Violazione minimi tariffari: spetta al difensore la prova

Il mancato rispetto dei minimi tariffari non può essere provato sulla base di una indicazione, da parte del difensore, del tutto generica di un importo per tutte le pratiche, senza alcuna ulteriore specificazione. Il professionista, infatti, deve provare per ciascun parere il valore della pratica tratta al fine di poter determinare eventualmente la violazione dei minimi tariffari.

E’ stato così deciso nella sentenza n. 24860, della Corte di Cassazione, depositata il 21 novembre 2014. Il caso. Il Tribunale ingiungeva ad un ente il pagamento in favore dell’avvocato una somma a titolo di saldo, come stabilito da parcella, dei compensi dovuti per i parere pro-veritate , richiesti dall’ente stesso, in base all’incarico professionale conferito al difensore. L’ente si opponeva al decreto ingiuntivo. Il Tribunale, successivamente, revocava il suddetto decreto. La Corte d’appello confermava, poi, la decisione del Tribunale, rilevando che vi era stata prova convincente in atti degli accordi conclusi tra le parti sulla misura del compenso ed era pacifico che gli importi erano stati regolarmente corrisposti. Possibile derogare i minimi tariffari senza autorizzazione? L’avvocato ricorreva per cassazione, lamentando la violazione degli artt. 116 c.p.c. valutazione delle prove e dell’art. 24 l. n. 794/1942 Inderogabilità convenzionali degli onorari e dei diritti . In particolare il ricorrente chiedeva alla Corte Suprema se, in materia stragiudiziale, erri il giudice che ritenga che il professionista possa legittimamente pattuire un compenso in deroga ai minimi tariffari senza la preventiva autorizzazione ed approvazione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza . Mancava la prova. Il motivo è infondato. Spiega, difatti, la Cassazione che l’argomentazione del motivo è fondata sulla violazione dei minimi tariffari, che richiede, per essere valutata, la prova in ordine al valore di ogni singola prestazione e alla prestazione effettuata. Correttamente la Corte territoriale aveva rilevato, con motivazione adeguata, che la prova in oggetto era mancata. Nel dettaglio, la Corte d’appello ha chiarito che lo Studio professionale avrebbe dovuto provare per ciascun parere il valore della pratica tratta ai fini di poter determinare eventualmente la violazione dei minimi tariffari. La parte si era invece limitata ad una indicazione generica di un importo per tutte le pratiche pari o superiori a 30 milioni di lire, senza alcuna ulteriore specificazione, a fronte della prova fornita dall’ente circa il valore delle singole pratiche anche sulla base di un analitico tabulato delle stesse . In conclusione, la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 16 ottobre – 21 novembre 2014, numero 24860 Presidente Bursese – Relatore Parziale Svolgimento del processo 1. Così riassume la vicenda processuale la sentenza impugnata. Con decreto ingiuntivo numero 16526/95 emesso il 14 dicembre 1995, il Tribunale di Roma ingiungeva all'E.N.PA.F. il pagamento in favore de ricorrenti Associamone Professionale Studio di Assistenza e Consulenza legale Schiano e avv. S.A. della somma complessiva di lire 107.020.950 a titolo di saldo come da parcella numero 59/1994 dei compensi dovuti per numero 292 pareri legali pro veritate, richiesti dall'ENPAF in base ad incarico professionale conferito nel marzo 1979, in relazione ad altrettante domande di mutui ipotecari avanzate da iscritti all'Ente. Su opposizione tempestivamente proposta dall'E.N.PA.F., il Tribunale di Roma, con sentenza numero 36847/02 depositata il 30 settembre 2002 e notificata il 12 febbraio 2003, revocava il decreto ingiuntivo opposto e rigettava la domanda subordinata per il pagamento di complessive lire 8.760.000 a titolo di rimborso spese proposta in subordine dagli opposti, che condannava alla rifusione delle spese processuali. Rilevava il Tribunale, per quanto qui ancora rileva, come infondatamente i ricorrenti-opposti avessero richiesto importi superiori a quelli già ricevuti e determinati in ragione di lire 50.000 e poi di lire 80.000 per ogni singolo parere, dovendosi considerare, in sintesi a la lettera in data 27.4.1982, con la quale lo Studio Schiano chiedeva un adeguamento del compenso per ciascun parere da lire 50.000 a lire 80.000, comprensivo del 2% ex art. 11 legge numero 576/80 ed oltre iva, proposta accolta dall'ENPAF con delibera numero 419 del 14.5,82 che fissava il compenso in lire 92,000 compresa iva b il comportamento delle parti., avendo in particolare lo Studio Scoiano ricevuto dal 1982 al 24 febbraio 1989 i suddetti importi senza sollevare alcuna contestazione, e soprattutto avendo lo stesso solo dodici anni dopo, nel 1994 non risultando provata la comunicazione all'Ente dei 292 preavvisi di parcella datati 31.12.1986 , quantificato il credito nella diversa e madore misura pretesa in giudizio con la parcella posta a base del ricorso monitorio”. 