicurativa, in liquidazione coatta amministrativa, l’intenzione di insinuarsi al passivo della procedura per ottenere, sulla base della polizza assicurativa, il recupero del proprio credito. Il commissario liquidatore escludeva tale credito, per cui il legale proponeva opposizione davanti al Tribunale di Milano, che disponeva l’ammissione del credito al passivo. Tuttavia, la Corte d’appello di Milano riformava la prima decisione e respingeva la domanda di ammissione al passivo. I giudici rilevavano che, nel maggio 1983, il legale aveva ricevuto la somma di 80 milioni di lire a titolo di acconto sul prezzo di acquisto di un immobile di cui era comproprietaria una sua cliente. Lo stesso giorno, l’avvocato aveva utilizzato la somma a titolo di deposito cauzionale per la conversione del pignoramento esistente su diversi beni di proprietà della sua cliente, la quale non aveva però mai dato il consenso alla vendita dell’immobile. Il pignoramento non era poi stato convertito, i beni pignorati erano stati venduti e l’avvocato si era rifiutato di restituire la somma incassata. Da ciò doveva dedursi la sua responsabilità professionale. Il fatto era avvenuto prima della stipula del contratto di assicurazione questo stabiliva la garanzia assicurativa anche per i danni relativi a comportamenti colposi anteriori alla stipulazione del contratto, benché si fossero manifestati dopo la stipulazione. Tuttavia, l’assicurato doveva dichiarare, al momento dell’accordo, di non essere a conoscenza di alcun elemento da cui poter supporre il sorgere di un proprio obbligo di risarcimento di danni per fatti antecedenti. Il contratto era stato stipulato 6 mesi dopo il fatto che aveva condotto alla sua responsabilità professionale, per cui l’operatività della polizza doveva essere esclusa, in quanto l’avvocato doveva essere ben consapevole del suo precedente comportamento. La sua condotta veniva quindi definita caratterizzata da una precisa e consapevole dichiarazione falsa . L’avvocato ricorreva in Cassazione, deducendo che la fattispecie doveva essere ricompresa nell’art. 1893 c.c. dichiarazioni inesatte e reticenze senza dolo o colpa grave , invece che nell’art. 1892 c.c. dichiarazioni inesatte e reticenze con dolo o colpa grave , avendo lui agito senza dolo o colpa grave. Le sue dichiarazioni reticenti non potevano quindi essere causa di annullamento del contratto o di rigetto della richiesta risarcitoria. Lamentava, inoltre, l’erronea applicazione dei principi sull’onere della prova la società assicurativa avrebbe dovuto dimostrare che il contraente fosse a conoscenza delle circostanze taciute e che fosse consapevole del loro valore determinante ai fini del consenso della controparte. Dichiarazione consapevolmente falsa. Tuttavia, secondo la Corte di Cassazione, il ricorrente non tiene conto di quanto affermato nella sentenza di merito, secondo cui la sua condotta si era caratterizzata per una precisa e consapevole dichiarazione falsa, a nulla rilevando che in quel momento egli non avesse ancora ricevuto formali richieste di risarcimento . Di conseguenza, alla luce di tale ricostruzione in fatto, era corretto l’inquadramento della fattispecie nell’ipotesi dell’art. 1892 c.c In più, sottolineano gli Ermellini, il sinistro si era verificato addirittura prima della stipulazione del contratto di assicurazione, per cui non vi sarebbe alcun dubbio sulla non operatività della polizza di assicurazione nel caso specifico . Il ricorrente metteva in luce la circostanza per cui aveva avuto cognizione della pretesa risarcitoria solo molto tempo dopo la stipulazione della polizza, cioè nel 1988, quando egli comunicava tutto alla società assicurativa. Ciò, però, era irrilevante, in quanto la responsabilità dell’avvocato era stata ricondotta alla prevedibilità dell’azione risarcitoria, pervenendo perciò alla conclusione della non veridicità della dichiarazione resa all’assicuratore . Si tratta di un accertamento in fatto, non sindacabile in sede di legittimità. