Agevola il fratello nell’esercizio abusivo della professione forense: giusta la sanzione dell’avvertimento

Gli atti di esercizio abusivo della professione non sono unicamente quelli compiuti davanti al giudice. E’ illecito anche consentire che il non abilitato curi pratiche legali.

Con la sentenza n. 22266, depositata il 7 dicembre 2012, la Corte di Cassazione ha ribadito quali azioni debbano essere ritenute esercizio abusivo della professione forense. Due fratelli avvocati. Un avvocato consente al fratello di trattare con continuità pratiche legali nel suo studio. Nonostante il parente non fosse più abilitato perché cancellato dall’albo. La sanzione disciplinare. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati rileva la violazione dell’art. 21 II canone del codice deontologico, per aver agevolato l’esercizio abusivo della professione da parte del fratello. Quindi lo sanziona con un avvertimento, richiamandolo sulla mancanza commessa ed esortandolo a non ricadervi. Esercizio abusivo è sufficiente predisporre ricorsi? L’avvocato sanzionato ricorre per cassazione avverso tale decisione. Ritiene che il delitto ex art. 348 c.p., sull’esercizio abusivo della professione, si riferisca solo agli atti compiuti davanti a un giudice. Anche se non compare in udienza, ci può essere esercizio abusivo. La Cassazione richiama la sua giurisprudenza, in particolare la sentenza n. 18898 del 6 aprile 2004, secondo la quale, per realizzare tale delitto è sufficiente che il soggetto non abilitato curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi, anche senza comparire in udienza . Giusta la sanzione. La Suprema Corte respinge quindi il ricorso, sottolineando che il fatto di aver consentito al fratello di frequentare il suo studio per ricevere clienti, trattandone le relative pratiche, è stato giustamente posto a fondamento della responsabilità disciplinare.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 20 novembre – 7 dicembre 2012, n. 22266 Presidente Preden – Relatore Ianniello Svolgimento del processo e motivi della decisione La Corte, premesso che con decisione depositata il 15 dicembre 2011 e notificata all'interessato il 2 febbraio 2012, il Consiglio nazionale forense ha respinto il ricorso proposto dall'avv. B.A. avverso la sanzione disciplinare dell'avvertimento, infettagli dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Varese che lo aveva ritenuto responsabile dell'illecito disciplinare di cui all'art. 21, II canone del codice deontologico forense, per avere agevolato, dal 12 luglio 2003 al novembre 2005, l'esercizio abusivo della professione da parte del fratello, avv. M.T B. , cancellato dall'albo degli avvocati di Lecco, consentendo che questi trattasse con continuità pratiche legali nel suo studio che con ricorso notificato il 24 febbraio 2012, l'avv. B.A. ha chiesto con due motivi l'annullamento di tale sanzione che nessuno degli intimati si è costituito che il ricorso deduce, col primo motivo, la prescrizione quinquennale dell'azione disciplinare a norma dell'art. 51 R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 e col secondo, l'eccesso di potere e la violazione di legge da parte del C.N.F. ritenuto, con riferimento alla deduzione di prescrizione quinquennale dell'azione disciplinare, che, sebbene questa, stante la natura pubblicistica della materia, possa in via di principio essere proposta per la prima volta o rilevata d'ufficio in questa sede di legittimità, sempre che il relativo esame non comporti indagini di fatto cfr., ex ceteris, Cass. S.U. 26.11.2008 o 11.3.2004 n. 5038 o 26 giugno 2003 n. 10162 , nel caso in esame essa non viene argomentata dal ricorrente con l'evidenziazione di specifici elementi del fatto, né questi ultimi emergono dagli atti di causa risultando pacificamente dalla decisione impugnata che l'azione disciplinare è iniziata il 28 aprile 2008 per fatti avvenuti tra il 12 luglio 2003 e il novembre 2005 sicché la deduzione deve ritenersi inammissibile ritenuto che il vizio di eccesso di potere denunciabile in questa sede di legittimità, a norma dell'art. 56 del R.D.L. n. 1578 cit., è unicamente quello concernente il potere giurisdizionale, concretantesi nell'esplicazione di una potestà riservata dalla legge all'autorità legislativa o a quella amministrativa o non attribuita ad alcuna autorità cfr. Cass. 10 febbraio 1998 n. 1342 o 23 marzo 2007 n. 7103 e rilevato che nessuna censura di questo tipo è formulata nel ricorso ritenuto che anche il motivo di ricorso che denuncia la violazione di legge è in parte inammissibile e in parte manifestamente infondato che esso è inammissibile, ove confusamente accenna alla disciplina di cui all'art. 42 c.p. o censura apoditticamente la decisione impugnata per irragionevolezza o per travisamento dei fatti per di più censura quest'ultima estranea all'ambito dell'ordinario controllo di legittimità della Corte che il motivo è manifestamente infondato, nella parte in cui invoca l'art. 348 c.p., sostenendo che gli atti di esercizio abusivo della professione di avvocato sono unicamente quelli compiuti davanti ad un giudice, in contrasto con la giurisprudenza uniforme della Corte di cassazione anche penale cfr., ad es. Cass. 6 aprile 2004 n. 18898, secondo la quale per realizzare il delitto di cui all'art. 348 c.p. è sufficiente che il soggetto non abilitato curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi, anche senza comparire in udienza che pertanto l'accertamento del Consiglio Nazionale Forense secondo cui l'incolpato avrebbe consentito che il fratello frequentasse il suo studio per ricevere i propri clienti, trattando poi le relative pratiche almeno in una occasione col legale avversario in sede di pignoramento è stato posto correttamente a fondamento della ritenuta responsabilità disciplinare dell'avv. A B. che il ricorso debba essere conseguentemente respinto, senza far luogo al regolamento delle spese di giudizio, non avendo gli intimati svolto difese in questa sede P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nulla per le spese.