2. La Corte di appello di Roma rigettava l'impugnazione proposta dagli odierni ricorrenti, rilevando che a non era necessario che l'accordo riguardante la misura del compenso dovesse rivestire la forma scritta b era ammissibile la prova per testi e presunzioni sulla base della peculiarità del caso, del principio di prova per iscritto costituito dalla lettera 27 aprile 1982, sottoscritta dall'avv. S. , rappresentante dell'Associazione professionale, che aveva chiesto un adeguamento del compenso a L. 80.000 e del comportamento delle parti, osservato per 12 anni dopo la lettera, relativo al pagamento da parte dell'Ente di tale importo per tutte le richieste successive. In definitiva, secondo la Corte di appello, doveva essere condivisa l'affermazione del primo giudice secondo la quale vi e prova convincente in atti degli accordi conclusi tra le parti sulla misura del compenso, ed è pacifico che tali importi convenuti sono stati regolarmente corrisposti agli odierni appellanti” . Quanto all'affermata violazione della inderogabilità dei minimi tariffali, trattandosi di pratiche tutte di importo superiore ai trenta milioni di lire, la Corte di appello osservava, in primo luogo, che tale principio, affermato in materia di onorari per prestazioni giudiziali, non era applicabile anche alle prestazioni stragiudiziali Cass. 7550 del 1987 e, in secondo luogo, che lo Studio professionale non aveva fornito la prova, della quale era onerato, del valore delle singole pratiche, a fronte della prova contraria fornita dall'Ente sulla base di un tabulato analitico delle pratiche , dalla quale risultava che l'importo di trenta milioni di lire per i mutui da erogare riguardava solo alcune pratiche e costituiva l'importo massimo richiesto. 3. Impugnano tale decisione i ricorrenti, che formulano quattro motivi e depositano memoria. Resiste con controricorso la parte intimata. Motivi della decisione Il ricorso è infondato e va rigettato in tutti i suoi motivi per quanto di seguito si chiarisce con riguardo a ciascun motivo. 1. Col primo motivo di ricorso si deduce Violazione e falsa applicazione artt. 2721, 2722, 2723 e 2724 c.c. art. 360 numero 3 c.p.c. ”. Viene formulato il seguente quesito Se erri il giudice che - in caso di contrasto fra i contraenti. - sullo effettivo contenuto di un contratto fra loro stipulato - ritenga che l’effettiva volontà degli stessi possa esser individuata con il ricorso alle presunzioni anche nei casi in cui - come nel caso di specie - non è consentito il ricorso alla prova testimoniale” . 1.1 — Il motivo è infondato. In primo luogo è inconferente il richiamo agli articoli 2722 e 2723 cod. civ. posto che non si verte in materia di patti aggiunti o contrari al documento. È applicabile, invece, l'articolo 2721 cod. civ., di cui la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del secondo comma, che consente una deroga al principio di cui al primo comma dello stesso articolo, deroga che è stata ampiamente motivata dalla Corte locale, in conformità ai principi applicati al riguardo da questa Corte. 2 - Col secondo motivo di ricorso si deduce Violazione dell'art. 116 c.p.c. - violazione legge 794/1942 art. 24 in relazione all’art. 360/3 c.p.c.”. Vengono formulati i seguenti quesiti 1. Se erri il giudice che ritenga che in materia stragiudiziale il professionista possa legittimamente pattuire un compenso in deroga ai minimi tariffati senza la preventiva autorizzazione ed approvazione del Consiglio dell'Ordine di appartenenza 2. Se, in mancanza di una preventiva autorizzazione ed approvazione del Consiglio dell'Ordine di appartenenza, una convenzione in deroga ai minimi tariffari di legge, in materia stragiudiziale, debba ritenersi illegittima, e, perciò, priva di effetti 3. Se l'esistenza di una convenzione verbale in deroga ai minimi tariffati di Ugge in materia stragiudiziale sia, del pari, illegittima, e di conseguenza, inefficace 4. - Se in materia di tariffe stragiudiziali - a fronte della richiesta dei soli minimi inderogabili - incontestabilmente non corrisposti - non sussista alcuna necessità che l'insufficienza della tariffa debba essere comprovata attraverso la dimostrazione dell'impegno profuso nella prestazione professionale” . 