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 26 febbraio – 20 maggio 2015, n. 10290 Presidente Russo – Relatore Cirillo Svolgimento del processo 1. L'avv. F.E. stipulò, in data 9 novembre 1983, una polizza multirischi con la società Nitloyd per i danni causati nello svolgimento della propria attività professionale. Successivamente, il professionista fu convenuto in giudizio da tale Giovanni Giovannini per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla appropriazione indebita, da parte sua, della somma di lire 80 milioni in relazione all'acquisto di un immobile. In quel giudizio egli fu condannato con sentenza definitiva e fu costretto, per evitare l'espropriazione, a pagare al danneggiato la somma di lire 206.832.703. A seguito di tale vicenda, l'avv. F. comunicò al commissario liquidatore della società Lloyd nazionale italiano, in liquidazione coatta amministrativa, la propria intenzione di insinuarsi al passivo della procedura per ottenere, sulla base della polizza assicurativa, il recupero del proprio credito pari ad Euro 106.820,17. A seguito della comunicazione, da parte del commissario liquidatore, della esclusione di detto credito, l'avv. F. propose opposizione, ai sensi dell'art. 98 della legge fallimentare, davanti al Tribunale di Milano. Si costituì la società di assicurazione, chiedendo il rigetto dell'opposizione. Il Tribunale accolse l'opposizione, disponendo l'ammissione del credito al passivo per la somma richiesta, con condanna della procedura alla rifusione delle spese di lite. 2. Avverso la sentenza è stato proposto appello dalla società soccombente e la Corte d'appello di Milano, con sentenza del 2 febbraio 2011, ha accolto il gravame e, in totale riforma della sentenza impugnata, ha respinto la domanda di ammissione al passivo formulata dall'avv. F. , contestualmente condannandolo al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio. Ha osservato la Corte territoriale che dalla sentenza di condanna emessa dai giudici di Trento nei confronti del professionista risultava che questi aveva ricevuto la somma di lire 80 milioni dal Giovannini a titolo di acconto sul prezzo di acquisto di un immobile di cui era comproprietaria una cliente dell'avv. F. . Nella stessa giornata, cioè il 10 maggio 1983, il professionista aveva utilizzato tale somma a titolo di deposito cauzionale per la conversione del pignoramento esistente su vari beni di proprietà della sua cliente ed era emerso che la medesima non aveva mai dato il proprio consenso alla vendita dell'immobile. Il pignoramento non era stato poi convertito e i beni pignorati erano stati venduti, mentre l'avv. F. si era rifiutato di restituire al Giovannini la somma di lire 80 milioni già incassata. Da tanto doveva dedursi, secondo la Corte d'appello, la sicura dimostrazione dell'esistenza della responsabilità professionale dell'avvocato, come del resto era stato accertato dalla sentenza di condanna definitiva emessa nei suoi confronti. E poiché il fatto che aveva dato luogo alla responsabilità era avvenuto prima che fosse stipulato il contratto di assicurazione, bisognava interpretare le clausole di quel contratto. Su questo punto, la Corte milanese ha rilevato che era esatto che, in base all'art. 2 delle condizioni di polizza, la garanzia assicurativa copriva anche i danni relativi a comportamenti colposi anteriori alla stipulazione del contratto, benché si fossero manifestati dopo tale stipulazione. Tuttavia, il secondo comma del medesimo art. 2 prevedeva che l'assicurato fosse tenuto a dichiarare, al momento dell'accordo, di non essere a conoscenza di alcun elemento dal quale potesse supporsi il sorgere di un proprio obbligo di risarcimento dei danni per fatti antecedenti. Pertanto, alla luce della ricostruzione dei fatti di cui sopra, la Corte d'appello ha ritenuto che l'avv. F. - siccome dotato di tutte le necessarie cognizioni giuridiche - aveva la sicura consapevolezza della possibile obbligazione risarcitoria conseguente al suo comportamento nella vicenda poi giudicata dai giudici di Trento. Egli doveva essere ben consapevole, alla data del 9 novembre 1983, del comportamento da lui tenuto il precedente 10 maggio 1983 sicché la sua condotta, caratterizzata da una precisa e consapevole dichiarazione falsa”, escludeva l'operatività della polizza di assicurazione. 