Confermata l’incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato e l’impiego pubblico part-time

È da escludersi un’abrogazione tacita delle disposizioni della legge n. 339/2003, che prevedono il divieto per il dipendente pubblico, ancorché part-time , di esercitare la professione di avvocato, per effetto della riforma delle professioni intervenuta nel 2011.

Questo perché – spiegano le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella pronuncia n. 27267 del 5 dicembre 2013 - l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente. Il caso. Un dipendente a tempo parziale del Ministero della Giustizia, nel 2001, si iscriveva all’albo degli avvocati di Brescia in virtù della disposizione dell’art. 1, comma 56, legge n. 662/1996, che consentiva tale doppia attività. Sebbene la successiva l. n. 339/2003 avesse imposto il divieto ai dipendenti pubblici di svolgere la professione di avvocato, il medesimo manifestava l’intenzione di continuare ad esercitare la libera professione pur mantenendo il rapporto di pubblico impiego. Il Consiglio dell’Ordine di Brescia, ritenendo sussistente l’incompatibilità, ordinava la cancellazione dall’albo dell’interessato. Quest’ultimo proponeva impugnazione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, che però confermava la decisione dell’Ordine bresciano, sicché il medesimo si rivolgeva alla Corte di Cassazione. Mantenimento del rapporto pubblico o mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati? Preliminare all’esame dei motivi di ricorso è – a giudizio delle Sezioni Unite – la valutazione del tessuto normativo che interessa le questioni sollevate. La prima disposizione che viene in rilievo è il comma 56 dell’art. 1, l. n. 662/1996, a norma del quale le disposizioni che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti a tempo parziale delle pubbliche amministrazioni, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno. Negli anni a seguire, vi è stato un cambio di rotta da parte del legislatore, dal momento che, con legge n. 339/2003 in particolare con l’art. 2 , ha disposto che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione all’albo sulla base della normativa del 1996 possono optare, nel termine di 3 anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno, ed il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego. La medesima disposizione ha poi disposto che in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal proprio albo. La riforma delle professioni del 2011. Ciò posto, le Sezioni Unite verificano l’impatto su tale disciplina della normativa di cui al d.l. n. 138/2011 convertito in legge n. 148/2011. Tale normativa ha solennemente sancito una serie di principi fondamentali in materia, tra cui, particolare rilievo ai fini della questione in oggetto, assume quello per cui l’accesso alla professione è libero ed il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio del professionista, nonché il principio dell’ammissibilità di limitazioni del numero di persone che possono esercitare una certa professione laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità. Il comma 5 bis, dell’art. 3, del decreto citato ha poi disposto l’abrogazione delle norme vigenti sugli ordinamenti professionali in contrasto con i principi affermati nello stesso decreto a far data dall’entrata in vigore del regolamento attuativo successivamente emanato con d.p.r. n. 137/2012 e, in ogni caso, dal 13 agosto 2012. La soluzione della permanenza dell’incompatibilità. Il Supremo Collegio è dunque chiamato a verificare se, per effetto di tale normativa, costituente jus superveniens nella controversia in oggetto, sia intervenuta un’abrogazione tacita della legge n. 339/2003 quanto all’incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio della professione di avvocato e l’impiego pubblico part-time. Al riguardo, le Sezioni Unite prevengono ad una soluzione negativa, dal momento che l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente. La legge n. 339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A. art. 97 Cost. e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa art. 24 Cost. . In particolare, la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente. Inoltre, il principio di cui all’art. 98 Cost. obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione non è facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni. Pertanto tale ratio , tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, esclude che con la normativa in oggetto si sia inteso introdurre dei limiti all’esercizio della professione forense o comunque delle modalità restrittive dell’organizzazione di tale attività. Nessun contrasto con la normativa comunitaria. Privo di fondamento è poi ritenuto il contrasto – prospettato dal ricorrente – della normativa in oggetto con i principi comunitari. Al riguardo, le Sezioni Unite opportunamente rilevano che la legge n. 339/2003 ha inciso sulle modalità di svolgimento del servizio presso enti pubblici e non sul modo di organizzazione della professione forense, con conseguente estraneità dei principi di concorrenza tra imprese al tema della libera circolazione degli avvocati nell’UE i dipendenti pubblici, d’altra parte, non svolgono servizi configurabili come attività economica, e la loro attività non può essere considerata come quella di un’impresa. In ogni caso, deve ritenersi che gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità. Senza dimenticare che la stessa Corte di Giustizia dell’UE, con sentenza del 2 dicembre 2010, ha ritenuto conforme ai principi comunitari una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo al loro cancellazione dell’albo degli avvocati. Ulteriori conferme nella riforma forense del 2012. Ad ulteriore riprova della soluzione cui sono pervenute, le Sezioni Unite aggiungono che la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense di cui alla l. n. 247/2012, ancorché non suscettibile di efficacia immediata nella controversia in oggetto, conferma l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione forense. Infatti, considerato che l’art. 65, comma 1, sancisce l’applicazione, fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti attuativi, delle disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate, e che l’art. 18 lett. d prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato anche con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato , ne consegue logicamente che non sono stati certamente abrogati dalla legge in esame gli artt. 3, r.d.l. n. 1578/1933 ed 1 e 2 legge n. 339/2003, che anzi sono riconducibili agli stessi principi informatori di cui all’art. 18 citato.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 8 ottobre – 5 dicembre 2013, n. 27267 Presidente Rovelli – Relatore Mazzacane