2.1 Il motivo è inammissibile e comunque infondato. Tutta l'argomentazione del motivo è fondata sulla violazione dei minimi tariffali, che richiede, per essere valutata, la prova in ordine al valore di ogni singola prestazione e alla prestazione effettuata, aspetto questo sul quale la Corte locale si è soffermata specificamente, affermando che tale prova è mancata, fornendo al riguardo anche una adeguata motivazione vedi sul punto anche il quarto motivo . 3. - Col terzo motivo di ricorso si deduce Violazione art. 1322 c.c. art. 360/3 ” . Viene formulato il seguente quesito se erri la Corte di Appello che ha fatto ricorso alle presunzioni in una materia in cui evidentemente vige il divieto di ricorso alla prova testimoniale non potendosi definire principio di prova scritta l'espressione, che si presta a più significati compenso contenuto in una missiva proveniente dal ricorrente” . 3.1 Il motivo è inammissibile per carenza di autosufficienza, nonché infondato. La censura si articola sul presupposto della errata interpretazione data dalla Corte d'appello alla richiesta di aumento del compenso formulata dallo studio professionale nell'aprile del 1982. Tale documento non è riportato in violazione del principio dell'autosufficienza e ciò non consente di valutare l'argomentazione prospettata dai ricorrenti, posto che la Corte territoriale ha invece ampiamente chiarito il fondamento della sua decisione, ancorandola anche a tale documento, valutato nel suo complesso come richiesta di aumento del compenso da 50.000 a L. 80.000, cui fece seguito poi un adeguamento delle richieste economiche da parte degli odierni ricorrenti, seguite dai relativi pagamenti nel medesimo importo effettuati dall'Ente. 4 - Col quarto motivo di ricorso si deduce Difetto di motivazione art. 360/5 ” . Si afferma che sussiste un vistoso difetto di motivazione non avendo il giudice esplicitato in alcuna maniera perché non abbia ritenuto che l'onere di allegazione dei fatti integrativi dell'effettivo impegno professionale profuso risultava, ictu oculi dalla produzione diparte e come nel decreto ingiuntivo vi fosse stata una specificazione per ciascun parere ”. Si osserva che il giudice di secondo grado essendosi limitato a riprodurre l'immotivata statuizione su cui si fonda la sentenza di primo grado, aggiungendovi come si è visto argomentazioni in palese contrasto con i predetti principi di diritto motivi 1 e 2 merita in pieno la censura di cui all'art. 360/5 c.p.c. per la quale come è noto, secondo codesta Suprema Corte, e Hnequivoco testo di legge non va formulato alcun quesito”. Si rileva che La decisione di primo grado è del tutto priva di motivazione giacché - il primo giudice non ha voluto vedere la copiosa documentazione prodotta e [ ] si è rifugiato nell'argomentazione della mancata specificazione delle ragioni che rendeva per ciascuno dei 292 pareri resi inadeguato il compenso di lire 80.000, asseritamele pattuito” . 4.1 Anche tale motivo è inammissibile e comunque infondato. Inammissibile perché deducendosi vizi di motivazione ex articolo 360 numero 5 c.p.c. doveva essere formulato il necessario momento di sintesi che manca del tutto. La censura prospettata sotto profilo dell'omessa motivazione doveva essere invece articolata con riguardo al 360 numero 4 cod. proc. civ., e comunque la motivazione della sentenza impugnata è adeguata e sufficiente, posto che la Corte ha chiarito che lo Studio professionale avrebbe dovuto provare per ciascun parere il valore della pratica trattata ai fini di poter determinare eventualmente la violazione dei minimi tariffali. La parte si era invece limitata ad una indicazione generica di un importo per tutte le pratiche pari o superiore ai 30 milioni di lire, senza alcuna ulteriore specificazione, a fronte della prova fornita dall'Ente circa il valore delle singole pratiche anche sulla base di un analitico tabulato delle stesse. Né può supplire tale genericità, che integra difetto di autosufficienza, l'aver dedotto, anche in memoria, che per ogni parere era stato indicato specificamente il valore, in mancanza di diversa analitica indicazione e a fronte della diversa affermazione in fatto della Corte locale. 5. Le spese seguono la soccombenza. P.T.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 3.000,00 tremila Euro per compensi e 200,00 duecento Euro per spese, oltre accessori di legge.