3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Milano propone ricorso l'avv. F. , con atto affidato a cinque motivi. Resiste la s.p.a. Lloyd nazionale italiano, in liquidazione coatta amministrativa, con controricorso. Le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 del codice civile. Il ricorrente, dopo aver ripercorso le tappe principali della complessa vicenda, osserva che egli venne a conoscenza della pretesa risarcitoria avanzata nei suoi confronti soltanto nel 1988, momento in cui aveva comunicato la situazione all'assicuratore con la lettera raccomandata del 7 giugno 1988. Prima di quella data, egli non poteva avere alcuna consapevolezza di tale rischio, mentre il suo comportamento era stato corretto, avendo egli seguito le istruzioni della propria cliente cercando di ottenere la conversione del pignoramento. Non vi sarebbe quindi prova alcuna dell'esistenza di un disegno preordinato, da parte sua, volto ad ottenere un indebito rimborso da parte della società di assicurazione. 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1367, 1370 e 1371 cod. civ. relativi all'interpretazione del contratto. Osserva il ricorrente che le ragioni di cui al primo motivo troverebbero conferma anche nelle clausole del contratto interpretate dalla sentenza impugnata. L'esclusione della operatività della polizza presuppone, infatti, che i danni si siano manifestati, cioè siano stati portati a conoscenza dell'assicurato, mentre nel caso specifico il pregiudizio si era manifestato solo molto tempo dopo, quando la copertura assicurativa era ormai vigente. La chiara interpretazione del contratto non poteva che condurre al riconoscimento dell'esistenza del credito. 3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1892 e 1893 del codice civile. La fattispecie, secondo il ricorrente, dovrebbe essere ricompresa nell'art. 1893 cod. civ., in quanto il contraente ha agito senza dolo o colpa grave le dichiarazioni reticenti, quindi, non potevano essere causa né di annullamento del contratto né di rigetto della richiesta risarcitoria. La sentenza in esame, invece, avrebbe erroneamente applicato la ben più severa disciplina dell'art. 1892 cit., estranea al caso di specie. 4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3 , cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1892, 1893 e 2697 del codice civile. Si osserva che la sentenza impugnata sarebbe comunque errata, non avendo correttamente applicato i principi sull'onere della prova. La società di assicurazione, infatti, avrebbe dovuto dimostrare che il contraente era a conoscenza delle circostanze taciute e che fosse consapevole del loro valore determinante ai fini del consenso della controparte. 5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 5 , cod. proc. civ., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, rilevando che la Corte d'appello non avrebbe dato conto in alcun modo dell'iter logico seguito per giungere alla propria decisione. 6. I cinque motivi, benché tra loro diversi, sono da trattare congiuntamente in considerazione della stretta connessione che li unisce e sono tutti privi di fondamento. 6.1. Va premesso che la Corte territoriale, con un accertamento di fatto correttamente motivato e privo di vizi logici, ha ricostruito le principali tappe della vicenda in esame, nei termini che sono stati in precedenza riassunti. In particolare, i giudici milanesi hanno posto in luce che - non essendo in discussione che il fatto generatore della responsabilità professionale si collocava in un momento antecedente rispetto alla stipula della polizza di assicurazione - doveva essere valutata, ai fini del riconoscimento di operatività della polizza stessa, la prevedibilità dell'insorgenza di un obbligo risarcitorio in capo al professionista. Ed ha specificato la Corte che - anche ammettendo un'assoluta non consapevolezza nel momento in cui la somma fu incassata ed utilizzata per uno scopo diverso, ossia alla data del 10 maggio 1983 - l'avv. F. doveva avere la chiara percezione della probabilità di un'azione risarcitoria almeno alla data del 10 giugno 1983, quando il Giudice dell'esecuzione rigettò la richiesta di conversione del pignoramento, obiettivo per il quale la somma ricevuta dal Giovannini era stata destinata ad altro scopo. Sicché, tenuto conto delle sicure conoscenze legali derivanti dallo svolgimento della professione di avvocato, nel successivo mese di novembre 1983 l'avv. F. doveva essere ben consapevole di tutta questa pregressa situazione”, ma ciò nonostante egli si è ben guardato dal segnalare alcunché”, violando la condizione specifica posta nel contratto di assicurazione. 6.2. Tale complessa ricostruzione - che, come si è detto, appare del tutto logica, ragionevole e bene argomentata - determina innanzitutto l'evidente infondatezza del quinto motivo di ricorso, col quale si censura, in modo del tutto generico, la totale assenza di motivazione” da parte della Corte d'appello, la quale non avrebbe dato conto dell' iter logico-giuridico seguito il che non risponde affatto alla realtà della pronuncia in esame. Allo stesso modo, però, quanto detto fin qui dimostra l'infondatezza anche del secondo motivo di ricorso, col quale il ricorrente sostiene che la Corte di merito avrebbe violato numerose norme di legge in tema di interpretazione del contratto. La tesi del ricorrente è destituita di fondamento allorché si rifletta sul fatto che l'insistenza, contenuta nel motivo in esame, sul momento in cui il danno si è manifestato non coglie la ratio decidendi della sentenza in esame e si risolve nella sollecitazione ad ottenere da questa Corte una diversa interpretazione del contratto stesso. La Corte milanese ha interpretato le clausole del contratto di assicurazione ed è pervenuta alla conclusione - non sindacabile in termini di violazione di legge relativa alle norme di ermeneutica - secondo cui l'espressione non essere a conoscenza di alcun elemento che possa far supporre il sorgere di un obbligo di risarcimento del danno ” era tale da escludere l'operatività della polizza, in considerazione della ragionevole e doverosa prevedibilità di una richiesta risarcitoria. 6.3. Qualche ulteriore considerazione va fatta in relazione al terzo ed al quarto motivo, che lamentano violazioni di legge in riferimento ad alcune norme in materia di contratto di assicurazione. Va osservato, innanzitutto, che in relazione agli stessi potrebbero porsi anche alcuni rilievi preliminari di inammissibilità, poiché si tratta di questioni probabilmente nuove, né il ricorrente da conto del se e del come le stesse siano state poste in sede di giudizio di merito. Tuttavia, anche volendo tralasciare tali questioni formali, il terzo ed il quarto motivo sono parimenti infondati, in quanto muovono da una premessa che non è quella fatta propria dal giudice di merito. Il presupposto del ricorrente, infatti, è che la Corte d'appello avrebbe erroneamente applicato la disciplina dell'art. 1892 cod. civ. anziché quella dell'art. 1893 cod. civ. così facendo, però, il ricorrente non tiene conto dell'affermazione, contenuta nella sentenza in esame, secondo cui la condotta dell'avv. F. si era caratterizzata per una precisa e consapevole dichiarazione falsa, a nulla rilevando che in quel momento egli non avesse ancora ricevuto formali richieste di risarcimento”. Ne consegue che, questa essendo la ricostruzione in fatto operata dalla Corte di merito, è del tutto corretto l'inquadramento della odierna fattispecie nell'ipotesi dell'art. 1892 cod. civ. dichiarazioni inesatte e reticenze con dolo o colpa grave ed è appena il caso di evidenziare che il sinistro si è verificato addirittura prima della stipulazione del contratto di assicurazione, per cui non vi sarebbe alcun dubbio sulla non operatività della polizza di assicurazione nel caso specifico. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso, pertanto, sono rigettati. 6.4. Le argomentazioni precedenti danno ragione della infondatezza anche del primo motivo di ricorso, col quale si lamenta una lesione dei principi in tema di onere della prova. In esso il ricorrente insiste soprattutto sulla circostanza per cui egli avrebbe avuto cognizione della pretesa risarcitoria avanzata nei suoi confronti solo molto tempo dopo la stipulazione della polizza, ossia nel 1988, quando egli comunicò il tutto alla società assicuratrice. Ritiene il Collegio, però, che il motivo non colga la ratio decidendi della sentenza impugnata la quale, secondo quanto si è già ripetuto, ha ricondotto la responsabilità dell'avv. F. alla prevedibilità dell'azione risarcitoria, pervenendo perciò alla conclusione della non veridicità della dichiarazione resa all'assicuratore accertamento in fatto non sindacabile in questa sede e tale da consentire alla sentenza impugnata di resistere anche alle censure di cui al primo motivo di ricorso. 7. Il ricorso, pertanto, è rigettato. A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 8.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.